Nella fabbrica dell’algoritmo
Come Godot, l’automazione non arriva mai. È una promessa che disciplina il lavoro di chi crea le app e gli algoritmi. L’intelligenza artificiale è fondata sulla forza lavoro di milioni di lavoratori digitali del clic e di miliardi di utenti delle piattaforme. Questo è il cuore del libro di Antonio Casilli Schiavi del clic, titolo scelto per l’originale francese, l’evocativo En attendant les robots (Aspettando i robot). Il volume pubblicato in Italia da Feltrinelli (pp. 320, euro 19), è uno dei capisaldi del dibattito materialista che ha rovesciato una delle mistificazioni del capitalismo contemporaneo. Abbiamo raggiunto l’autore a Parigi dove insegna sociologia all’università Telecom Paris.
Antonio Casilli, che cos’è il lavoro digitale?
È letteralmente il lavoro del digitus, del dito che clicca su un mouse o
su uno schermo, quando mettiamo «like» su un social, trascriviamo testi
digitalizzati, filtriamo i commenti su un blog. È l’addestramento umano
che permette agli algoritmi di diventare intelligenti. Non solo quello
degli informatici, ma anche di semplici utilizzatori e di operai del
clic disseminati nel Sud globale. Questo è il segreto dello sviluppo
della robotica intelligente e dell’automazione recente. C’è un filo
rosso che connette il nostro clic su una app a questa economia basata
sugli algoritmi.
Chi sono i lavoratori del clic?
Sono una nuova categoria di lavoratori che operano sulle piattaforme
digitali. Molto spesso sono esposti a situazioni di precarietà e di
subordinazione estrema anche se camuffata. Questo permette ai loro
datori di lavoro di qualificarli come freelance o collaboratori. Ma il
loro lavoro non è affatto libero. Questa realtà è ormai sotto gli occhi
di tutti: i ciclofattorini, gli autisti e operatori della consegna a
domicilio. A Milano è accaduto qualcosa di significativo: la
magistratura ha disposto il commissariamento di Uber Eats, una delle
aziende che operano nel settore del food delivery, a causa delle sue
pratiche di caporalato ai danni dei rider. È una situazione che permette
di capire le radici nello sfruttamento illegale del nuovo lavoro
digitale.
Nel suo libro emergono altre tipologie di lavoro digitale. Di cosa si tratta?
Oltre il lavoro on demand, il lavoro a chiamata dei rider e degli
autisti di Uber, ci sono altre due famiglie meno visibili: i lavoratori
del cottimo online e coloro che producono dati e contenuti sui social. I
primi svolgono mansioni iper-parcellizzate che servono ad addestrare le
intelligenze artificiali. Il pioniere di questo settore è stato Amazon
Mechanical Turk, piattaforma fondata una quindicina d’anni fa che
pubblica annunci di lavoretti che durano pochi minuti e permettono di
guadagnare qualche centesimo. Sui social, ci sono poi i moderatori su
Youtube o di Facebook, quelli che guardano video per filtrarli o
eliminano foto di violenze. Ma ci sono anche dei lavoratori nelle
fabbriche del clic che producono falsa viralità, falsi like o followers.
E per finire ci siamo noi utenti che produciamo informazioni
monetizzabili vendute a terzi. Questa è la vera ricchezza del
capitalismo digitale.
Perché il suo libro ci invita a diffidare della sostituzione del lavoro umano con i robot?
Oggi la robotica si basa perlopiù su tecnologie di machine learning,
l’apprendimento automatico che richiede dati e molto lavoro umano. La
«grande sostituzione» degli uomini con i robot è una menzogna, una
profezia che non si realizza mai. Ma, da quando ai teorici
dell’industrialismo come David Ricardo l’hanno introdotta nel XIX
secolo, è stata usata come una minaccia contro i lavoratori. Ci troviamo
in un periodo storico dove a livello mondiale sempre più persone hanno
un impiego, ma ancora più persone hanno lavori precari e atipici. Questa
enorme quantità di lavoro , è resa invisibile per essere controllata
meglio. I lavoratori sono considerati “servizi umani” o appendici delle
macchine che gestiscono e comunicano dati. Ma i dati sono prodotti
proprio dall’attività umana.
Durante il lockdown i rider e altri lavoratori digitali hanno
protestato per la mancanza di diritti e sicurezza. A che punto sono
queste lotte?
Nel caso dei rider e dei driver la lotta è sul riconoscimento dello
status di lavoratori subordinati. In alcuni paesi come California,
Spagna, Francia o Italia. ci si sta avvicinando, anche se molto resta da
fare. La corte di cassazione di Parigi ha sostenuto che ogni autista di
Uber è subordinato alla piattaforma e tale legame si manifesta in cui
apre una app. Durante la pandemia, Facebook ha dovuto ammettere che i
problemi con le fake news sono nati perché i suoi moderatori in Spagna o
in Irlanda non hanno lavorato a causa della quarantena. E questo ha
peggiorato la qualità della comunicazione sui social.
A suo giudizio, lo smart working modificherà il lavoro?
No. C’è una soglia che lo smart working non può oltrepassare, anche se
ci viene venduto come un inevitabile futuro da quarant’anni. Prima della
crisi sanitaria, negli Stati Uniti solo il 7% dei salariati
telelavorava regolarmente. Per lavorare da remoto bisogna avere una casa
spaziosa, connessioni e apparecchi adatti. Chiaro che soprattutto le
categorie socio-professionali più agiate hanno queste risorse. E non
tutti svolgono un lavoro che si può fare a distanza. Ecco perché, anche
in fasi di lockdown, in diversi paesi il telelavoro non ha mai superato
il 25% degli occupati.
Allo stesso modo, la didattica online cambierà l’istruzione?
L’apertura dell’anno accademico ci vede sprovvisti di materiale adatto e
senza una vera coordinazione. Siamo nella stessa situazione di marzo.
Non c’è stato un ripensamento profondo della didattica e dei contenuti.
Soprattutto nelle università, molti sperano di tornare presto al mondo
di prima. Da decenni il modello imposto è quello dei grandi campus
all’americana che fanno soprattutto investimenti immobiliari. Insegnare a
distanza significa abbandonare questo modello fatto di patrimoni
edilizi e rendite fondiarie. I dirigenti non sono pronti a farlo. E le
piattaforme approfittano della loro esitazione per vendere soluzioni
come Zoom o Microsoft che mantengono lo status quo.
Con l’associazione «La Quadrature du net» ha condotto in
Francia una battaglia contro le app di tracciamento del Covid. Per quale
motivo?
Lo abbiamo fatto in nome delle libertà civili e per denunciare
l’ingenuità di chi crede che queste app siano efficaci dal punto di
vista terapeutico. Essere contro la app non vuol dire opporsi al contact
tracing che esiste da decenni, fatto a mano attraverso le interviste
con professionisti sanitari per ricostruire i contatti di una persona.
Pensare di farlo automaticamente accresce la sorveglianza e la volontà
di risparmiare sulle assunzioni di personale specializzato. A sei mesi
dall’inizio del virus i governi hanno perso questa battaglia e le cifre
dei download lo attestano. Il più alto numero di installazioni pari al
27% c’è stato in Irlanda. In India, malgrado decine di milioni di
utilizzatori, poco più del 10%. In Italia e in Francia le cifre sono
ancora più basse.
Nel libro racconta un’altra storia del concetto di piattaforma che risale alla rivoluzione inglese del XVII secolo. Può essere utile oggi per affrontare i moloch del capitalismo digitale?
Certo. Il concetto di piattaforma è politico prima ancora che tecnologico. Oggi lo si usa ancora per parlare della «piattaforma programmatica» di un partito. Questa genealogia risale ai primi movimenti agrari anarco-cristiani come i Diggers che in Inghilterra intendevano la piattaforma come una legge naturale che supera la proprietà privata e il lavoro dipendente attraverso il governo dei commons. Oggi il capitalismo digitale ha trasformato la piattaforma in uno strumento alienante. Ma la sua storia rivela la possibilità di uscire dallo sfruttamento. A questa possibilità alludo nella conclusione del libro, quando parlo di un reddito sociale digitale. L’idea di reddito è stata manipolata in chiave workfarista, com’è accaduto in Italia con il reddito di cittadinanza dei 5Stelle o in senso neoliberale da chi vorrebbe remunerare ciascuno sulla base dei clic, vendendo i suoi dati alla Silicon Valley. Così ci troveremmo nella situazione in cui miliardi di persone sarebbero pagate con pochi centesimi come gli operai delle clic farms in Thailandia o in Cina. È la peggiore delle trappole. Il reddito sociale digitale è invece un modo di sottrarre alle piattaforme la ricchezza prodotta dalla forza lavoro e redistribuirla ai lavoratori stessi.
Roberto Ciccarelli
20/9/2020 https://ilmanifesto.it
Foto: «Handles», un’installazione di Haegue Yang allestita nell’atrio del Museum of Modern Art di New York nel 2019
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!