Nella palude dei servizi privati dove la ‘cosa pubblica’ diventa il motore dello sfruttamento e del profitto
Quante saranno le fatidiche stabilizzazioni dei precari nella Pubblica amministrazione? Poche, troppo poche rispetto ai numeri effettivi dei precari. Ma prima ancora di conoscere il numero degli stabilizzandi, iniziano ad agitarsi i detrattori dei diritti acquisiti. Dalle pagine di numerosi giornali si tuona contro i presunti privilegi dei precari pubblici, si parla senza costrutto e cognizione di causa , non esistono del resto diritti automatici, gli ostacoli normativi sono innumerevoli, per accedere in ogni caso ci sarà il concorso pubblico. E poi solo una esigua parte dei precari puo’ sperare che le loro stabilizzazioni siano inserite nei piani triennali di fabbisogno di personale. Forse in pochi ne sono a conoscenza ma gli enti pubblici continuano a favorire i processi di mobilità interni alla Pa, operazioni che stridono con la creazione di nuova occupazione. I detrattori del pubblico portano ad esempio il settore privato (dove vige il jobs act) puntando il dito contro non meglio definiti automatici meccanismi di assunzione dei precari per propinarci l’ennesima narrazione tossica. In questi anni ci siamo imbattuti, nelle aziende private, in una sorta di patto generazionale, sponsorizzato anche dai sindacati complici, con i padri che rinunciavano al tfr lasciando il posto di lavoro ai loro figli, uno scambio vergognoso sovente accompagnato anche dal pensionamento anticipato di 2\3 anni che decretava o il ricorso agli ammortizzatori sociali (tanto a pagare è lo stato e i neoliberisti fautori del mercato invocano da sempre finanziamenti pubblici ) o la rinuncia a un paio di anni di contributi rendendo cosi’ piu’ leggero l’ assegno previdenziale.
Sia sufficiente questo piccolo esempio per non accettare la provocazione e uscire dalla sterile contrapposizione tra pubblico e privato che oggi per altro sembra superata, non nel senso di favorire le privatizzazioni, ma perchè quel pubblico conosciuto un tempo non esiste piu’ da anni, seppellito a colpi di decreti legge e accordi sindacali a perdere. Ammesso e non concesso che pubblico sia stato sinonimo di privilegi, nel pubblico e nel privato vigono quasi le stesse regole in materia di lavoro. Inutile poi ricordare che il licenziamento nella Pubblica amministrazione già oggi esiste cosi’ come i codici disciplinari da caserma.
Innumerevoli amministrazioni comunali del Pd rivendicano la natura pubblica dei servizi a gestione privata, per loro basta una convenzione, qualche principio guida comune per dimenticare le differenze contrattuali e retribuive, le disparità orarie e di trattamento previdenziale. Magari, nel privato convenzionato, soprattutto se gestito dal terzo settore, capita che i contratti si interrompano con la chiusura del servizio per ferie o si pretendono mansioni inferiori e superiori da svolgere senza lamentela alcuna. E’ forse questo il nuovo modello di pubblico caro ad amministrazioni locali del Pd e Confindustria?
L’obiettivo perseguito dai padroni è quindi un altro e assai ambizioso: introdurre il demansionamento , farne sistematico utilizzo, e indistintamente nel privato e nel pubblico, adducendo la ragione organizzativa per inquadrare un lavoratore nel livello piu’ basso, pagarlo meno e in questo modo stravolgere anche i profili professionali oggi esistenti.
Analogo ragionamento viene sviluppato in materia di produttività ed incentivazione. Le presunte rigidità del pubblico sono una autentica leggenda, attraverso la performance e la contrattazione integrativa esistono forti disguaglianze salariali, piuttosto si guarda, nel privato, al rafforzamento della detassazione dei premi di risultato e alle misure del welfare aziendale esentasse, misure che si vorrebbero esportare in toto al pubblico impiego come anche le forme di previdenza e sanità integrativa da barattare con parte degli aumenti contrattuali che, a rigor di logica, dopo 9 anni di blocco dovrebbero essere già stati corrisposti.
Guardiamo ai primi contratti pubblici sottoscritti, al permanere, pur in altre forme, della Riforma Brunetta, alle valutazioni discrezionali dei dirigenti dalle quali dipende la erogazione di quote salariali crescenti che dovrebbero spettare di diritto a tutti\e (la famosa quattordicesima), agli orari multiperiodali che in sanità permetteranno di accrescere i carichi di lavoro già oggi intollerabili. E poi, quando si parla di Pubblico impiego, dimentichiamo il quasi decennale (e anticostituzionale) blocco dei salari e della contrattazione, le normative sempre piu’ inique miranti a ridurre il potere di contrattazione sindacale e quello di acquisto.
Ci pare evidente che parlare di un pubblico privilegiato rispetto al privato non corrisponda a verità e sia parte di quella narrazione tossica supportata da argomentazioni assai deboli. Allo stesso tempo, il pubblico e la sua difesa non puo’ avvenire acriticamente senza entrare nel merito del depotenziamento avvenuto per quanto concerne welfare e servizio pubblico, senza una valutazione obiettiva delle inefficienze presenti nella Pa.
A cosa serve allora la narrazione sui presunti privilegi del Pubblico? A promuovere demansionamento e maggiore facilità nel licenziare i\le dipendenti, se oggi il licenziamento avviene o per motivi disciplinari o per scarso rendimento, a seguito di una valutazione negativa triennale, l’obiettivo futuro è quello di avere maggiore libertà da parte dei datori di lavoro, codici disciplinari ancora piu’ severi, mobilità coatte del personale, applicazione di tutte le normative del privato che hanno sottratto tutele individuali e collettive.
Allo stesso tempo vogliono eliminare la possibilità della reintegrazione in caso di licenziamento e illegittimo e con essa anche l’indennizzo economico fino a 24 mensilità, preferiscono licenziare e cavarsela con 4\5 mensilità di indennizzo. Tutele crescenti allora per tutte e tutti, nel privato e nel pubblico, contratti diversificati e sfavorevoli per i neo assunti, sono questi gli obiettivi palesati in campagna elettorale dai padroni. Ma l’attacco ai lavoratori pubblici non finisce qui perchè in Confindustria parlano perfino di licenziamenti in caso di eccedenza di personale (sono oltre 500 mila i posti di lavoro perduti negli ultimi 7\8 anni), trasferimenti da una amministrazione all’altra (già oggi il dipendente non puo’ sottrarsi ad un trasferimento al contrario di quanto viene asserito dalla propaganda ideologica neoliberista) e su base regionale.
Il sogno padronale è rafforzare il jobs act e applicarlo ovunque, con esso la flessibilità, il demansionamento, i licenziamenti, la mobilità forzata, tagliare il salario accessorio con il ricatto della performance . E per rendere accettabile all’opinione pubblica questo disegno reazionario, si agita lo spettro dei privilegi pubblici, privilegi tuttavia inesistenti come pensiamo di avere già dimostrato. Siamo solo all’inizio della ennesima campagna denigratoria contro il pubblico, sarebbe opportuno attrezzarsi per respingerla in ogni ambito, sindacale, sociale e politico.
I numeri sono del resto noti, nella Pa 900mila dipendenti «over 60» nel 2021, praticamente quasi un terzo del totale della forza lavoro pubblica. E’ sufficiente questo dato per comprendere la necessità, anzi l’urgenza di un ricambio generazionale.
La situazione arriverà ben presto a livelli preoccupanti, nel 2021, quando esploderà la famosa gobba previdenziale ritardata solo dall’avvento della Fornero che ha trattenututo in servizio migliaia di lavoratori\trici della PA.
I dipendenti pubblici del futuro potrebbero essere assunti con contratti a tutele crescenti, con ampio margine di azione del datore di lavoro in materia di demansionamento, flessibilità, orario di lavoro, potrebbero esserci salari piu’ bassi per i neoassunti e altre regole capestro. Già nell’anno 2016, quasi 500 mila dipendenti avevano superato i 60 anni di età, un dato preoccupante frutto dei blocchi del turn over nell’ultimo decennio . Il rinnovamento degli organici e il cambio generazionale rappresentano una sfida ma anche l’occasione ghiotta per tagliare diritti presentandoli, alla occorrenza, come privilegi, vendendoli come tali con l’ausilio di media che ben si prestano alla campagna disinformativa.
Il ricambio generazionale , da qui a 4\5 anni, potrebbe portare a 500 mila nuove assunzioni a fronte di un numero maggiore (600 mila) di pensionamenti, altri 500 mila posti di lavoro sono andati perduti. Al termine di una stagione ventennale non sarà utopico parlare di quasi 1 milione di posti di lavoro in meno nella PA. E dopo i tagli salariali e occupazionali arriveranno anche le normative atte a esigere sempre piu’ prestazioni a costo zero, a quel punto la riforma della Pa sarà arrivata a compimento raggiungendo l’obiettivo prefissato ossia lo smantellamento del settore pubblico.
Federico Giusti
18/2/2018 www.controlacrisi.org
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