No al DDL Concorrenza

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“Andrà tutto bene!” avevano annunciato i governi, quando un minuscolo essere vivente, il Coronavirus-2, inceppando tutti i meccanismi della globalizzazione, aveva rinchiuso in casa più di metà della popolazione mondiale e bloccato tutti i flussi economici, produttivi, dei trasporti e della comunicazione.

E’ andata così bene che, dopo oltre 500 milioni di contagi, 6 milioni di morti e due anni di restrizioni della vita sociale, siamo precipitati dentro una guerra al centro dell’Europa, provocata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ma alimentata da molteplici attori statali e istituzionali, nessuno dei quali sembra volervi mettere fine e che rischia di precipitare tutte e tutti dentro l’orizzonte di una terza guerra mondiale.

Pandemia e guerra si innestano altresì dentro un tempo che sembra ormai solo scandito da periodi che, a partire da un evento scatenante, dischiudono orizzonti emergenziali globali.

Come in un tempo sospeso, in questi ultimi quindici anni siamo passati da una crisi finanziaria a una crisi sociale, da una pandemia ad una guerra, senza soluzione di continuità. E sullo sfondo, ma in maniera ormai non più rimovibile, ci troviamo immersi in una crisi eco-climatica che rischia di pregiudicare nell’arco di un tempo sempre più prossimo le stesse condizioni della vita umana sulla Terra.

Mentre lo scenario sopra descritto dovrebbe spingere ad una riflessione collettiva sugli elementi sistemici di questo susseguirsi di “crisi” e di “emergenze” e aprire l’orizzonte a profondi cambiamenti sociali ed ecologici, il modello liberista lo utilizza per proseguire sulla medesima strada di sempre, costruendovi intorno un telaio istituzionale ancor più autoritario.

E’ il caso di due provvedimenti normativi collegati alla Legge di Bilancio 2022: l’Autonomia Regionale Differenziata e il Ddl Concorrenza. Di che cosa si tratta?

L’Autonomia Regionale Differenziata prende avvio con la riforma del Titolo V della Costituzione, prevista dalla Legge Costituzionale n. 3 del 2001 e, prevede la possibilità, ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, di attribuire forme e condizioni di autonomia alle Regioni a statuto ordinario in tutte le materie – fino a 23- che la Costituzione attribuisce alla competenza legislativa concorrente.

Tre Regioni hanno già compiuto passi importanti in questa direzione sottoscrivendo pre-intese con il governo: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, che chiedono la competenza legislativa esclusiva rispettivamente su 23, 20 e 16 materie. Stiamo parlando di settori fondamentali per la vita delle cittadine e dei cittadini, quali, solo per citarne alcuni, istruzione, sanità, infrastrutture, beni culturali, ricerca, sicurezza sul lavoro, ambiente.

Se l’operazione andasse a buon fine e tutte le regioni ricorressero a questa possibilità, ogni regione avrebbe – ad esempio – la propria scuola o la propria gestione del territorio, emancipandosi definitivamente dalle norme generali che attualmente sono in capo allo Stato che, in quanto tali, definiscono in termini di eguaglianza i diritti che è compito della Repubblica garantire.

Si tratta di essere statalisti e di non riconoscere le specificità territoriali? Certo che no. Non ogni diversità territoriale va rigettata a prescindere, ma vanno senza ombra di dubbio respinte le differenziazioni che assumono le diseguaglianze come elemento propulsivo e di competitività per questo o quel territorio, ampliando le già sensibili distanze tra Nord e Sud, tra aree urbane e metropolitane e aree interne del Paese.

Differenziazioni siffatte conducono ad una vera e propria “secessione dei ricchi”, creando cittadini con diritti di cittadinanza di serie A e di serie B a seconda della regione in cui vivono. In pratica i diritti (quanta e quale istruzione, quanta e quale protezione civile, quanta e quale tutela della salute) diventeranno beni di cui le Regioni potranno disporre a seconda del reddito dei loro residenti. Quindi, per averne tanti e di qualità, non basterà essere cittadini italiani, ma cittadini italiani che abitano in una regione ricca.

Del resto, quale miglior dimostrazione del fallimento di ogni ipotesi di autonomia differenziata della gestione sanitaria della pandemia? La sostituzione del centralismo statale con venti centralismi regionali ha determinato il caos nei provvedimenti da prendere, con le gravi conseguenze che tutte e tutti abbiamo visto.

Un ulteriore aspetto va infine sottolineato. Il processo di autonomia differenziata è irreversibile e sottratto al controllo parlamentare. Infatti, una volta che le intese fra Stato e Regione vengono approvate dal Parlamento, tutto il potere di definizione degli specifici contenuti normativi e finanziari del trasferimento di competenze e risorse è demandato a Commissioni paritetiche Stato-Regioni e non possono essere modificate se non con il consenso delle regioni interessate; ed è assai difficile immaginare che esse, una volta ottenute competenze, risorse, personale, accettino di tornare indietro.

Se l’autonomia differenziata amplifica le diseguaglianze fra territori differenti, il Disegno di legge sulla Concorrenza e il Mercato, attualmente in discussione in Parlamento, è destinato ad amplificare le diseguaglianze fra le persone all’interno dello stesso territorio.

Il Ddl Concorrenza è una delle cosiddette “riforme abilitanti” concordate con l’Unione Europea per avere accesso ai fondi previsti dal Next Generation Eu, attraverso l’approvazione del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).

Che cosa prevede? Già la premessa è tutta un programma, laddove si afferma che il provvedimento ha lo scopo di “promuovere lo sviluppo della concorrenza e di rimuovere gli ostacoli all’apertura dei mercati (..) per rafforzare la giustizia sociale, la qualità e l’efficienza dei servizi pubblici, la tutela dell’ambiente e il diritto alla salute dei cittadini”.

Se dalle finalità generali passiamo allo specifico articolo (art. 6) sui servizi pubblici locali, va subito notato il salto di qualità messo in campo dal governo Draghi: per la prima volta si parla di tutti i servizi pubblici locali senza nessuna esclusione: Come si evince dall’unico passaggio – paragrafo d- in cui sono menzionati i servizi pubblici locali a rilevanza economica, in merito alla necessità di una loro ottimale organizzazione territoriale, il resto del provvedimento supera i precedenti tentatici di privatizzazione per l’estensione dei servizi coinvolti. Ad ulteriore conferma di questo allargamento del perimetro normativo valga il richiamo (paragrafo o) alla necessità di armonizzazione del testo con il Codice del Terzo Settore, che ovviamente riguarda i servizi sociali, culturali e sportivi.

Ribaltando a 360 gradi la funzione dei Comuni e il ruolo di garanzia dei diritti storicamente svolto dai servizi pubblici locali, il Ddl Concorrenza (paragrafo a) pone la gestione dei servizi pubblici locali come competenza esclusiva dello Stato da esercitare nel rispetto della tutela della concorrenza e ne separa (paragrafo b) le funzioni di gestione da quelle di controllo.

I paragrafi successivi sono un vero capolavoro di rovesciamento della realtà. Mentre all’affidatario privato viene richiesta –bontà sua- una semplice relazione annuale sui dati di qualità del servizio e sugli investimenti effettuati, ecco il tour de force che deve affrontare il Comune nel caso scegliesse la gestione in proprio di un servizio pubblico locale: dovrà produrre “una motivazione anticipata e qualificata che dia conto delle ragioni che giustificano il mancato ricorso al mercato” (paragrafo f); dovrà tempestivamente trasmetterla all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (paragrafo g); dovrà prevedere sistemi di monitoraggio dei costi (paragrafo i); dovrà procedere alla revisione periodica delle ragioni per le quali ha scelto l’autoproduzione.

Non soddisfatto di puntare alla privatizzazione delle gestioni, il governo prevede anche (paragrafo q) una revisione della disciplina dei regimi di proprietà e di gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, nonché di cessione dei beni in caso di subentro “anche al fine di assicurare un’adeguata valorizzazione delle proprietà pubblica, nonché un’adeguata tutela del gestore uscente”. In questo contesto, il richiamo –paragrafo t- alla partecipazione degli utenti nella definizione della qualità, degli obiettivi e dei costi del servizio pubblico locale suona come la beffa una volta determinato il danno.

Come si evince, si tratta del tentativo di mettere una pietra tombale sul referendum che nel giugno del 2011 aveva portato oltre 27 milioni di persone –la maggioranza assoluta del popolo italiano- a pronunciarsi contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali, per il riconoscimento dell’acqua come bene comune e per la sottrazione della sua gestione alle leggi del mercato.

Il combinato disposto dei provvedimenti per l’Autonomia Regionale Differenziata e del Ddl Concorrenza comporta un feroce attacco all’uguaglianza e universalità dei diritti delle persone, ai beni comuni e alla democrazia di prossimità, riproponendo il trittico ideologico “crescita, competitività, concorrenza” come faro delle scelte politiche ed economiche, legato al mantra, ripetuto alla nausea che “il benessere delle imprese determina il benessere della società”.

Come la crisi plurima – climatica, finanziaria, sanitaria, sociale, culturale e politica- del modello capitalistico ci ha insegnato, è radicalmente altra la strada da percorrere.
Occorre abbandonare l’economia del profitto e costruire l’orizzonte di una società della cura – di sé, degli altri e delle altre, del vivente e del pianeta- per approdare a un modello sociale che metta al centro la vita e la sua dignità, che sappia di essere interdipendente con la natura, che costruisca sul valore d’uso le sue produzioni, sul mutualismo i suoi scambi, sull’uguaglianza le sue relazioni, sulla partecipazione le sue decisioni.

Marco Bersani

coordinatore nazionale di Attac Italia e tra i promotori della Società della Cura

Editoriale del numero di maggio

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