Noi paura niente

Poco più di sei mesi fa un gruppo di operai, per lo più di origine indiana, ha occupato la fabbrica ProSus, nel cremonese. Storia di una lotta esemplare, nella filiera dell’industria del cibo

È il 17 ottobre 2023 quando un gruppo di operai, per lo più di origine indiana del Punjab, decide di occupare la fabbrica ProSus di Vescovato, alle porte di Cremona. ProSus è un macello e ha un ruolo primario nella filiera italiana della carne: dentro alle sue strutture si produce, tra le altre cose, il prosciutto di Parma, considerato una delle eccellenze del Made in Italy. Tra i mercati centrali per la fabbrica c’è quello della Cina, che chiude alle importazioni a seguito dell’ultima epidemia di peste suina. Insieme al mercato entra in crisi l’azienda che negli ultimi anni aveva condotto una serie di scelte industriali tanto ambiziose quanto fallimentari. Il quadro che si delinea è quello di decine di altre «crisi aziendali» nel nostro paese: un avvenimento imprevisto getta il settore nello scompiglio; manager e amministratori delegati si avvicendano cercando di mettere una pezza alla situazione critica; i creditori si fanno sentire e, per risanare i buchi nel bilancio e pagare i debiti, si decide di procedere alla vendita degli stabilimenti. Un impianto come quello di Vescovato, tecnologicamente avanzato e recentemente dotatosi di nuovi macchinari, venduto con la metà del personale necessario a mandarlo avanti ha un minor costo del lavoro ed è quindi più appetibile per i compratori. Come spesso succede infatti i primi a fare le spese di questa «ristrutturazione» sono i lavoratori, in particolare quelli in appalto che all’interno di Prosus costituiscono circa un terzo della forza lavoro. Mentre ai dipendenti diretti spetta la cassa integrazione fino all’arrivo dell’acquirente, agli assunti tramite cooperativa viene semplicemente disabilitato il badge di accesso alla fabbrica, senza nessuna tutela né garanzia di tornare a lavorare. Dopo la rescissione dei contratti di appalto, le varie cooperative presenti in ProSus propongono ai lavoratori esternalizzati altri impieghi, spesso geograficamente lontani e impraticabili, nella speranza che si dimettano autonomamente rinunciando a Tfr e disoccupazione.

Spalla a spalla con tutti i fratelli


Era arrivato il nostro turno, noi non ci tiriamo indietro. Loro hanno fatto per noi solidarietà, anche noi facciamo solidarietà per loro. Perché alla fine penso che tutti stiamo lavorando nella stessa azienda da anni e anni. Mangiamo insieme, balliamo insieme e prendiamo anche i diritti insieme. La solidarietà per questo è importante per noi.

A fronte di questo quadro, il copione si sarebbe potuto chiudere così, con i lavoratori diretti in incerta attesa e gli altri spalmati in appalti lontani con l’obbligo di ricominciare tutto da capo. Invece, in quella fabbrica gli anni di lotta hanno cementato uno spirito di solidarietà inedito tra dipendenti e lavoratori esternalizzati, spirito che torna a farsi sentire il 17 ottobre con l’occupazione. A entrare nello stabilimento sono gli assunti diretti di Prosus che, ricevuta la notizia della fine del contratto per i loro colleghi delle cooperative, dichiarano che resteranno a oltranza all’interno della fabbrica fino a che «tutti i fratelli non verranno assunti». Questa forma di solidarietà di classe si muove dall’aver condiviso anni lungo la stessa linea produttiva, ma anche dai diversi cicli di lotte contro il sistema degli appalti in fabbrica che avevano portato, nel tempo, alcuni degli occupanti a essere internalizzati.
La differenziazione portata dal sistema degli appalti non si manifesta infatti solo nel differente trattamento di fine lavoro, ma era costitutivo dell’organizzazione del lavoro in fabbrica prima della crisi:

Nello stesso impianto di lavoro davanti a me una persona dipendente diretto prendeva circa 1.800 euro, 2000 euro. Invece i ragazzi delle cooperative cosa prendono? 900, 800. Perché?

Perché? Non ci si spiega come si possa lavorare lungo la stessa linea produttiva, con le stesse mansioni, ma diversa paga, diverso contratto e diverse tutele.
Molti dei lavoratori in appalto erano assunti con un contratto Multiservizi benché in fabbrica si occupassero di taglio carni, mansione da inquadrare nel contratto alimentari. Questa forma di sottoinquadramento contrattuale permette al datore di lavoro di risparmiare una media di 370 euro al mese – la differenza economica tra il contratto del settore alimentare e quello invece applicato dalle cooperative, il Multiservizi.
La distinzione tra dipendenti diretti e impiegati tramite cooperative non riguarda solamente il netto in busta paga. Per i dipendenti diretti, in caso di malattia, viene garantito il 100% dello stipendio, mentre per i lavoratori in appalto, questo può essere solo del 40/50%, grazie a regolamenti interni adottati dalle cooperative che includono una clausola che non prevede l’integrazione della parte datoriale. Inoltre, i dipendenti usufruiscono di un sistema di banca ore che gestisce le ore lavorate in eccesso o in difetto, mantenendo uno stipendio costante indipendentemente dai flussi di produzione. Al contrario, per gli operai delle cooperative, se c’è una riduzione del lavoro, si rimane a casa e si guadagna meno. I lavoratori così inquadrati sono facilmente sostituibili e quindi altamente ricattabili.

Si rende dunque evidente come il «perché» risieda ancora una volta nella tendenza capitalistica all’estrazione di profitto dallo sfruttamento della forza lavoro. La situazione che si riscontra dentro ProSus è infatti propria all’organizzazione del lavoro per esternalizzazioni che trova nell’alleanza tra aziende, cooperative e ispettorato del lavoro un metodo per fare dei lavoratori non soltanto una merce, ma una merce di scarso valore, usa e getta. «Hanno sempre detto così: ‘Non vuoi fare? Porta libera’». Non vuoi fare gli straordinari non pagati? Non vuoi sollevare mezzene di maiale tutto il giorno perché il tuo contratto Multiservizi prevede che tu faccia le pulizie? Non pensi che sia normale prendere 900 euro al mese mentre il collega che sta al tuo fianco, a fare il tuo stesso lavoro, ne prende il doppio? Porta libera, tradotto: allora vai a casa, non mi servi più e se ti vuoi lamentare devi parlare con la cooperativa che ti ha assunto, non con ProSus. È una situazione in cui i capi di fatto, quelli dell’azienda, si riconoscono come tali fintanto che ci sono da dare ordini e licenziare, ma sono pronti a nascondersi dietro il sistema di scatole cinesi degli appalti non appena ci sono delle responsabilità da assumersi.
Responsabilità a cui vengono però richiamati a rispondere dai lavoratori:

Quando siamo arrivati qui, non capivamo l’italiano, non avevamo la conoscenza di come prendere i diritti, ma vedevamo: un operaio prendeva un contratto diverso, un altro diverso, un altro diverso, perché? Noi non capiamo. Poi nel 2018 abbiamo incontrato il sindacato, l’Usb, che ci ha fatto sapere come prendere i diritti. Lì nasce una guerra.

È davanti a questa serie di contraddizioni che i lavoratori decidono di rivolgersi al sindacato e cominciare la loro «guerra». Una guerra che era di fatto già in atto, ma sempre agita contro di loro tramite lo strumento della frammentazione, volto a farli competere orizzontalmente l’uno contro l’altro, e che i lavoratori ProSus decidono nel tempo di assumere invece come possibilità propria da sviluppare in un antagonismo verticale. L’azienda viene così costretta a fare i conti con il fatto che l’energia umana non è una merce passiva, che una misura di forza lavoro non può essere comprata e usata come un chilo di patate. Le politiche aziendali volte all’esternalizzazione e alla precarizzazione della forza lavoro possono arrivare a un certo grado di sottomissione nella paura, ma esiste anche la possibilità di opporvisi. È questa possibilità che gli operai ProSus mettono sul piatto con la loro lotta.

Un minuto in più

Noi paura mai. In questa lotta, in questi ultimi 4 mesi, siamo sempre stati felici, abbiamo giocato a carte, abbiamo ballato e festeggiato le feste come il compleanno di ogni ragazzo. Noi mai paura. Per i nostri diritti, questo è l’unico strumento che abbiamo.

La fabbrica rimane occupata per 120 giorni, fino allo sgombero, avvenuto il 13 febbraio: i venti lavoratori che sono al suo interno non escono mai e si organizzano in modo da avere sempre qualcuno arrampicato sulle strutture dove si appendono le mezzene di maiale per rendere più difficile un possibile intervento delle forze di polizia. Da dentro arrivano foto e video: la lotta è gioiosa, c’è una radicata consapevolezza di stare dalla parte del giusto. Fuori si costruisce un presidio dove resistono anche quei lavoratori assunti in appalto, maggiormente toccati dai piani di ristrutturazione dell’azienda. È un presidio strutturato, pensato per durare, quasi una casa composta di un gazebo, assi di legno e teli cerati, qualche letto e una stufa che è rimasta accesa anche dopo lo sgombero.
La lotta dei lavoratori ProSus infatti continua. Lo fa perché non è solamente una lotta contro i licenziamenti, ma primariamente contro la paura: l’occupazione dello stabilimento prima e il resistere del presidio fuori dai cancelli poi, sono il grido di determinazione di quei lavoratori che si sono stancati di accettare sistematicamente le condizioni del proprio sfruttamento e hanno deciso che, se per vedersi riconosciuti i propri diritti c’è da lottare, non si tireranno indietro. In questo senso la vertenza va ben oltre le campagne cremonesi: se la partita sull’internalizzazione dei dipendenti delle cooperative è tutta aperta e passa per i canali della negoziazione sindacale, questa comunità in lotta ha già ottenuto una prima vittoria, quella della dignità che si sono voluti riprendere nei mesi di presidio permanente, nelle notti passate con i materassi in fabbrica, in quel «fino a un minuto in più dei padroni» che risuona negli scambi attorno alla stufa.

Voi italiani un po’ troppo tranquilli eh?

Abbiamo fatto questa lotta perché siamo contro questo sistema di appalti e con tutti i miei fratelli, indiani, alcuni marocchini e anche africani abbiamo cominciato questa lotta perché loro hanno lavorato qui per tanti anni. Dopo tanti anni che una persona lavora in un posto, non gratis: dando le sue spalle, la sua schiena, il 100 per 100, l’azienda ora vuole buttarli fuori dicendo che è in crisi. No, non é una cosa giusta.

No, non é una cosa giusta. Per i lavoratori ProSus è la semplice auto-evidenza di questa constatazione a essere sufficiente per rifiutare il disegno padronale a loro riservato a fronte della crisi. Non stupisce che la rivendicazione di «stesse condizioni per tutti» venga da un gruppo di lavoratori a maggioranza sikh, una comunità che storicamente ha abolito il sistema delle caste e sostituito i cognomi con il Singh universale in segno di uguaglianza. Quel che stupisce è che una simile rivendicazione sia diventata difficile da immaginare per tutti gli altri, per una classe lavoratrice che sconta la frammentazione che l’ha divisa in mille frazioni in competizione per il salario e che fatica a ripartire dalla constatazione dell’ingiustizia della situazione che vive.

La lotta di questi lavoratori permette di riaffermare senza indulgenze la presenza di un conflitto verticale capitale-lavoro che troppo spesso ci hanno fatto credere finito insieme alla Storia. Allo stesso tempo, dimostra come la classe lavoratrice può e deve prendere parte in questa dialettica. Primariamente, riacquisendo coscienza di sé stessa. Se lo smantellamento post-moderno in 50 sfumature di classe media ha mistificato la materialità della realtà in cui continuano a esistere oppressi e oppressori, questa lotta ci aiuta a ricordare come sia necessario riconoscere da quale parte si è e da quale parte si vuole stare. Da questo riconoscimento, si rende possibile diventare una forza di conflitto attiva che, nella pluralità, sa rimanere compatta contro la sua controparte, nella pratica testarda del proprio obiettivo.
Questo i lavoratori ProSus ce lo hanno testimoniato con la costanza del loro impegno, fuori e dentro la fabbrica: «noi siamo stati qui fuori sempre, con il freddo, con la pioggia. Abbiamo visto le nostre tende andare via con il primo vento, i materassi portati via con lo sgombero. Noi continuiamo, fino alla fine» ci dice uno degli operai in appalto al presidio.
Per molti di noi solidali abituati alla frenesia dell’agenda politica degli spazi «di movimento» che attraversiamo, la possibilità di stare accanto a una comunità in lotta così determinata ha ricordato e insegnato come è solo nella continuità dello stare nelle lotte che si possono porre le basi per costruire una credibilità e una solidità capace di dettare delle priorità politiche indipendenti dalle esigenze dell’azienda del caso e dalle istituzioni.
Nel clima di generale criminalizzazione delle lotte e disillusione rispetto alla loro efficacia diffuso nel nostro paese, la presenza di lotte come quella dei lavoratori ProSus diventa stimolo per aprire spazi di agibilità lì dove c’era impossibilità, solidarietà dove c’era competizione, coraggio dove persiste la paura.

Teresa Ferraresi e Silvia Ruggeri sono studentesse universitarie interessate ai temi del lavoro e della migrazione. Hanno conosciuto la lotta dei lavoratori Prosus grazie all’attività del comitato di solidarietà cremonese “Un minuto di più” e da ottobre condividono con i lavoratori e i solidali momenti ai cancelli della fabbrica.

1/5/2024 https://jacobinitalia.it

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