Non cambiare tutto per non cambiare niente. Note sul nuovo (ennesimo) “Decreto sicurezza”
Con il Decreto legge pubblicato lo scorso 21 ottobre in Gazzetta Ufficiale (il n. 130, che dovrà essere convertito in legge dal Parlamento entro la fine dell’anno) siamo giunti al quinto “Decreto sicurezza” in quattro anni, dopo quelli di Minniti del 2017 e quelli di Salvini del biennio 2018-2019. Il Decreto appena entrato in vigore, a lungo richiesto dal PD e dalle forze di sinistra che sostengono il Governo, avrebbe dovuto finalmente sancire il superamento delle politiche securitarie volute dal leader della Lega e sostenute, in verità senza troppi travagli interni, dal M5S. Tuttavia, se si va ad analizzare nel merito la novella, ci si rende subito conto che i Decreti “Salvinissimi” non sono stati affatto superati e che il loro impianto normativo non è stato minimamente stravolto.
Il nuovo “Decreto Lamorgese” (vogliamo chiamarlo così?), infatti, è un mix di populismo penale e di criminalizzazione della povertà e dell’emarginazione sociale, a partire ovviamente dai richiedenti asilo. Basiti lascia la lettura delle motivazioni in premessa, laddove il Governo rileva “la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre disposizioni in materia di diritto penale”: ora, a parte la giustificazione del tutto apodittica – quali sarebbero queste ragioni urgenti? Il preambolo al Decreto non lo dice: una simile giustificazione sarebbe il segno di una vera e propria emergenza democratica in atto nel Paese, come nei periodi più bui della storia repubblicana. Siccome non risulta che il Presidente del Consiglio sia stato rapito da gruppi sovversivi (esistono forse le “Brigate Rousseau” ?), sembra ormai di essere passati dalla tragedia alla farsa, con un Governo che invoca con straordinaria superficialità ragioni emergenziali che non esistono, per introdurre tra l’altro modifiche minime alla legislazione vigente, in piena continuità con quel populismo penale che ha caratterizzato le politiche securitarie della destra nell’ultimo decennio.
E così, da un lato, non scompaiono le sanzioni alle navi delle ONG, ma si riducono soltanto gli importi da pagare, mentre le multe si trasformano da amministrative in penali; dall’altro, invece, cavalcando gli avvenimenti di cronaca delle ultime settimane, si aumenta fino a sei anni la pena massima del reato di rissa e non c’è bisogno di essere raffinati giuristi – basta leggere i giornali – per sapere che ai presunti autori dell’omicidio di Colleferro è stato contestato l’omicidio preterintenzionale, prima, e quello doloso, poi, ma non certo la rissa.
Inoltre, il “Decreto Lamorgese” prevede il giudizio direttissimo per i delitti commessi con violenza alle persone o alle cose dagli stranieri trattenuti nei centri di espulsione, in questo modo criminalizzando ulteriormente le proteste che ciclicamente si verificano in questi luoghi di detenzione in cui delle persone, soltanto perché sprovviste di un regolare permesso di soggiorno, vengono private della loro libertà senza un processo costituzionalmente degno di questo nome, visto che i giudici di pace che convalidano i trattenimenti non sono magistrati e normalmente non possono comminare pene detentive, né agli italiani, né tanto meno agli stranieri. Ma di adeguare la normativa vigente ai princìpi del giusto processo al Governo poco interessa, molto meglio insistere con la “tolleranza zero”, così da poter essere premiati alla prossima tornata elettorale.
Anche per questo motivo, il “Decreto Lamorgese” mantiene in vigore i Daspo urbani, introdotti da Minniti e moltiplicatisi con Salvini, Daspo che vengono addirittura estesi ai luoghi della movida nei confronti di chi sia stato semplicemente denunciato per spaccio, con buona pace della presunzione di innocenza e del garantismo penale. Per il resto non sono state minimamente modificate le norme del “Decreto Salvini” che reintroducevano il reato di blocco stradale e di accattonaggio molesto, quelle che colpivano i parcheggiatori abusivi e i movimenti per la casa, tutte finalizzate a criminalizzare il dissenso politico ed il disagio sociale, cavallo di battaglia delle destre negli ultimi anni e rispetto alle quali l’attuale Governo si mostra acquiescente.
Le cose non cambiano sul versante dell’immigrazione: oltre al fatto – come detto – che non sono state eliminate le multe alle navi delle ONG, la protezione umanitaria abrogata da Salvini è stata soltanto parzialmente reintrodotta, nel senso che la nuova protezione speciale si innesta nella rigida tipizzazione del precedente “Decreto sicurezza”, ampliandone di poco la latitudine applicativa, consentendo comunque la conversione di questo permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Ciò detto, rimangono le procedure accelerate di valutazione delle domande di asilo alla frontiera – che consentono al Ministero dell’Interno di darne un’istruttoria sommaria, non garantista –, mentre le ipotesi di trattenimento dei richiedenti asilo (vero monstrum giuridico che si applica persino a chi fugge dalla Libia o da conflitti sanguinari, perché privi di documenti di identificazione) addirittura aumentano, con buona pace del superamento del “salvinismo”.
Nulla invece per quanto riguarda la revoca della cittadinanza italiana, introdotta dal precedente “Decreto sicurezza” e che risulta palesemente in contrasto con l’articolo 22 della Costituzione, scritto dai Costituenti per ricordare al legislatore futuro di non ripetere gli orrori del passato – ossia revocare la cittadinanza agli ebrei o a qualche altra minoranza sociale e politica. Infine, della riforma dello ius soli e del riconoscimento facilitato della cittadinanza alle seconde generazioni nate in Italia si sono perse le tracce. In compenso, il “Decreto Lamorgese” riduce a 90 giorni i tempi di detenzione nei centri di trattenimento per gli stranieri, in questo modo continuando il balletto ventennale dell’aumento (destra)/riduzione (sinistra) dei tempi di trattenimento dei migranti irregolari, senza che sia stata fatta non dico una riflessione approfondita, ma almeno un ragionamento banale su quella che ormai è una evidenza, ossia che questi centri non soltanto non servono a ridurre il numero dei “clandestini” (che è invece il prodotto legale di una normativa che non prevede canali di regolarizzazione), ma non riescono neppure a perseguire l’obiettivo per cui sono stati istituiti, visto che non bastano né 90, né 210 giorni (come avveniva con il “Decreto Salvini”) per rimpatriare gli irregolari.
Decorsi i tempi massimi di trattenimento, infatti, i “clandestini” vengono liberati e continuano a vagare impunemente tra città e campagne, in attesa della prossima retata della polizia, di essere arruolati come bassa manovalanza dalla criminalità organizzata, oppure di essere docilmente sfruttati nei campi dai caporali e dai padroncini di turno.
Unica nota positiva del “Decreto Lamorgese” è la reintroduzione del sistema pubblico di accoglienza che era stato de facto smantellato dal precedente Governo e aveva portato migliaia di stranieri – spesso vulnerabili, incluse donne incinte e bambini – in mezzo alla strada, alla ricerca di soluzioni alloggiative di fortuna (leggasi baracche in periferia, prontamente demolite dai primi cittadini delle grandi città, a prescindere dalla loro appartenenza politica, in nome del decoro urbano). Inoltre si reintroduce il diritto dei richiedenti asilo all’iscrizione anagrafica (anche perché il precedente divieto di iscrizione era stato di recente dichiarato incostituzionale dalla Consulta), in questo modo consentendo loro l’accesso ai servizi sociali sul territorio, in primis alle cure sanitarie, che in questo periodo di pandemia dovrebbe essere davvero interesse di tutti.
Questo quindi il quadro, a prima lettura, del nuovo “Decreto sicurezza”, con la speranza – ma c’è da dubitarne – che qualche minimo miglioramento venga apportato in sede di conversione parlamentare nel corso dei prossimi due mesi.
In materia di sicurezza e immigrazione, ormai, le politiche introdotte da tutti i Governi negli ultimi anni, quale che sia stato il loro colore politico, consistono in meri provvedimenti fotocopia al ribasso, in termini di garanzie e di diritti, non soltanto degli stranieri, ma anche dei cittadini. E davvero lasciano perplessi le dichiarazioni del segretario del PD che, subito dopo la pubblicazione del “Decreto Lamorgese” in Gazzetta Ufficiale, proclama: “I decreti Salvini non ci sono più”; oppure quelle di Matteo Orfini e Nicola Fratoianni, apparse su “Il Manifesto” lo scorso 8 ottobre, in un articolo scritto a quattro mani in cui scrivono che le modifiche introdotte dal Decreto n. 130 “Sono andate decisamente oltre le pur sacrosante indicazioni del Quirinale”, anche se “Restano aperte molte questioni, a cominciare dal superamento della Bossi Fini”.
Ora, al di là del fatto che ci si potrebbe domandare – ma sarebbe troppo facile dare una risposta – dove fossero Orfini e Fratoianni negli ultimi 18 anni (la “Bossi-Fini”, ricordiamolo, è del 2002): in disparte il succitato quesito, quello che preme evidenziare in questa sede è che la c.d. legge “Bossi-Fini” non ha introdotto il reato di immigrazione clandestina (lo ha fatto Maroni nel 2009 e nessuno ha mai abrogato quella norma inutile, che nessuna Procura contesta e nessun giudice commina); la c.d. legge “Bossi-Fini” non prevedeva il trattenimento dei richiedenti asilo nei centri di detenzione (lo ha previsto il “Decreto Salvini”, mentre il Decreto n. 130 – come detto – ne ha persino aumentato le ipotesi applicative); la c.d. legge “Bossi-Fini” non ha introdotto procedure accelerate di valutazione sommaria delle domande di asilo alla frontiera (lo ha fatto Salvini, mentre l’attuale Decreto conferma queste procedure, limitandosi a razionalizzarle); la c.d. legge “Bossi-Fini” non ha introdotto la revoca della cittadinanza italiana (lo ha fatto Salvini e l’attuale Governo non ha ritenuto di dover abrogare questo istituto); infine, la c. d. legge “Bossi-Fini” non ha abolito la protezione umanitaria e il grado di appello nei giudizi in materia di protezione internazionale (queste “riforme” sono state fatte, rispettivamente, da Salvini e da Minniti, mentre l’attuale Decreto legge non reintroduce né la protezione umanitaria, né il grado di appello nei giudizi in materia di protezione internazionale, nonostante il 10 % dei ricorsi pendenti in Cassazione riguardi richiedenti asilo diniegati). Insomma, se comparata con il “Decreto Lamorgese”, la c.d. “Bossi-Fini” sembra una legge liberale e garantista e questo giudizio – che formulo senza alcuna intenzione di épater les bourgeois, ma con cognizione di causa, norme alla mano – credo sia la prova evidente del fatto che in materia di immigrazione e sicurezza abbiamo assistito nel corso degli ultimi vent’anni ad un regresso culturale e giuridico, a cui hanno dato il loro fondamentale contributo tutte le forze politiche parlamentari, sia quelle di destra, sia quelle di sinistra, sia quelle che orgogliosamente si dichiarano né di destra, né di sinistra.
Al di là quindi di una certa insulsa propaganda, che prova a nascondere le contraddizioni di una classe dirigente incapace di realizzare effettivamente ciò che proclama di aver fatto, sarebbe forse il caso di fermarsi un attimo a riflettere: se ancora ha un senso la distinzione tra destra e sinistra, forse sarebbe il caso che quella parte del ceto politico che ancora si definisce progressista, assuma consapevolezza del fatto che ha ormai introiettato acriticamente la peggiore cultura securitaria neo-liberale. E tutto sommato, a ben vedere, questa acquiescenza alle parole d’ordine della destra non ha neppure prodotto soddisfacenti risultati elettorali, semmai un effetto politico opposto, in termini di disaffezione del proprio elettorato di riferimento. Ma è ancora possibile, oggi, a sinistra, provare ad aprire una seria riflessione su questo? La domanda, che non è affatto retorica, ancora una volta rischia di rimanere inevasa.
Antonello Ciervo
Avvocato cassazionista e ricercatore in Diritto pubblico
28/10/2020 MicroMega
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