Non c’è lotta al negazionismo climatico senza lotta contro le «grandi opere»
Mentre, dopo le grandi foreste artiche, va in fiamme l’Amazzonia, torna in mente un passaggio del discorso tenuto da Matteo Salvini al Senato il 20 agosto scorso:
«Ovunque al mondo, se trovi del petrolio fai festa perché significa ricchezza e posti di lavoro […] Gli italiani vogliono crescere, vogliono sviluppo, vogliono strade, autostrade, porti, aeroporti, ferrovie…».
Discorso impregnato del più greve negazionismo climatico, lo stesso del piromane Bolsonaro e di altri leader dal ghigno feroce. Tuttavia, sarebbe consolatorio e assurdo identificare questo negazionismo solo coi Salvini e coi «sovranismi». A essere negazionista in materia di clima è il capitalismo stesso.
Il capitalismo è negazionista talora in modo esplicito, come nel caso di Exxon Mobil e altri giganti dell’industria dei combustibili che da anni finanziano le attività di presunti «scienziati scettici», ma lo è innanzitutto in modo implicito, intrinseco alla sua logica di fondo. Il capitalismo è negazionista nel suo tirare innanzi, nel suo darsi per scontato, unico modo di produzione possibile, eterno a dispetto del suo essere energivoro e distruttivo. There Is No Alternative ecc. ecc.
Negazionismo, greenwashing e diversivi
Il «realismo capitalista» è la cultura in cui siamo immersi, ed è negazionista dalle fondamenta. A essere impregnato di negazionismo climatico non è solo il dibattito politico in senso stretto – per l’ignavia dei suoi protagonisti, per il loro andare col pilota automatico o per il loro diretto asservimento agli interessi dei grandi emissori di CO2 – ma tutto il discorso pubblico.
Va subito sfatato un equivoco: «negazionismo» non è solo quello di chi nega ciecamente siano in corso sconvolgimenti climatici. Oggi la maggior parte delle persone sa che qualcosa di grave sta succedendo. L’informazione che consumiamo parla quasi ogni giorno delle conseguenze disastrose del surriscaldamento globale. Il problema è che lo fa incasellandole come notizie.
La ricerca del «news item» – di un singolo episodio extra-ordinario, che segni una discontinuità e si stagli temporaneamente sullo sfondo dell’abitudine – scompone il quadro, frammenta l’immagine del collasso climatico e descrive i pezzetti con un lessico che suona allarmistico e invece è consolatorio. Si parla di «mareggiate», «ondate di caldo», «periodi di siccità», insomma, di «emergenze»: accadimenti che appaiono improvvisi, momentanei e locali. Poiché il destino delle emergenze è quello di «rientrare», dopo le notizie sul clima si può passare ad altro.
È questo passare ad altro il nocciolo dell’ideologia dominante che prende forma nell’informazione. Trattare il collasso climatico come uno tra i molti argomenti disponibili è la più perniciosa forma di negazionismo. È questo negazionismo a infettare di sé l’intera semiosfera, dunque l’intera sfera pubblica.
Lo stesso lavorìo di frammentazione del quadro è all’opera con il greenwashing praticato da molte industrie, coi proclami vuoti di una parte del mondo politico, coi provvedimenti di facciata di governanti e amministratori. Lo spettacolo dell’adozione di questo o quel palliativo serve a dirci: «Tranquilli, il problema si può affrontare senza cambiare il sistema, senza sconvolgere la vostra vita quotidiana, senza rinunciare al tran tran». Tran tran che ne esce riconfermato e rafforzato.
Ciò vale anche per il cosiddetto «stato di emergenza climatica» chiesto da movimenti come Extinction Rebellion. Qui, nonostante le buone intenzioni, si rischia di servire il greenwashing su un vassoio d’argento alle istituzioni, che possono usare il «bel gesto» come diversivo.
Un plastico esempio lo fornisce la giunta milanese di centrosinistra, guidata dall’ex-amministratore delegato di Expo 2015 Giuseppe Sala. Il 21 maggio 2019 Sala dichiarava lo stato di emergenza climatica; poco più di un mese dopo lo stesso Sala, insieme a un buon numero di alti papaveri, festeggiava in modo scomposto, alzando belluine grida di giubilo, l’assegnazione a Milano e Cortina delle Olimpiadi invernali 2026. Cioè di un «grande evento» dispendioso, energivoro e distruttivo, devastante per ogni territorio che lo ha subito. Una kermesse sempre più sgradita, schivata da sempre più città, soprattutto perché genera voragini di debito pubblico e spinge chi l’ha ospitata nel baratro della shock economy neoliberista. Le Olimpiadi invernali 2006, per fare l’esempio a noi più vicino, hanno dato a Torino una mazzata dalla quale la città non si è mai ripresa.
Capitalismo italiano e centralità delle grandi opere: il paese dei «Sì» detti a cazzo di cane
Quanto descritto sopra non avviene solo in Italia, ovvio. Eppure mi sento di dire che qui avviene più che altrove, per ragioni che ho più volte cercato di spiegare, soprattutto parlando dei No Tav e di altre lotte contro grandi opere inutili e imposte.
L’immaginario italiano è plasmato dagli interessi dei settori egemoni nel nostro capitalismo, e dall’ideologia delle relative sezioni di borghesia. Capire quali siano è facile: follow the asphalt. Basta guardare a grandi opere, infrastrutture, cemento, tondino, mattone, edilizia, operazioni immobiliari, con tutti gli annessi e connessi.
La borghesia italiana, quando si chiede come estrarre valore, non sa immaginare altro che cantieri, consumo di suolo, cementificazione, betoniere che girano, colonne di camion per il movimento terra, e soprattutto lunghi nastri d’asfalto, viva le nuove strade!, automobili ovunque! «Una Penisola in automobile», cantava già nel 1975 Piero Ciampi, «una Penisola al volante, / questa bella Penisola è diventata un volante».
Cemento armato e asfalto sono il core business del capitalismo italiano; ne è riprova il fatto che l’Italia è «Paese leader a livello mondiale nelle infrastrutture». Sono italiane alcune tra le più importanti multinazionali del settore: Salini Impregilo, Astaldi, Cmc, Pizzarotti… Grandi player nelle costruzioni, e grandi attori dell’imperialismo economico italiano: insieme a multinazionali dell’energia come Eni ed Enel, i costruttori danno il “nostro” maggiore contributo al rapporto neocoloniale tra Nord e Sud del pianeta. Si pensi alla diga Gibe III costruita da Salini Impregilo in Etiopia, imposta dal governo alla popolazione locale a suon di repressione e deportazioni. Realtà invariabilmente coperta dallo spettacolo del Made in Italy.
Del resto, il rapporto tra imperialismo italiano e retorica sulle infrastrutture è di vecchia data: il nostro colonialismo non ha sempre assolto sé stesso dicendo che «in Africa abbiamo fatto le strade»?
Tornando al nostro territorio: non solo la borghesia italiana sembra incapace di immaginarsi altro che un sempre maggiore consumo di suolo, ma si lagna continuamente di non poter riempire ogni spazio.
L’Italia è tra i paesi europei con la più alta percentuale di terreno impermeabilizzato, cioè coperto da cemento e asfalto, e ha un altissimo indice di incremento annuo di consumo di suolo: ogni giorno scompaiono 15 ettari. In Italia si è realizzata qualunque schifezza o ecomostro e si è costruito pressoché ovunque, anche nelle golene di fiumi che presto o tardi esondano distruggendo tutto.
Da noi il maggior consumo di suolo è determinato non dall’edilizia abitativa ma da infrastrutture di trasporto, che occupano oltre il 41% del territorio edificato. Il nostro è un Paese pesantemente infrastrutturato. Pensiamo al Nord Italia fotografato nell’inquietante Atlante dei classici padani: le rotatorie da un ventennio infilate ovunque, gli svincoli, i megaparcheggi, le strade e autostrade, l’alta velocità…
(Per approfondimenti sul tema rimando all’Atlante del consumo di suolo, disponibile in ebook gratuito qui; per gli ultimi aggiornamenti, rimando invece al Rapporto Ispra sul consumo di suolo 2018, scaricabile in pdf qui).
Nonostante l’enorme mole di dati di fatto contrari, l’ideologia dominante continua a descrivere un «Paese dei No», un Paese «bloccato» dove non si può costruire. La classe dirigente continua a lamentarsi di una «carenza di infrastrutture», e ogni nuovo progetto di grandi opere viene giustificato da tali presunte «carenze», e ogni governo legifera per «sbloccare», cioè per imporre sempre più laissez-faire in materia di appalti e cantieri. Siamo passati dalla «Legge obiettivo» di Berlusconi del 2001 allo «Sblocca cantieri» gialloverde del 2019, passando per lo «Sblocca Italia» di Renzi del 2014.
Le grandi opere devono essere realizzate e basta, al di là dalla loro utilità e a prescindere da qualunque destino poi le attenda. Vengono costruite, dopodiché possono anche andare in rovina: l’importante è averle costruite. Se andranno in rovina, anzi, si faranno nuovi appalti per sistemarle – o anche demolirle, per costruirne altre ancora più insensate.
Gli unici che traggono un vero vantaggio dalle grandi opere sono quelli che le costruiscono… o almeno le cominciano. L’importante non è nemmeno finirle: l’importante è drenare fondi pubblici. Tutte le grandi opere, infatti, attingono al nostro portafoglio: anche quelle che si dicono finanziate con capitali privati grazie al cosiddetto Project Financing, in realtà sono pagate con soldi pubblici. I millantati «privati» sono in realtà società per azioni possedute dallo Stato, oppure i soldi vengono dalla Cassa Depositi e Prestiti – che è sempre una S.p.A. dello Stato – e i prestiti sono garantiti dallo Stato. E quando le società che gestiscono le grandi opere sono in difficoltà finanziarie o falliscono, vengono salvate dallo Stato con soldi nostri. Basti pensare all’autostrada E35, la BreBeMi (Brescia-Bergamo-Milano).
(Il migliore critico di questo sistema è stato l’ingegner Ivan Cicconi, forse il più grande esperto di appalti pubblici in Italia, autore di testi imprescindibili come La storia del futuro di Tangentopoli e Il libro nero dell’alta velocità, purtroppo mancato nel 2017).
Il braccio politico delle grandi opere
Abbiamo ricostruito il quadro di un capitalismo stagnante e regressivo, che estrae valore raschiando il fondo del barile – o meglio, la parete del baratro.
Ebbene, nei media mainstream il consenso per questo modello è trasversale, e le voci dissonanti vengono escluse dalla conversazione. Come quando l’allora direttrice di Rai 3 Daria Bignardi fece chiudere prima del tempo la trasmissione serale Scala Mercalli.
La colpa del conduttore Luca Mercalli era aver ospitato pareri criticisulla cosiddetta «Nuova Linea Torino-Lione». O meglio: su quel che resta – dopo la vittoria No Tav del 2005 e dopo numerosi ridimensionamenti e tagli – di un progetto concepito quasi trent’anni fa, partendo da stime fantasy del traffico futuro su quella direttrice. Della Torino-Lione resta solo la volontà di scavare un tunnel di una cinquantina di chilometri tra Italia e Francia. Un tunnel energivoro che, come dimostrato da diversi studi e ben riassunto da Mercalli stesso, produrrà molta più CO2 di quella che farà risparmiare. E mentre il risparmio è vagheggiato per un futuro di là da venire, la produzione è certa.
Alla Rai, evidentemente, queste cose non si possono dire. Puoi riempirti la bocca di «cambiamento climatico», ma se lo colleghi alle grandi opere, ti cacciano a pedate.
In quel caso, la richiesta di censura arrivò dal Pd per bocca del senatore Stefano Esposito, ma il braccio politico delle lobby di cemento e asfalto non si identifica in un preciso partito: coincide con tutte le forze politiche ufficiali. È un sovrapartito trasversale, come mostra la già citata foto degli esultanti per le Olimpiadi a Milano e Cortina: presidenti di regione leghisti, sindaco e assessori del Pd.
Nell’interpretare i desiderata delle grandi lobby nemiche dell’ambiente, il Pd è indistinguibile dalla Lega, anzi, spesso è più zelante ed entusiasta nel suo retrogrado «sviluppismo». Il Pd è il referente politico di una sezione di borghesia, quella legata al capitalismo “cooperativo”, settore pullulante di medi e grandi nomi di edilizia e infrastrutture, su tutti la già citata Cmc, colosso del settore. La Cmc, secondo i piani, dovrebbe realizzare il «tunnel di base» in Valsusa.
Il Pd è il partito che fortissimamente vuole il cosiddetto «Passante di Bologna», sul quale abbiamo fatto inchiesta insieme a Wolf Bukowski. Si tratta dell’ennesima maxi-colata di asfalto, l’ennesima grande opera negazionista, con la quale non solo si dà per scontato un modello ancora e sempre incentrato sul trasporto privato, ma lo si incentiva, perché è dimostrato che più strade generano più traffico, non meno, e causano ulteriore inadeguatezza della rete. Chi non ci crede, si informi sul «Paradosso di Braess» in matematica, sul «Paradosso di Jevons» in economia e sulla «Posizione di Lewis-Mogridge» nella scienza dei trasporti.
Quanto al M5S, non c’è da spendere un monte di parole: che la sua opposizione alle grandi opere fosse strumentale e di facciata lo conferma la sua condotta concreta. Il M5S non solo non ha fatto nulla di sensato per fermare le grandi opere alle quali si diceva contrario; non solo si è fatto da parte in nome della realpolitik (che oggi è la politica più irrealistica immaginabile), ma ha votato due «decreti sicurezza» mirati a restringere gli spazi di agibilità delle lotte e a rendere più pesante la repressione. Decreti che sembrano cuciti su misura intorno al movimento No Tav.
Oggi, alla buon’ora, tutti i più importanti movimenti per la difesa del territorio relegano il M5S nel campo nemico, al pari degli altri partiti. Del resto, un partito fondato da due capitalisti, ricchi imprenditori del marketing e dello spettacolo, dove altro potrebbe stare?
I criminali e chi li contrasta
Mentre scrivo queste righe sono in corso le consultazioni, gli abboccamenti, gli accordi sottobanco tra partiti per formare un nuovo governo. Comunque vada, quel governo sarà espressione del partito trasversale di cui sopra, e la sua azione sarà greve di negazionismo climatico.
Si sente spesso dire che in Italia, negli ultimi decenni, «non c’è stata una mobilitazione sul cambiamento climatico». Falso, c’è stata eccome, l’hanno messa in campo proprio i movimenti, comitati e coordinamenti che hanno cercato – spesso perdendo ma a volte vincendo – di fermare grandi opere dannose, inutili e imposte dall’alto. Il conflitto climatico lo hanno agito i No Tav, e in modo ancor più evidente i No Tap e No Triv, che si sono opposti a megaprogetti basati sul sempiterno sfruttamento di combustibili fossili.
I presunti villains della vituperata – e purtroppo ancora minoritaria – «Italia dei No» hanno contrastato un modello criminale. Perché va detto chiaro e tondo che è criminale, e non solo perché è ovunque pullulante di mafiosi: è criminale a prescindere, anche quando funziona nella piena legalità. Le grandi opere sono negazionismo climatico applicato, investono ancora su questo modello di sviluppo, su un futuro visto come prolungamento lineare del presente.
Le grandi opere sono crimini contro l’umanità e la biosfera. Chi fa finta di nulla e continua a propugnarle e difenderle a spada tratta è un criminale e come tale va trattato.
Di contro, ogni lotta sul clima che non aggredisca il sistema delle grandi opere è destinata a rimanere uno spettacolino inconcludente, un provvisorio lavaggio di coscienza.
La convergenza tra le lotte contro le grandi opere e il nuovo attivismo sul cambiamento climatico. Oggi, soprattutto in Italia, non c’è prospettiva più rivoluzionaria.
*Wu Ming 1, membro del collettivo di scrittori il cui ultimo libro è Proletkult (Einaudi), dirige per Alegre la collana di ibridi narrativi Quinto Tipo. Il suo ultimo libro da solista è La macchina del vento (Einaudi).
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