Non ci sono categorie di disabilità che non possono accedere al lavoro

«Si stima che ci siano in Europa circa 6 milioni di persone con epilessia – scrive Marino Bottà -, in Italia circa 550.000. Fra le categorie di disabilità tante sono considerate assurdamente minoranze sociali, e come tali ancora più inascoltate e invisibili. Ma anche le persone con epilessia possono lavorare e hanno il diritto di essere persone socialmente vive, e non schiacciate da uno stigma sociale anacronistico. Non ci sono categorie di disabilità che non possono accedere al lavoro, ma è lo Stato che dovrebbe garantire le stesse possibilità inclusive per tutti i suoi cittadini e cittadine»

Quella mattina ci fu un trambusto nella Terza A dell’Istituto Magistrale. Nella fila di banchi vicino alle finestre era successo qualche cosa. Daria, una delle studentesse della classe, era a terra, il corpo rigido, attraversato da spasmi. Il capo sbatteva ritmicamente sul pavimento. Dalla bocca usciva della saliva schiumosa. La scena aveva terrorizzato tutti. La professoressa si era precipitata sul corpo della ragazza e tenendole la testa rialzata, urlava di chiamare il bidello. Poco dopo giunse l’ambulanza e di lei non si seppe più niente. Non ritornò a scuola.
Un anno dopo la incontrai e la invitai a prendere un caffè. Mi raccontò che quella non era la prima volta che le succedeva. Poi cominciò a giustificarsi dicendo che di questo male avevano sofferto molti grandi uomini del passato: Alessandro Magno, Giulio Cesare, Giovanna d’Arco, Napoleone… Mi fece una tenerezza che si trasformò in imbarazzo. Cercai di cambiare argomento.
Tempo dopo andai in biblioteca e cercai sull’enciclopedia “mal caduco”, come mi aveva detto mia madre, e scoprii cosa succedeva alle persone con epilessia.

Ne incontrai tante nell’istituto dove iniziai a lavorare e poi nei vent’anni di insegnamento nell’allora Centro Professionale per Handicappati di Lecco. Fui coinvolto in un’incredibile quantità e varietà di crisi causate dall’epilessia; imparai così a gestirle in autonomia. Questa esperienza mi fu utile quando cominciai ad occuparmi di inserimento lavorativo. A loro facevo una serie di domande che mi consentivano di perfezionare il collocamento mirato. Chiedevo se percepivano l’arrivo della crisi, se erano diurne o notturne, la frequenza, la durata, il tempo di recupero psicofisico, il controllo farmacologico ecc. Grazie a questi chiarimenti, riuscii a inserirne a decine in azienda, con regolari contratti di lavoro. Per le situazioni più complesse feci ricorso alle Cooperative Sociali di tipo B, e ai “tirocini di adozione lavorativa a distanza” (una buona prassi finanziata dalle aziende).

Poco tempo fa ricevetti la mail di una donna che si lamentava della sua situazione. Mi scriveva di avere perso ogni speranza di poter trovare un lavoro. Lei però non era disoccupata a causa dell’epilessia, ma di un sistema pubblico che non riesce a realizzare un collocamento mirato e a presentarla alle aziende in modo adeguato.
Purtroppo questa situazione continuerà fino a quando il sistema di collocamento pubblico non disporrà di operatori opportunamente preparati per attivare percorsi personalizzati di accompagnamento al lavoro. Operatori che conoscono le disabilità in rapporto al lavoro, che conoscono il linguaggio imprenditoriale e il mondo del lavoro.
Le persone con epilessia hanno bisogno di una particolare attenzione nella scelta del contesto lavorativo e vanno tranquillizzati sia il datore di lavoro che i colleghi. Questo è possibile solo recandosi in azienda, verificando i possibili rischi, come evitarli e spiegando come comportarsi nel caso in cui si presentasse una crisi. Nessuna persona inserita in azienda dal Servizio di Lecco ha mai creato scompigli fra il personale, ne è mai stata chiamata l’autoambulanza.

Si stima che ci siano in Europa circa 6 milioni di persone che soffrono di epilessia, in Italia circa 550.000. Fra le categorie di disabilità tante sono considerate assurdamente minoranze sociali, e come tali ancora più inascoltate e invisibili. Ma anche le persone con epilessia hanno bisogno di un lavoro ingiustamente negato. Anche loro possono lavorare! Hanno il diritto di essere persone socialmente vive, e non schiacciate da uno stigma sociale anacronistico.
Non ci sono categorie di disabilità che non possono accedere al lavoro. Lo Stato dovrebbe garantire le stesse possibilità inclusive per tutti i suoi cittadini. Ma l’inclusione ha bisogno di buoni mediatori, di operatori esperti in grado di svolgere il loro lavoro. La classe politica e le Istituzioni preposte devono rendersi conto che da loro dipende la qualità di vita di un quinto della popolazione italiana. Non si può non curare la formazione di chi svolge un compito sociale così delicato. Non dimentichiamo che il rispetto della vita degli altri ci prepara un futuro migliore!

Marino Bottà

Già responsabile del Collocamento Disabili e Fasce Deboli della Provincia di Lecco, oggi direttore generale dell’ANDEL (Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro) (marino.botta@andelagenzia.it).

4/7/2023 https://www.superando.it

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