Non deluderemo Gaza. La Palestina, l’Italia sionista e il 27 gennaio
All’indomani della proibizione dei cortei per la Palestina il 27 gennaio, lo scrittore Filippo Kalomenìdis ci invita a riflettere diversamente sull’Italia sionista e a lottare per «non deludere Gaza».
Intervista di Mariella Valenti* a Filippo Kalomenìdis
«…Anche se ci trasformassimo in atomi sparsi nell’aria, non lasceremo Gaza. Non importa quanto ci costerà, non lasceremo Gaza (…) Che la grande guerra si accenda, perché noi siamo il suo popolo e i suoi uomini. Ai nostri fratelli, ai nostri figli e ai nostri padri a Gaza, siamo con voi. Non siete soli. Il nostro sangue per voi è a buon mercato e saremo con voi fino al nostro ultimo respiro. Dio rifiuta che siamo sottomessi e umiliati mentre viene versato il vostro sangue. Cosa ci dirà Dio quando Lo incontreremo? Avete deluso Gaza. No, per Dio, non la deluderemo, costi quel che costi».
Prima di cominciare l’intervista, Filippo Kalomenìdis mi mostra la dichiarazione di Abdul Salam Jahaf, generale di brigata yemenita, diramata nella prima notte di bombardamenti anglo-americani sul suo Paese.
Mi confida che è uno dei testi più lirici e sconvolgenti scritti dal 7 ottobre a oggi. «Gli Houti hanno affrontato i sionisti per difendere il popolo palestinese con le ferite ancora aperte dal conflitto voluto dagli Stati Uniti, sferrato dai corrotti sauditi, e armato dallo stato italiano. I rivoluzionari yemeniti, martoriati da oltre dieci anni di guerra, stanno mettendo in gioco tutto per salvare Gaza. Questa è l’immagine stessa della sconfitta dell’Occidente, è un esempio lucente e struggente da seguire. Lo stato e il governo italiano, nel frattempo, si mettono vigliaccamente a capo della fila dei paesi europei che attaccheranno lo Yemen per sostenere il genocidio del popolo palestinese, la difesa della libertà di commercio e di moltiplicare profitti sulla pelle degli ultimi. Le uniche libertà che interessino gli occidentali».
Filippo Kalomenidis, scrittore, poeta e militante politico sardo-greco, con origini turche e russe, tiene sempre a precisare di essere figlio e nipote di profughi. Per chiarire che il suo impegno per il popolo palestinese non è solo ideologico e fondato su cruciali legami personali. Ma viene dal profondo del suo sangue in rivolta di «uomo senza luogo che ha vissuto il furto di tante case e tante terre», come spesso racconta. Autore di “La direzione è storta – Reportage sul Covid 19 e i virus del potere” (2021, Homo scrivens editore) e “Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno – Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi” (2022, D.E.A. Edizioni), e del breve, molto amato da alcuni e contestatissimo da altri, saggio eretico-poetico-politico “La Rivoluzione Palestinese del 7 ottobre”, uscito su “Osservatorio Repressione” il 20/10/2023
(https://www.osservatoriorepressione.info/la-rivoluzione-palestinese-del-7-ottobre/), e pubblicato anche in Grecia da Προλεταριακή Πρωτοβουλία – Iniziativa Proletaria il 30/10/2023.
Parto da “Per tutte, per ciascuna, Per tutti, per ciascuno”. Un’impresa letteraria, un manifesto poetico di resistenza e amore che attraversano tempo, spazio, morte e vita. Il libro contiene canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi (incluso un brano in versi dedicato al militante palestinese Wael Zuaiter, ammazzato nel 1972 a Roma dal Mossad col beneplacito dei servizi segreti italiani), ma può essere affine nella denuncia della quasi secolare occupazione della Palestina da parte di Israele, del massacro di decine di migliaia di civili e combattenti che non si rassegnano a essere vittime e diventano partigiani consapevoli. In un’intervista del 9 novembre 2023 a “Nuova Resistenza”, hai parlato di «consanguineità ideologica e concreta dello stato italiano con lo stato genocida sionista».
Israele è il cuneo più avanzato del sistema liberale e coloniale non solo europeo, ma anche italiano. Tra i progressisti italiani che asseriscono di lottare per la Palestina è diffusa la convinzione di un ruolo marginale del loro Paese nel genocidio che i sionisti preparano e perpetrano dalla fine di due secoli fa. Riducono strumentalmente il sangue palestinese che imbratta la bandiera tricolore a una faccenda di pur rilevanti vincoli geopolitici, economici, mercantili, militari, accademici.
Cosa vorrebbero nascondere allora?
L’Italia è tra le prime ispiratrici del progetto di uno stato coloniale ebraico in Palestina sin dal ventennio fascista.
La collaborazione con il movimento sionista culminò con gli addestramenti di banditi giudaici nell’accademia della Marina Regia a Civitavecchia, per rendere elevata la loro preparazione nella pulizia etnica dei palestinesi.
Gli italiani erano all’avanguardia nell’assassinio scientifico di massa, come dimostrano l’innovazione assoluta dei campi di sterminio in Libia, Somalia, Eritrea dal 1930 e l’uso di armi chimiche in Etiopia contro resistenti e civili dal 1935.
Finché l’insegnamento delle dottrine e prassi massacratrici s’interruppe per l’opportunistica promulgazione mussoliniana delle leggi razziali, in nome dell’alleanza con la Germania nazista.
Nel dopoguerra, l’abbraccio culturale col sionismo è stato rinsaldato dalla Repubblica che riconosce prontamente l’entità d’occupazione della Palestina nel ‘49, permette alle comunità ebraiche di diffondere propaganda israeliana, e di essere de facto diretta emanazione di un illegittimo stato d’apartheid.
Tanto per intenderci, l’Unione delle comunità ebraiche italiane ha grottescamente denunciato in un recentissimo documento il «vittimismo palestinese» e farneticato che le parole «sterminio-lager-occupazione-genocidio» non possano mai essere attribuite a Israele, ma soltanto all’Olocausto.
Una Repubblica, poi, che ha consentito agli squadroni della morte del Mossad l’uccisione a Roma di esuli palestinesi: Wael Zuaiter il 16 ottobre 1972; Majed Abu Sharar il 9 ottobre del 1981, Nazih Matar e Kamal Yousef il 17 giugno 1982, tutti e tre in attentati esplosivi, poco lontani dal Quirinale. Fa sorridere come i pacifisti italiani ricordino con commozione le ipocrite frasi indignate di Pertini sull’ eccidio di profughi palestinesi a Sabra e Shatila, in Libano, di appena tre mesi dopo. Ci volevano oltre quattromila esseri umani trucidati perché il farisaico presidente partigiano si accorgesse che i sionisti avevano licenza di compiere mattanze ovunque?
Nella sinistra radicale italiana sono però tanti che hanno scelto la causa palestinese senza esitazioni e infingimenti…
Vero, però le élite marxiste non hanno quasi mai fatto i conti con le radici sioniste, ben attecchite e prospere al centro del terreno culturale italiano.
Con Pier Paolo Pasolini, ad esempio, che definiva gli israeliani «fratelli maggiori per dolore», negava l’esistenza dei palestinesi chiamandoli solamente «arabi» e riservava ai loro bambini la sua consueta trance pedofila e disumanizzante per i figli dei senza nulla: «bestioline con gli stupendi occhi umani».
Con Toni Negri che dichiarava di aver imparato armonia collettiva e comunismo nei kibbutz, costruiti sui cadaveri dei palestinesi.
O con Erri De Luca che sostiene che «la Palestina è sempre stata occupata» da tanti invasori e per questo dovrebbe sparire di fronte all’ «evidenza dello stato» confessionale ebraico. L’elenco potrebbe proseguire e sarebbe molto lungo…
Non stupiamoci quindi dei pacifisti depoliticizzati che insozzano il movimento con slogan vili come “né con Hamas né con Netanyahu”. In fondo, percepiscono gli israeliani come fratelli, ex socialisti, che hanno imboccato la strada sbagliata. Per loro, un assassino come Yitzhak Rabin è un eroe. Per loro, gli accordi di Oslo e la conseguente pace sterminatrice di palestinesi erano la condizione ideale.
Non sorprendiamoci dei dirigenti del partito democratico che sventolano bandiere con la stella di David, dei neofascisti al governo che danno appoggio militare diretto ai boia della Knesset e che dirigono le associazioni italo-israeliane. Sono eredi di un’oscena e acclarata tradizione storica nazionale.
Nel saggio “La Rivoluzione Palestinese del 7 ottobre” hai scritto che finalmente tanti tra i nostri figli hanno deciso di «rifiutare e sputare sull’idea razzista, suprematista di fittizia identità europea. La vera progenitrice, persino più del nazionalismo genocida statunitense, del colonialismo israeliano».
In altri tuoi testi, hai definito gli europei come «vecchi progenitori» di Israele», «un figlio così mostruoso, così perfetto nel realizzare una democrazia genocida da divenire punto di riferimento assoluto del sistema liberista occidentale». In che senso Israele è un modello per l’Italia?
Lo stato italiano fa del razzismo coloniale una religione. Il nesso biologista, suprematista, fondato sul dispotismo capitalistico tra Italia e Israele è, ribadisco, innanzitutto culturale.
Hai visto lo scorso autunno le fotografie di migranti minorenni dietro il filo spinato e le reti del nuovo Cpr di Pozzallo, in Sicilia, compressi tra barriere d’acciaio e vortici di sprangate per il crimine d’essere scappati dalla devastazione e dal saccheggio del Sud del Mondo compiuti dall’Occidente? Non ti hanno ricordato i bambini palestinesi internati nei penitenziari israeliani, raccontati dallo scrittore e prigioniero politico Walid Daqqah?
Nel settembre del 2023, c’è stata l’emanazione degli editti discriminatori del governo neofascista che perfezionano la detenzione amministrativa per i migranti. Una legge di segregazione etnica del 1998 che porta, intinto nel sangue dei reclusi e degli assassinati, il nome del padre della patria razzista, Giorgio Napolitano. Una norma che riprende l’invenzione repressiva sionista, ad aeternum e al più elevato livello di brutalità per i palestinesi.
Proprio in questi mesi si pianifica la deportazione e l’internamento dei rifugiati in altre nazioni. Non ti fa venire in mente il progetto sionista?
Nell’apparato giudiziario-carcerario, poi, il legame è altrettanto palese: l’infinito imprigionamento dei detenuti politici di ogni stagione d’insorgenza; la Legge israeliana dei Servizi Carcerari del 1971 presa a modello in Italia – che si serve, per citare Ahmad Sa’dat, dell’isolamento del detenuto «come pena, forma estrema di tortura, e metodica distruzione psichica» – con l’articolo 90 prima per i rivoluzionari comunisti, e il 41 bis poi per anarchici, combattenti anticapitalisti e mafiosi; e, nelle galere riservate ai “comuni”, le celle colme di profughi del Sud del Mondo che non s’è riusciti a togliere di mezzo con gli annegamenti di massa nel Mediterraneo, con le garrote del mare.
Riprendo una lettera scritta nel dicembre del 1948 da un gruppo di importanti ebrei statunitensi, tra cui Albert Einstein e Hannah Arendt al New York Times, per esprimere la propria preoccupazione per l’emergere del partito della libertà, il Tinuat Haherut, precursore del Likud, che veniva descritto come strettamente affine per organizzazione, metodi, filosofia politica e attrattive sociali ai partiti nazisti e fascisti. Si spiegano così le “affinità” della politica del governo di Israele, soprattutto oggi in mano alla destra oltranzista e religiosa, una fotocopia feroce di natura fascista e genocida del Likud. È proprio così?
Alla base della tesi di Einstein e della Arendt ci sono insincerità e assurdità: come si può ritenere che il problema di uno stato d’insediamento coloniale, teista, genocidario, eretto sulla Nakba, sull’espropriazione di ogni elemento vitale di un altro popolo, sull’obiettivo ultimo della cancellazione dei palestinesi, sia la colorazione politica del suo governo?
Israele ha avuto venti primi ministri nella sua storia criminale. Solo sette appartenenti al Likud e due ad altre formazioni di destra.
È incontestabile che i palestinesi – quando non venivano scacciati dalla loro terra – vivessero in un inferno terreno, in un gigantesco campo di sterminio a cielo aperto, anche sotto gli infidi, carnefici premier della sinistra laica del Mapai di Ben Gurion e del partito laburista.
Sono curiosa di sapere allora cosa pensi del celebre saggio “La banalità del male” della Arendt. Un’espressione tornata alla mente di tanti di fronte alle immagini del mattatoio di Gaza, delle macerie e ai proclami deliranti di Netanyahu, Yoav Gallant, e Ben Gvir?
Sulle pagine manipolatorie della Arendt sarebbe tempo di comprendere, come ci invita a fare Samed Ismail dei Giovani Palestinesi, che «il male è banale solo quando il malvagio non può più nuocere, prima di allora il male è quanto di più profondo possa esistere, un abisso sul quale la banalità del bene non osa affacciarsi… Il male nascente, ormai svezzato, del sionismo getta uno sguardo retrospettivo sul male domato del nazismo. Qui sono tratteggiate le linee di avvicendamento tra questi due movimenti storici. Nella lezione scolastica su “La banalità del male”, Israele non viene menzionato. Quanto è poco banale questo fatto. Se si parla di storia non si guarda alla storia in corso. Quanto è poco banale che la memoria sia diventata un potentissimo strumento di oblio?».
Da ben prima del genocidio a Gaza di questi mesi ossia, per dirla con Joseph Massad, della quarta e terminale fase della Nakba, io asserisco semplicemente la fondamentale priorità dell’annientamento dello stato d’Israele.
Vuoi spiegare meglio in che termini?
È singolare come in questa era di scotomizzazione delle coscienze, il buon senso storico venga interpretato come intollerabile e indicibile.
Guardiamo forse orripilati all’abbattimento dei dipartimenti coloniali francesi in Algeria dal 1954 fino all’indipendenza del 1962? No.
Alla distruzione nel 1975 del Vietnam del Sud, stato collaborazionista e protettorato dell’imperialismo nordamericano? No.
All’estirpazione della monarchia persiana nel 1979, istituzione creata in laboratorio dal dominio statunitense e sionista? Nemmeno.
Non sono così sprovveduto da pensare che l’annientamento dello stato genocida sionista e la liberazione totale della Palestina possano scaturire, per usare il linguaggio coranico, da un soffio di «vento buono». Sarà «vento furioso, mugghiante e pieno di sassi», sarà «vento infuocato», l’infernale tamun.
E poi, perdona la vertiginosamente banale reductio ad Hitler, i liberali e i sovietici non hanno forse spazzato via il Terzo Reich nella stessa maniera?
Eppure ci sono ancora dei “benpensanti” che credono nella soluzione “due popoli, due Stati”. O chi si trincera dietro un silenzio indecente – che misura la temperatura morale di una società priva di etica e di umanità – e celebra il Giorno della Memoria, dedicato allo Shoah, senza indignarsi e reagire di fronte all’eccidio di Gaza, ad oggi 25.000 innocenti, di cui 12.000 bambini e 6.000mila donne.
I martiri di Gaza e della Cisgiordania ci riportano all’urgenza di collocare l’Olocausto tra i genocidi compiuti, fra il ‘novecento e l’inizio di questo secolo, dalla civile Europa, coloniale, capitalistica. Bisogna smettere di incorniciarlo come l’abisso, il tremendum, l’abiezione più grande di tutte.
Sappiamo bene dall’insegnamento di Aimé Césaire che le atrocità nazi-fasciste colpiscono l’immaginario dei bianchi perché rompono il patto sacro tra le potenze bianche: ferocia e nientificazione possono essere inferte solo su popoli arabi, neri, asiatici, nativi delle Americhe e slavi. Sui selvaggi.
Relativizzare l’Olocausto non significa negare empatia verso chi lo ha subito, ma anzi potenziarla, renderla autentica, umana, fuori da ogni idolatria mistificatoria.
Per spiegarmi meglio, mi limito a esaminare gli anni immediatamente successivi alla falsa, unanime constatazione degli occidentali che nessuno sterminio sia stato altrettanto biecamente scientifico, alla contraffazione propagandistica del “mai più”.
Dal 1947 al 1948, le autorità coloniali francesi si scatenarono in Madagascar per punire la rivolta indipendentista malgascia, violentando la popolazione, incendiando interi villaggi. Uccisero 100000 persone. Scientificamente. Con l’ideazione dei voli della morte: le vittime venivano gettate vive da aerei militari in mezzo al mare.
Questa specialità francese tornò in uso in Vietnam fino al 1954, e durante la battaglia di Algeri nel 1956-57.
I francesi hanno dunque ucciso sistematicamente un milione di vietnamiti, un milione di algerini e centomila malgasci. Mi fermo a tre dei loro possedimenti coloniali e al 1957.
Andassi oltre, fino ai nostri giorni, ed estendessi l’analisi alle scientifiche carneficine commesse dalle altre nazioni della cosiddetta Europa e dagli statunitensi, passeresti almeno una settimana filata ad ascoltarmi.
Relativizzare l’Olocausto, rifiutare “la giornata della memoria”, combatterla è un atto di sovversione culturale. Significa strappare di mano ai sionisti il loro contaminante brodo di cultura.
La complicità dell’Occidente è palesemente criminale, così come Israele compie crimini contro l’umanità e crimini di guerra, come denunciato dal Sud Africa di fronte alla Corte dell’Aia, con l’appoggio di oltre cinquanta Paesi. Scorgi in questo atto un passaggio epocale in cui prende forma una nuova rete di appoggio al popolo palestinese?
È un risultato meramente simbolico. Utile perché aumenta l’isolamento di Israele e destabilizza il mondo sionista, a cominciare dalla menzionata Unione delle comunità ebraiche italiane. Utile soprattutto alle nazioni che affiancano la Repubblica del Sud Africa, per aumentare il loro peso contrattuale con la sfera di dominio delle potenze globali (Stati Uniti, Unione Europea, Cina e Russia che non hanno ovviamente aderito).
Il diritto internazionale però è un rituale vuoto, essoterico, con una liturgia vana nella quale nessuno ripone la minima fede.
Il popolo, la Resistenza Palestinese, invece, hanno ora bisogno di azioni in cui ci siano fede e concretezza. Come l’appoggio militare dato sul campo da Hezbollah in Libano, dagli Huthi nello Yemen, dai combattenti siriani e iracheni. Oppure politico, come quello fornito da parte consistente del movimento per la liberazione della Palestina alle nostre latitudini.
Dal 7 ottobre del 2023, la “difesa indispensabile di Israele” – cito anche io il documento dell’Ucei a cui hai fatto riferimento – sta rispondendo con un genocidio ad un’azione certamente violenta nei confronti di civili israeliani da parte di Hamas, senza che i media abbiano minimamente reso chiaro il contesto.
Si dovrebbe parlare di Resistenza Palestinese, unita nelle sue quattro componenti dal 2021. Hamas è la prevalente.
Ho già scritto e ripeto per l’ennesima volta che l’opera trentennale di Hamas è stata ed è preziosa, centrale per Gaza, per la Palestina. Non è una setta terroristica, bensì un’organizzazione politica, sociale e rivoluzionaria. Ha contribuito più volte, con una strategia limpida, avanzata a infrangere lo stallo che consentirebbe ai sionisti e agli occidentali di procedere nell’eliminazione del popolo palestinese. E sta contribuendo a far splendere in questi giorni la luminosa potenza dell’umano davanti alle tenebre della civiltà occidentale.
Non si dovrebbe invece parlare di “civili israeliani”. Nello stato d’insediamento coloniale sionista, non esistono “civili”. Ma migliaia di coloni armati fino ai denti che assaltano le case dei palestinesi, li derubano delle terre e li uccidono.
Sul 7 ottobre, ti rispondo con un passo del mio saggio: «I guerriglieri di Gaza sui deltaplani sono diventati folate di vento e grida che hanno sovvertito il tempo, hanno dipinto un’immagine di liberazione tra le più elevate della recente storia dell’umanità. Un quadro immortale di gioia che nessun palestinese, nessuna donna, nessun uomo schiavizzato dal totalitarismo liberale, si leverà mai dallo sguardo. Un’autentica preghiera visiva da recitare con gli occhi di fronte a ogni sopruso subito».
Per concludere: ci hai richiamato spesso a non focalizzarci sulla narrazione vittimistica della Palestina, bensì ad esaltare la potenza di ciò che hai definito «lo straripare palestinese», «la prima rivoluzione di questo secolo», «la thawra( ثورة) palestinese». Come vedi la situazione oggi, dopo oltre cento giorni di resistenza a Gaza e in Cisgiordania, e di manifestazioni e lotte del movimento in Italia e nel resto del mondo?
La Resistenza Palestinese sta sferrando colpi micidiali alla potenza nucleare sionista dal punto di vista bellico, politico e comunicativo. Israele è sull’orlo del collasso sociale, economico e militare.
Stiamo dunque assistendo a qualcosa di inimmaginabile, un prodigio rivoluzionario che abbatte confini e trascina i movimenti ovunque, anche su queste sponde del Mediterraneo.
Sul territorio dello stato italiano, dopo qualche settimana di flessione, l’azione delle giovanissime avanguardie del movimento sta creando significativi rilanci: ha stroncato i tentativi di prendere la guida delle piazze da parte dei depoliticizzati professionisti dell’umanitarismo e della “pace” (che uccide in silenzio), e ha tenuto il fronte nonostante la criminalizzazione operata dei media e dagli apparati repressivi dello stato.
Portare l’università di Cagliari al punto di poter rompere gli accordi di collaborazione con gli atenei sionisti, boicottare per le strade natalizie gli interessi israeliani, e sabotare la Fiera dell’oro di Vicenza, senza alcun timore dello scontro e della violenza poliziesca, sono tre ondate vittoriose che potrebbero generarne altre ancora più alte e impetuose.
«Hai deluso Gaza?», è l’interrogativo che dobbiamo ascoltare ogni istante. «Non la deluderemo», è la risposta che dovremo dare ogni giorno.
* Mariella Valenti, autrice di “Il marito senegalese” (1999, L’Harmattan Italia), “Storie Africane” (2003, D.E.A. edizioni), intervistatrice per Pressenza Italia di Rania Hamad, Maria De Lourdes Jesus, Karim Hamarneh, Stefano Luisi del PCRF Italia, Yilmaz Orcan. È Presidente dell’Associazione Culturale Livorno Palestina, militante politica, ex responsabile del PCRF di Medio Oriente e Immigrazione di Livorno.
Filippo Kalomenìdis, scrittore, docente di scrittura e militante politico. Ha pubblicato La direzione è storta – Reportage lirico sul Covid 19 e i virus del potere (Homo scrivens editore, 2021), e con il Collettivo Eutopia Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno – Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi (DEA edizioni, 2022). È stato sceneggiatore per il cinema e la televisione.
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