Non è un paese per bambini.
Non è un paese per bambini. L’Italia ha un grande problema con i giovanissimi e con la povertà, che sono sempre più spesso legati. Oggi in Italia più una persona è giovane, più è probabile che si trovi in una condizione di povertà assoluta. Il 12% dei bambini e adolescenti è in povertà assoluta. E sono proprio i minori ad aver subito più di tutti gli altri le conseguenze della crisi economica. Serve un forte investimento sull’educazione, ma l’Italia è agli ultimi posti in Europa per spesa in istruzione.
È il quadro che viene dal Rapporto nazionale sulla povertà educativa minorile in Italia “Scuole e asili per ricucire il Paese”, realizzato da Openpolis e dall’Osservatorio povertà educativa #conibambini. “La crescita della povertà minorile pone una grande ipoteca sul futuro dell’intero paese”, evidenzia il rapporto, che denuncia come non si parli abbastanza di quanto sia cresciuta negli anni la povertà minorile. Nel 2005 il numero di persone in povertà assoluta era poco inferiore ai 2 milioni. Nei dodici anni successivi è cresciuto fino a raggiungere la quota di 5 milioni di persone. È molto meno diffusa la cognizione di quanto l’aumento della povertà abbia colpito soprattutto i bambini e gli adolescenti. Sono proprio i minori di 18 anni la fascia d’età dove l’incidenza della povertà assoluta è maggiore. Oggi in Italia sono 1,2 milioni i bambini e gli adolescenti in povertà assoluta. “Nel 2005 era assolutamente povero il 3,9% dei minori di 18 anni. Un decennio dopo la percentuale di bambini e adolescenti in povertà è triplicata, e attualmente supera il 12%. Questa crescita esponenziale ha allargato il divario tra le generazioni. Nell’Italia di oggi più una persona è giovane, più è probabile che si trovi in povertà assoluta”, denuncia lo studio. I più piccoli e i giovani hanno pagato più di tutti la crisi economica e questo non è solo un fenomeno del presente, ma riguarda anche il futuro e la possibilità di migliorare la propria condizione anche se si nasce in una famiglia povera.
Farlo però è difficile. Non solo in Italia l’ascensore sociale è bloccato, ma chi nasce in una famiglia in difficoltà ha meno occasioni di uscire dalla marginalità. “In Italia, a un bambino che nasce in una famiglia a basso reddito potrebbero servire 5 generazioni per raggiungere il reddito medio. È la stima di Ocse, basata sulla variazione tra i redditi dei genitori e quelli dei figli. Pur trattandosi di una stima puramente indicativa, segnala un altro aspetto grave della povertà minorile: la sua tendenza all’ereditarietà”. Il risvolto del problema è soprattutto educativo. Le famiglie più povere sono generalmente quelle con minore scolarizzazione. L’incidenza della povertà assoluta è infatti doppia nei nuclei familiari dove la persona di riferimento non ha il diploma.
In Italia i 2/3 dei bambini con i genitori senza diploma restano con lo stesso livello d’istruzione, rispetto a una media Ocse del 42%. Di fatto significa che istruzione e professione dei genitori condizionano il percorso dei più piccoli. Gli studenti si dividono in base alla classe sociale d’origine. Insomma, le disuguaglianze si riproducono. “Come in un circolo vizioso, chi nasce in una famiglia in difficoltà economica avrà a disposizione meno strumenti per riscattarsi in futuro da una condizione di marginalità sociale – denunca ancora il report – Sarà più propenso ad abbandonare la scuola prima del tempo, e da adulto avrà più difficoltà a trovare un lavoro stabile.”
“In un Paese dove l’ascensore sociale è rotto e due terzi dei bambini con i genitori senza diploma resta con lo stesso livello d’istruzione, è indispensabile un forte investimento sull’educazione, intesa in senso lato, dalla scuola ai servizi rivolti ai minori – ha detto Vincenzo Smaldore, responsabile editoriale Openpolis – Purtroppo l’Italia è quintultima in Europa per spesa in istruzione, con appena il 3,9% del Pil. Molto al di sotto della media europea del 4,7%. Un quadro generale preoccupante ma che al suo interno contiene numerose ulteriori criticità, come le differenze fra le aree del Paese. Profonde disuguaglianze ci sono fra Centro e Periferia (esempio: aumentano le famiglie nei comuni cintura); fra Nord e Sud (esempio: le 5 regioni che offrono meno posti in asilo nido sono tutte del Mezzogiorno, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Campania); fra comuni più connessi e aree interne (esempio: 10,3% dei ragazzi tra 14 e 18 anni residenti in Italia vive in un comune interno senza scuola superiore statale)”.
È prioritario garantire a tutti l’accesso a un’educazione di qualità, dall’asilo fino ai gradi più alti di istruzione. Anche qui, l’Italia è indietro e tende a investire in istruzione meno della media europea. In rapporto al Prodotto interno lordo, l’Italia spende il 3,9% del Pil in istruzione, contro una media Ue del 4,7%. Un dato inferiore rispetto ai maggiori paesi Ue come Francia (5,4%), Regno Unito (4,7%), Germania (4,2%).
L’Italia ha anche un problema con la prima infanzia e con i nidi. Il contrasto alla povertà educativa inizia già all’asilo nido: bisogna investire a partire dalla prima infanzia, offrire un servizio di nidi diffuso sul territorio e accessibile a prescindere dal reddito familiare. E anche su questo fronte, non ci siamo ancora.
Solo negli ultimi anni si è affermata la funzione educativa dell’asilo nido, che prima era concepito solo come “custodia” dei più piccoli quando i genitori lavoravano. L’Unione europea nel 2002 si è data come obiettivo per gli Stati quello di arrivare almeno a 33 posti in asili nido o servizi prima infanzia ogni cento bambini con meno di 3 anni. In termini assoluti, a fronte di una platea potenziale di 1,5 milioni di bambini, in Italia sono circa 350 mila i posti disponibili. Siamo sotto il 25%.
Nel 2015 i posti disponibili sono stati circa 23 ogni 100 residenti con meno di 3 anni. “Una cifra raggiunta sommando tutta l’offerta possibile di servizi per la fascia 0-2 – si legge nel report – Da quella pubblica e in convenzione a quella privata pura; dagli asili nido alle sezioni primavera nelle scuole dell’infanzia, dai nidi aziendali ai servizi integrativi come spazi gioco e centri domiciliari. In termini assoluti, a fronte di una platea potenziale di 1,5 milioni di bambini, parliamo di circa 350mila posti disponibili nel 2015 (di cui il 90% in asili nido, mentre la parte restante in servizi integrativi).” L’offerta di posti nei servizi prima infanzia, considerando insieme sia gli asili nido che i servizi integrativi, risulta inoltre fortemente squilibrata tra le diverse regioni italiane. Comprendendo il totale di questi servizi, si va dal 42,3% della Valle d’Aosta al 6,6% della Campania. Solo quattro regioni raggiungono l’obiettivo europeo per la prima infanzia: Valle d’Aosta, Umbria, Emilia Romagna e Toscana.
12/4/2019 www.controlacrisi.org
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