Non si salva il Mondo senza estirpare il Capitalismo

Su la testa 8 - sito
Il capitalismo si cura con il capitalismo?

Anche la ventiseiesima Cop di Glasgow non dà una risposta positiva a questa domanda (il capitalismo si cura con il capitalismo?) che ormai dura da decenni, quelli che vanno dalla presa d’atto della crisi climatica ad oggi. A vedere i “non risultati” di questa nuova tappa (sostanzialmente l’accordo è sul fatto che sia un brutto accordo) c’è da dire che ha avuto ragione Greta Thunberg a dire “me ne torno a scuola”. Avendo lasciato però sul campo la soluzione necessaria, e cioè che si dichiari lo stato di emergenza climatica e si agisca di conseguenza usando la giustizia climatica fuori e contro il capitalismo. Un consiglio che anche a me è venuto più volte in mente.

Il gran consesso sul clima

Sono stato, tra il 2004 e il 2009, per tre volte delegato del Parlamento Europeo alle Cop (Conferenze delle Parti) sul clima. Per tre volte mi sono ritrovato in quel gran consesso in cui si prova a mettere le mani sui mali del Pianeta e a riconiugare ambiente e sviluppo. Sono stato presente a Montreal, Bali e a Poznan in Polonia. Tre conferenze in cui c’era da traghettare il tentativo di curare il Mondo dal trattato di Kyoto a quello che poi sarà l’accordo di Parigi. E da definire cosa avrebbe fatto la Unione Europea in quel periodo. Partecipare a una Cop significa trovarsi in un consesso con migliaia di persone più o meno rappresentanti di ciò che si muove e agisce a vari livelli e determina ciò che succede.

La casa comune è messa a disposizione e rappresentata dall’ONU che ha, in questo ambito, una delle sue occasioni reali di vita. Fu l’ONU nel 1983 a mettere in piedi una Commissione su ambiente e sviluppo, diretta dalla norvegese Bruntland, che produsse un fondamentale Rapporto che porta il suo nome e che vide la luce nel 1987. Sulla base di esso si arrivò nel 1992 alla conferenza ONU di Rio de Janeiro sui temi del rapporto citato. Al centro del Rapporto e della Conferenza c’erano il rischio climatico per la prima volta individuato come rischio globale e supremo e il concetto di sviluppo sostenibile. Dunque non più i singoli mali, inquinamento, esaurimento delle risorse ecc., ma il rischio che l’intera Casa diventi inabitabile per la specie umana e per sua responsabilità. Tema che già era stato trattato in termini più malthusiani dal Rapporto del club di Roma sui limiti dello sviluppo. Cioè in termini più legati alla sovrappopolazione e alle conseguenze quantitative. Il Rapporto Bruntland e la Conferenza di Rio assumono sì il concetto di limite (la condizione climatica) ma provano ad affrontarlo riconiugando il concetto di sviluppo legandolo al termine sostenibile. Cosa si deve fare perché ciò accada?

Lo sviluppo sostenibile

Discendono da lì una serie di Convenzioni su vari temi. Di queste quella centrale è sul clima e porta nel 1994 alla Conferenza di Kyoto e al varo del Trattato che ne prende il nome. Da lì in poi i temi saranno quelli di raggiungere il numero dei Paesi sottoscrittori sufficiente a farlo entrare in vigore e trovare le pratiche per farlo funzionare. Tra queste l’affidamento della sua vita ad una Conferenza delle parti periodica e permanente che ne registra andamento ed adeguamento. Una Conferenza a cui partecipano la struttura tecnica preposta alla gestione del Trattato con segretariato e presidente.

Gli scienziati che sono una parte fondamentale cui è affidato il monitoraggio permanente del Pianeta e la stesura dei rapporti anche essi periodici. Sono migliaia e si ritrovano in un apposito contenitore, l’IPCC e cioè il panel internazionale sui cambiamenti climatici. Rappresentano tutti i Paesi e fanno comunità scientifica. Li trovi sul campo, come capitò a me che ero in delegazione col mio gruppo parlamentare in Groenlandia proprio per il clima e li trovammo a studiare i ghiacciai. E li trovi nei rapporti elaborati che forniscono la base di riflessione per le varie Cop. Metodo straordinario di rapporto tra comunità scientifica e decisori democratici che sarebbe stato bene fosse usato anche ora con la pandemia. Relazione tra scienza e decisori che prevede discussioni organizzate come quelle che faceva il Parlamento Europeo con apposite sedute con gli esponenti scientifici e in cui c’erano anche visioni scientifiche e politiche diverse ad esempio sulle responsabilità umane del cambio climatico. Ma andiamo con ordine. Tutto questo mondo si trova a Cop. Insieme a delegati di governi e Parlamenti. Espressioni della società civile e degli interessi. Per la UE tratta il Commissario che ogni giorno relaziona i parlamentari delegati che hanno diritto di parola. Ricordo che a Bali proposi che il Parlamento Europeo si dotasse di un lavoro permanente per il clima. Fui molto contento che si varasse una Commissione speciale clima temporanea che doveva facilitare l’elaborazione e il varo del pacchetto clima che si era deciso di fare. Ne fui anche vicepresidente. Durante il giorno passi da un incontro con le ONG ad uno con gli operatori finanziari. Dal discutere di deforestazione con i rappresentanti indigeni a parlare di quote di emissioni con le struttureconfindustriali. E questo perché Kyoto era così.

Una cosa che cercava di curare mali che avevano tante ragioni, tanti effetti, e di farlo con una ricetta chiara, ridurre le emissioni sotto la quota del 1990, con timidissimi obiettivi intermedi, ma con tante terapie.

Il male e le cure

Ho già detto che lo slogan centrale che nasce dal Rapporto Bruntland e dalla Conferenza di Rio è lo sviluppo sostenibile. Ma cosa significa? Cosa significa sviluppo? E può essere sostenibile? Le domande sono pertinenti e chiare anche perché stiamo parlando non di concetti neutri ma socialmente e storicamente determinati. Parliamo di sviluppo capitalistico, figlio di pratiche come quelle coloniali, sulle soglie di quella che cominciavano a chiamare globalizzazione abbinata a finanziarizzazione. Era possibile che sviluppo sostenibile, in questo contesto, divenisse un ossimoro? Il dubbio lo posero in molti. Tra loro un filosofo come Latouche che definisce la parola sviluppo come tossica e conia il termine decrescita.

Più modestamente, noi di Rifondazione facciamo un inserto ambientalista su Liberazione e lo chiamiamo non a caso “L’insostenibile”. A dire che bisogna cercare cosa è insostenibile e possibilmente rimuoverlo. Ci collaboravano molti ambientalisti di primo piano, come Nebbia e Giovenale. Nei miei anni da Responsabile Ambiente, prima al Pdup, poi al PCI e a Rifondazione avevo sempre goduto (e curato) dei rapporti con questi esponenti straordinari che avrebbero permesso probabilmente alla sinistra italiana e al PCI di andare su strade più feconde. Tra loro, Laura Conti che ritrovai tra i contrari alla svolta di Occhetto e molto ambientalmente “perplessa” di quella “coltivazione del deserto” che il segretario della Bolognina proponeva nella sua relazione al Congresso del “Mondo sta cambiando”. Nel PCI c’erano alcune culture, Conti, Prestipino, per citarne una ambientalista e una filosofica, che permettevano scelte più opportune rispetto all’industrialismo poi sconfinato nel liberismo mercatista del PD.

Nel 1973 a Frattocchie ci fu un importante siposio dell’istituto Gramsci su “Uomo, Natura e Società” in cui alcune di esse si ritrovano. Sempre a Frattocchie nella seconda metà degli anni ‘80 la sezione ambiente dove lavoravo e che poi avrei diretto fece un seminario su “Ambiente, una dimensione della politica” da cui nacquero gli emendamenti contro il nucleare presentati al Congresso del partito. Enrico Berlinguer aveva ragionato sul “che cosa, come e per chi produrre”. Tema poi soverchiato dalla austerità ma in nuce aperto ad altri esiti. C’erano in Italia Maccacaro e Mara sulla medicina e il lavoro; l’urbanistica democratica. L’Ingrao della critica al modello di sviluppo. Il dibattito di massa che si fa dopo Chernobyl e per il referendum contro il nucleare. Nelle socialdemocrazia nordiche Brandt istituiva quella Commissione che nel 1980 scriveva il “Rapporto Nord Sud” che prova a ricollocare tutto il pensiero di una parte fondamentale della sinistra europea su quell’asse.

Kyoto

È con questo bagaglio che mi muovo nel mondo di Kyoto. Ricordo che avevamo fatto molte riunioni con scienziati a Rifondazione. Al dunque, assumemmo una posizione che criticava la contraddizione evidente. Kyoto dava limiti e obiettivi chiari. Stare sotto le emissioni del 1990 tagliando obbligatoriamente quote prescrittive e indicate per Paese. Ma poi immetteva delle flessibilità. Quote da scambiare con altri Paesi, da monetizzare, da barattare con investimenti tecnologici. Cioè affidava a meccanismi capitalistici di curare i mali del capitalismo. La certezza dei tagli meritava l’appoggio ma i meccanismi di fuga erano pericolosi e chiedevano critica. Lo sostenemmo anche in Parlamento italiano al momento della ratifica. Poi con questa contraddizione mi trovai a fare i conti nel mio lavoro al Parlamento Europeo. Il problemaera come rendere certo, esigibile e verificabile il risultato. I tagli prescrittivi aiutavano. Le flessibilità invece andavano incontro a quella globalizzazione capitalista che mercatizzava sempre più tutto, finanziarizzava anche il vivente mentre riallocava a convenienza le catene del valore. Kyoto era aritmetica. Serviva passare all’insiemistica. Ma la globalizzazione correva più veloce.

Facemmo in Parlamento Europeo un pacchetto di sei provvedimenti per fare una svolta climatica. Per altro grazie al suo modello sociale più “pubblico” l’Europa ha meno emissioni complessive, pro capite e per unità di prodotto, di altre. Però ha deforestato prima e più di altri e le sue riforestazioni non servono molto perché sono tante ma posticce ed assorbono poco carbonio. Ha molto cementificato, e l’Italia di più, e la Lombardia con il suo oltre il 17% praticamente il quadruplo della media europea. Oggi le emissioni nella UE sono anche diminuite ma questo più per le crisi e, soprattutto, per le deindustrializzazioni legate alle speculazioni globali che per politiche attive. Il piano decennale Europa 2020 quantificava alla unità i posti di lavoro vecchi e sporchi da bruciare e quelli verdi e nuovi da fare. La realtà lo ha falsificato. Semmai se chiudi l’acciaio in Italia perché una multinazionale indiana se lo porta a casa propria devi affrontare il tema dell’insiemistica. Cioè i calcoli complessi sulle emissioni storiche, e sulle deforestazioni, che hanno consentito lo sviluppo di alcuni e sui pro capite cioè il peso degli stili di vita costruiti e difesi anche con le guerre.

Parigi

Qui viene l’accordo di Parigi che però non risolve. Si dà un obiettivo globale e insiemistico cioè stare sotto l’innalzamento di un certo grado della temperatura ma lo affida ad impegni volontari e all’arruolamento del capitalismo finanziario. Per altro il contenimento dell’innalzamento rende già drammatiche le pratiche adattative necessarie a mitigare gli effetti.

Il capitalismo non si cura con il capitalismo!

I soggetti politici che dovrebbero guidare le manovre complesse necessarie alla insiemistica sono ormai dominanti ma alla mercé dei predatori capitalistici divenuti sempre più giganti. Lo si è visto con la pandemia. Ora vogliono quotare in borsa tutta, ma proprio tutta, la materia vivente. Se si pensa che uno dei punti cardine del mondo di Kyoto sarebbe il trasferimento di tecnologie per favorire uno sviluppo diverso dei Paesi “arretrati” e che invece stiamo assistendo ad una concentrazione mai vista di conoscenza e natura sequestrate tramite brevetti e quotazioni in borsa ci accorgiamo di quanto il sistema abbia un cuore nero.

Il conflitto di questi decenni è stato “filosoficamente” tra riduzionismo e complessità. Il riduzionismo capitalistico si è affermato. Ma una nuova complessità per vivere deve capire che una malattia che si riproduce estendendosi e mangiando tutto non può essere curata ma va rimossa. Tale è il capitalismo.

Roberto Musacchio

1/2/2022 https://www.sulatesta.net

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *