Nuovo dizionario delle parole italiane
IMMIGRATI
L’immigrazione di chi affronta il Mar Mediterraneo sui barconi ha aspetti tragici e la tragedia ci impone di dividerci nettamente su due fronti: dobbiamo decidere se gli avvenimenti che vediamo in televisione siano da considerarsi, o meno, fatti nostri. C’è chi pensa che i problemi di quanti sbarcano siano solo cavoli loro: essendo la nostra Sicilia terra di ciclopi, gli africani dovrebbero restare sull’altra sponda, per il loro stesso bene. Noi europei finalmente ci assomigliamo in qualcosa: quasi tutti i nostri politici manifestano la voglia di tirare il culo indietro, rimpiangendo l’involontaria, an-che se non del tutto incolpevole, purezza della razza bianca nell’immediato dopoguerra. Mai che si possa dar luogo a gioiose autocelebrazioni! Agli inizi del terzo millennio avremmo potuto festeg-giare l’abolizione della discriminazione tra ariani e semiti, la pace tra francesi e prussiani e invece arrivano i neri (chi oggi è in grado di distinguere i camaleonti in tuta mimetica?). I medici, messi di fronte a immagini di sofferenza, fanno una gran fatica a pensare che non siano fatti loro, anche se pochi sono in grado di affrontare la prima linea, difesa dai confratelli di Medecins sans frontieres. Anche i medici hanno avuto le loro pecore nere (colore della divisa, non della pelle) e non sempre hanno avuto la vocazione a rimanere neutrali. Abbiamo amato il Che, romantico eroe sudamerica-no, mentre non ricordiamo medici a noi più vicini, ma più scomodi come George Habash e Wadi Haddad. Forse sono stati dimenticati, e non demonizzati, perché non rientravano nel novero dei cosiddetti terroristi islamici (va da sé che la definizione di “terrorista greco-ortodosso” non suona bene). Chi ritiene che i medici dovrebbero trincerarsi dietro il candore del proprio camice ed esprimere solo posizioni politicamente corrette in stile “Croce Rossa Internazionale” dovrebbe leggere a proprio rischio e pericolo i romanzi di Céline, così vicino e così lontano dalla Verità.
RIFIUTI MOLTO SPECIALI
È evidente che produciamo troppi rifiuti e li gestiamo male, dobbiamo combattere un senso di colpa strisciante e un avvilimento che rendono le nostre strade luoghi di penose riflessioni. Gli antichi romani facevano acquedotti, noi bottiglie di plastica, il prezzo da pagare per la drastica privatizza-zione delle risorse idriche è un’invasione di bottiglie che, leggere, leggere vagano per marciapiedi e aiuole. Ogni cittadino ha le sue monoporzioni di acqua e le paga pur di attingere direttamente alle fonti della Marmolada senza passare per opere di canalizzazione frutto degli sforzi associati di geologi e ingegneri e di un esercito di maestranze più o meno qualificate. È meglio che l’acqua viaggi su gomma, racchiusa in contenitori che ne imitano la trasparenza, piuttosto che scorrere in condut-ture dal fondale sabbioso, incrostate di calcare e invase dalle alghe. Le bottiglie, dopo aver fatto cir-colare l’acqua, vagano per centinaia di anni sugli oceani, come meduse, verso un futuro che è meglio non immaginare.
Ora, cosa c’è per i benpensanti di più minaccioso, di più sconvolgente che assistere da spettatori te-levisivi allo sbarco dalla nave Aquarius dei rifiuti prodotti dai migranti, sorprendendo un gesto pri-vo di retorica e di eroismo, compiuto da marinai sorpresi in un’operazione quasi furtiva? La logica generata dal colonialismo vuole che noi esportiamo massicce quantità di rifiuti e scorie in paesi dall’identità nazionale improbabile e dai confini tracciati dalle potenze occidentali con squadra e righello, ma quanti ritengono salutare una drastica pulizia etnica non accettano di subire l’invasione di africani che usano bicchieri di plastica, vengono vaccinati e curati grazie a siringhe di plastica e marcano materiali asettici o sterili con le loro impronte digitali e li inquinano con i loro fluidi cor-porei.
I batteri e virus patogeni non c’entrano, loro viaggiano benissimo per conto loro, anche senza sup-porti artificiali e navi, utilizzando come vettori zanzare (le zanzare tigri sonno arrivate da noi come larve nell’acqua trattenuta all’interno di copertoni di gomma) e topi. Chi insiste su motivazioni microbiologiche per chiudersi entro frontiere sicure si ricordi che l’AIDS ha iniziato a diffondersi grazie agli spostamenti di un ignaro steward d’aereo e che sia il virus dell’aviaria che quello dell’Ebola riescono a viaggiare in prima classe senza pagare biglietto. Invece per molti paladini della sicurezza è inaccettabile che i migranti, anche loro, abbiano accesso alla plastica, la usino e la gettino. La plastica, oltre a essere un prodotto esclusivo della nostra inciviltà, è umana, troppo umana per trovare un suo posto presso di noi senza minacciare gli equilibri del creato.
CHE FARE?
Le prese di posizioni contrapposte sul problema dei migranti danno vita a infinite polemiche e, de-testando chi non la pensa come noi, otteniamo solo di aumentare l’odio che avvelena il pianeta. Tra i due litiganti il terzo affoga. Chi vorrebbe che la nostra società fosse più accogliente ha difficoltà a fare qualcosa in prima persona, non rimane indifferente agli aspetti tragici degli sbarchi, ma poi quando vede agli angoli delle strade e davanti ai supermercati giovani di colore che chiedono l’elemosina pensa: “Non è questa la soluzione, così non va bene”. Certo che così non va bene, ma potrebbe anche andar peggio. Se una signora dà loro una monetina, i ragazzi le sorridono: “Grazie, mamma!”, sono fuori posto, e lo siamo anche noi. Se non li incontriamo per strada, dove altro po-temmo incontrarli? Le nostre case per loro sono inaccessibili e non siamo più una comunità. Infatti i comunitari non esistono nemmeno per il vocabolario (negli aeroporti si allude a loro in modo biz-zarro: Schengen), mentre gli extracomunitari esistono anche troppo, ma che importa. In attesa di so-luzioni a venire non c’è motivo di lasciarsi condizionare dai dubbi: mater certa est.
RIACE
Proprio i pescatori di Riace, che hanno preso con le loro reti i bronzi, simbolo di classicità e perfezione, si sono fatti pescatori di uomini, rendendosi responsabili di una realtà confusa: sono diventati essi stessi irregolari, lasciandosi contaminare dai migranti. I borghi d’Italia devono restare semideserti, le antiche case mezze diroccate vanno conservate tali, i nostri campi di collina o di montagna vanno abbandonati al lavoro incessante delle talpe. Sono i monumenti di un’Italia che va scompa-rendo e fanno da contrappeso a svincoli stradali, ponti e massicciate di cemento, palazzine nate dall’abusivismo edilizio. L’abusivismo va bene, è l’irregolarità regolare, ben rodata, ormai ovvia. Ma la commistione di razze e di lingue che potrebbe aver origine dalla solidarietà fa inorridire: po-trebbero nascere dei bimbi nelle nostre stalle, non uno, ma mille, con una gran confusione di stelle comete. Chi si lascerà guidare dal Cielo porterà loro dei doni e, avvertito in sogno, nel tornare al proprio paese, avrà la prudenza di non passare per Roma.
SIAMO TUTTI QUALCOS’ALTRO
La retorica produce slogan che vanno bene per tempi brevi, ripensandoci l’emotività si sgonfia e le cavolate risultano tali. Vi ricordate quando eravamo tutti francesi? Eravamo tutti Charlie? Bene, il giornale satirico divenuto celebre, non per i propri meriti, pubblica una vignetta sul crollo del ponte Morandi: “Costruito dagli italiani, pulito dai migranti”. Evidentemente noi siamo tutti francesi, ma i francesi non sono tutti italiani. Molte vignette sono blasfeme e, se oggi non è opportuno ergersi in armi a difensori della fede, bisognerebbe per lo meno trovare il modo di mettere in salvo il buon senso.
LA BANALITÀ DEL MALE
Chi ha parlato per la prima volta della banalità del male ha sollevato un vespaio. È stata una donna, e quindi la maggior parte dei filosofi, dei sociologi e degli storici si è seccata che una di quelle crea-ture che per millenni avevano solo taciuto (e lavato i piatti o scopato i pavimenti delle chiese e delle sinagoghe) avesse qualcosa da dire, con tutta la freschezza di una mente non ottenebrata dagli effetti del testosterone.
Secondo un’equazione alla quale non è facile rinunciare a un male grande dovrebbe corrispondere un grande colpevole, la cattiveria del criminale (mettiamo: Gilles de Rais) dovrebbe essere direttamente proporzionale alla gravità del crimine.
Facciamo una digressione, per poi passare all’etimologia dell’aggettivo banale: la peste è causata dal bacillo Yersina pestis con la collaborazione di pulci e topi. La Yersinia è visibile solo al micro-scopio, quindi la sua pericolosità non è paragonabile a quella del leone o della tigre. La forza della Yersinia sta nella sua replicazione: veniamo colonizzati e uccisi da un esercito di Yersinie (fine della digressione).
L’aggettivo banale deriva dal francese medioevale e in origine indicava ciò che era concesso in uso a tutta la comunità: il banale quindi era il comune. Se tutta la comunità è convinta che si possa masssacrare, tradire, bestemmiare o non pagare le tasse, tali azioni rimangono nella sfera del male, ma si tratta di un male banale, condiviso. Chi decide di prendere una Yersinia, metterla su un vetrino, ingrandirla al microscopio, processarla e impiccarla ha molti motivi per giustificare la propria azione, a patto che non si affezioni all’idea di aver catturato un leone. La storia ci ha insegnato poi che la maggior parte delle pulci l’ha fatta franca.
LA VIE NE FAIT PAS DES CADEAUX
I politici hanno promesso regali e ora si stanno ingegnando per mantenere almeno qualcosa. Temiamo tutti la vita dura, c’è chi ne ha avuto un assaggio e chi ha incontrato la sventura, anche nelle sue forme più primordiali: terremoti e inondazioni. Pochi sono i miracoli certi e le belle storie d’amore. Scherzare con gli amici al bar ha ancora il sapore di un piacere semplice e antico e amia-mo che ci vengano narrate le tradizioni delle nostre regioni, che ci vengano mostrati alberi d’aranci carichi di frutti. Intanto speriamo in una novità, dono dei nostri politici, che consentirà ai giovani di pensare all’immediato futuro come a un limbo illuminato da una luce fioca, ma rosea. Un tempo i ventenni venivano mantenuti per un anno dallo Stato, indossavano divise ruvide e nelle mense mangiavano molto peggio che a casa. Trovavano anche il modo di ridere e scherzare, ma non vede-vano l’ora che la naia finisse e iniziasse la vita vera. Ora la Patria vorrebbe concedere loro dei doni, non chiama più nessuno all’adunata, non esorta a riunirsi a coorte; i pericoli che ci minacciano nei tempi della globalizzazione sono imprevedibili ed è inutile fronteggiarli imbracciando il fucile, for-se gli incubi peggiori sono solo dei fantasmi della mente, ed è generoso pensare di concedere ai giovani qualche anno di vita tranquilla prima che succeda qualcosa, anche se nessuno immagina cosa.
REDDITO DI CITTADINANZA, UOMINI E TOPI
“Non importa se i gatti sono bianchi o neri, l’importante è che prendano i topi.” Questa asserzione di Deng Xiaoping, divenuta proverbiale, ha il dono di essere semplice e sintetica e, contrariamente a tante banalità pronunciate da politici improvvisati, ha preannunziato una svolta destinata a cambiare il mondo. Sappiamo che chi dorme non prende pesci e con tutta probabilità chi riceverà il reddito di cittadinanza non prenderà né pesci, né topi. Il problema non è tanto adattarci a una dieta vegetariana che non ci farebbe affatto male, è che alla nostra generazione, che guarda alla pensione ormai vicina come a un bel sogno, negli anni giovanili non è mai stato prospettato nulla di simile al reddito di cittadinanza. Nell’infanzia ci hanno parlato molto dell’inferno, nell’adolescenza della rivoluzione, che avrebbe inaugurato la versione immanente del paradiso, poi delle droghe, leggere e pesanti, che ci permettevano di sperimentare su questa terra un mix tra inferno e paradiso, quando non ci cata-pultavano direttamente all’altro mondo. Il femminismo è stato un cammino di emancipazione e ha generato un mare di complicazioni, rendendoci più adulte e responsabili, anche delle nostre più pro-fonde e ataviche contraddizioni. Ci ha rese forti e consapevoli, anche se ha realizzato le nostre speranze di giungere a una profonda armonia tra i sessi più o meno quanto le lotte operaie hanno rea-lizzato le aspirazioni del proletariato. Abbiamo conosciuto esaltazioni, ansie, nevrosi e depressione, abbiamo coltivato qualche bel sogno, anche d’amore, e abbiamo affrontato il lavoro pensando che ci sarebbe piaciuto, che ci avrebbe permesso di esprimere tutte le nostre potenzialità, dal momento che eravamo creativi e pieni d’idee, ansie e nevrosi. Ripensandoci, forse dovremmo ammettere che, bianchi o neri, più che ai gatti, verrebbe da paragonarci ai topi. Però, dal momento che ci resta la libertà di scelta, potremmo ancora trovar spazio per tenerezza e fantasia e decidere di non voler esse-re né leoni, né cammelli, né gatti, né topi e cercare insieme un’altra via, che ci tenga alla larga da inferno e paradiso.
BED AND BREAKFAST
Bed and breakfast è una formuletta magica, come abracadabra. Tutti abbiamo, prima o poi, imma-ginato di trasformare la nostra abitazione o il nostro castello o la casupola ereditata dal nonno in una pensioncina poco impegnativa, roba da dilettanti, da massaie volenterose (che in alternativa potreb-bero fare il sindaco di Milano). Se il figlio è espatriato, se il marito o la moglie se ne è andato/a, se siete disoccupati, se in famiglia la vostra cucina è poco apprezzata, se desiderate lavorare senza su-bire le angherie di nessuno, se vi sentite soli, allora immaginate di avere ospiti paganti che vi sorri-dano ogni mattina quando preparate loro la colazione.
Loro saranno un’estensione della famiglia, una fonte di reddito e vi diranno sempre “Grazie!”. Sederanno alla vostra tavola e voi li contemplerete in tutta tranquillità senza porvi la domanda che il vostro coniuge vi suscita ogni mattina: “Ma chi è veramente costui/costei?”
Abracadabra forse deriva dall’antico aramaico: “Io creerò come parlo” e in effetti sembra che basti parlare di bed and breakfast perché si realizzi, come per magia, una struttura recettiva. È un sogno perfetto, ma abracadabra potrebbe invece derivare dall’ebraico “invia la tua folgore fino alla mor-te” e, in effetti, realizzare il sogno equivale spesso a invocare una folgore che riduca in cenere le vostre illusioni (gli Dei, quando vogliono punirvi, realizzano i vostri desideri). La stanza del figlio, privata degli orsetti, delle navicelle spaziali e del poster di Freddie Mercury vi sembrerà spoglia e funerea. Se avete ereditato una villa padronale e avete svilito la sua austera bellezza ricavandone dei miniappartamenti, ognuno dotato di servizi igienici, verrete turbati in sogno dai rimproveri del non-no aristocratico. Dopo aver snaturato il vostro castello, verrete perseguitati nel cuore della notte dal fantasma dell’avo più altero e sanguinario, che non vi perdonerà mai di aver piazzato dei cessi nella sua armeria e di aver profanato le sue stanze arredandole con mobili Ikea.
VIOLENZA DOMESTICA: MI CASA ES SU CASA
Mettere in vendita la nostra intimità familiare e la nostra storia non è l’idea peggiore che ci possa venire. Presuppone che l’estraneo sia accolto, che riceva gentilezza in cambio del suo denaro. In-somma, non abbiamo motivo di sparare all’ospite pagante del nostro bed end breakfast. La logica vuole, e la legge sta per essere modificata in tal senso, che sia lecito ferire o uccidere chi ci viene in casa per rubare il nostro denaro e sottrarci i più preziosi tra i nostri ricordi, facendo cinicamente una scelta, decidendo cosa, nel mare di oggetti e soprammobili accumulati negli anni, abbia valore ai suoi occhi. Nessuno è autorizzato ad accoltellare la moglie che se ne va portandosi via metà, se non più, dei beni di famiglia, ciononostante c’è un’epidemia di uxoricidi. Oggi le donne, nel momento che percepiscono il rischio, dovrebbero essere autorizzate a sparare per prime, ma tra le loro tante carenze genetiche, sta emergendo anche una insufficiente percezione del pericolo all’interno delle mura domestiche. Nemmeno l’educazione fino a oggi le ha molto aiutate: i genitori raccomandano di non uscire sole la sera, di evitare i boschi bui e minacciosi, di dotarsi per viaggiare sui treni di spray al peperoncino. Le bambine sono state messe al corrente delle cattive intenzioni dell’uomo delle ca-ramelle, ma poche donne hanno previsto che avrebbero incontrato il loro assassino o il loro mole-statore in casa propria.
Le madri di famiglia dovrebbero quindi opporsi alla presenza di un’arma in camera da letto, consa-pevoli che se il bambino la trova potrebbe sparare alla sorellina, che il figlio quindicenne potrebbe reagire male alla sua prima delusione amorosa, che una banale lite domestica potrebbe finire peggio del solito. È anche probabile che il ladro spari per primo, consapevole dei pericoli che corre, quindi preparato ad agire per legittima difesa.
Se il marito è un brav’uomo e desidera armarsi solo per proteggere moglie e figli, o passa un con-gruo numero di ore al poligono di tiro, frequentando al contempo gruppi paramilitari, o rischia di venir trucidato da chi ha ben più esperienza di lui nell’uso delle armi.
Consiglio per i ladri: evitate le case delle guardie giurate, anche se in pensione, loro hanno avuto paura per tutta la vita ed è possibile che a voi non diano nemmeno il tempo di conoscerla, la paura.
LA MIA CASA NON è LA MIA CASA
Freud ha sostenuto che l’Io non è padrone a casa sua, e di fatto l’Inconscio accende mutui, ipoteca, vende e brucia. Spesso sono vani gli sforzi degli psicanalisti che cercano di riscattare, restaurare e arredare i nostri spazi interiori, quindi a parità di costi è più conveniente dedicare le proprie energie al mattone, imitando il più saggio dei tre porcellini.
Investendo sugli aspetti concreti della vita ci organizziamo nella nostra casa, nel nostro quartiere, nella nostra città e nella nostra Patria, che comprende anche barrire naturali come le Alpi.
Tutto andrebbe a meraviglia se non ci fossero i vicini di casa, i perdigiorno e gli accattoni e soprat-tutto gli stranieri. È il mare che ci frega, liquido, infido e per sua natura extraterritoriale, navigabile.
A volte si comporta come il Piave, che in guerra è stato dalla nostra parte, a volte non prende posi-zione ed è imprevedibile con le sue buie profondità, le bonacce e le tempeste.
Abbiamo mari ovunque, abbiamo coste che è impossibile pattugliare, così ci ritroviamo alle prese con il nostro Inconscio, noi che non vorremmo accogliere lui né nessun altro, né avere a che fare con nulla di oscuro, sconosciuto e ostile. Sarebbe così bello se ogni cosa fosse affidabile, concreta, rassicurante come lo zerbino di fibra di cocco che, anche se recita: WELCOME, non ha mai invitato nessuno a superare la soglia di casa.
PERCEZIONE DEL PERICOLO
Prevenire è meglio che curare, uccidere è meglio che venir uccisi. Se la legge ammetterà compor-tamenti violenti conseguenti alla percezione di un pericolo, c’è da chiedersi perché limitare il diritto all’autodifesa allo spazio domestico. È vero che, sorprendendo un estraneo in casa, siamo autorizzati a pensare che abbia cattive intenzioni e infatti una volta il capofamiglia poteva uccidere più o me-no impunemente anche l’ospite invitato a sua insaputa dalla moglie o dalla figlia.
È invece difficile conciliare la percezione del rischio di venir aggrediti fuori casa con l’altrui libertà. Nulla vieta agli energumeni di aggirarsi per i parchi di notte e se dovessero mettersi a sghignazzare o a vociare per festeggiare il loro intimo rapporto con il Dio Bacco, in linea di massima la cosa non dovrebbe essere affar nostro. Ma se ci rivolgessero la parola per chiedere l’ora o una monetina, potrebbero superare quella che riteniamo essere la distanza di sicurezza e scatterebbe la nostra percezione del pericolo. Per risolvere ogni malinteso sarebbe bene che nei processi i giurati venissero scelti tra i padri di famiglia, i paranoici e i venditori di armi.
Cristina Biondi
6/1/2019 www.inchiestaonline.it
(Nona pagina del nuovo dizionario)
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