Oblio, bugie e grandi eventi
L’eredità del Mondiale di calcio maschile di Qatar 2022 è quella che rischia di produrre Expo: un mare di promesse irrealizzate, una serie di disastri sociali, economici e ambientali
Il sommo poeta Jorge Luis Borges ci ammoniva di quanto sia nefasto per la mente umana ricordare tutto. L’oblio è fondamentale per sopravvivere, scriveva. Ma non sempre può essere totale. E allora cerchiamo di selezionare i ricordi, soprattutto sulle cose orribili, come guerre e pandemie. O i grandi eventi sportivi, che sono il vero segno della contemporaneità: fiere dell’atrocità, pretesto per speculazioni economiche, devastazioni sociali e ambientali. L’ennesima scusa per privatizzare profitti e socializzare perdite. E così, a un anno di distanza dal Mondiale di calcio maschile di Qatar 2022 ricordiamo la Coppa di Leo Messi e i gol di Kylian Mbappé, le parate di Emiliano Martínez e la favola del Marocco. Ma tendiamo a dimenticare tutto il resto. Perché lo spettacolo del capitale possa ripetersi nelle sue infinite repliche tecnicizzate.
È stato dimostrato come dagli anni Settanta ogni mega evento sportivo abbia sempre superato le previsioni di spesa, generato corruzione e creato debiti per il paese ospitante. Per questo ora si tende a organizzarli itineranti (Mondiali 2026 e 2030) o in stati dal forte potere d’acquisto e dalla debole libertà sociale (Russia 2018, Qatar 2022 e Arabia 2034). E così è stato calcolato che il Qatar tra stadi, trasporti, strade, alberghi e altre infrastrutture, abbia speso circa 220 miliardi di dollari. Una cifra record, se pensiamo che i Mondiali di Brasile 2014 e di Russia 2018 erano costati tra i 15 e i 20 miliardi, e supera tutte le precedenti edizioni dei Mondiali messi insieme. Una cifra che doveva servire soprattutto a una cosa: a costruire una legacy per il Qatar e per la Fifa.
Perché da quando si è capito che i grandi eventi sportivi generano malessere e proteste ci si è inventati il concetto di legacy, o di eredità, giocando sul fatto che nel nostro immaginario le grandi metropoli del Novecento sono caratterizzate da immense opere architettoniche costruite per i mega eventi. E allora cari cittadini scusateci per il disturbo, per la devastazione ambientale, il controllo sociale, le perdite sui bilanci statali e i debiti accumulati, ma sappiate che dopo qualcosa resterà. E se il presente è stato devastante, ne trarrete giovamento in futuro. E così se un anno fa su Jacobin avevamo raccontato tutte le problematiche di Qatar 2022 prima dell’inizio, ora è il momento di capire come sono andate le cose. E allora impossessiamoci del concetto di legacy e utilizziamolo come arma a nostro vantaggio, provando smontarlo pezzo per pezzo.
Lo facciamo a partire dal lungo memoir che la stessa Fifa pubblica sul suo sito in vista del primo anniversario. Un report incentrato proprio sulla legacy in cui si narrano le magnifiche e progressive sorti in cui è precipitato l’emirato del Qatar dalla fine dei Mondiali. È stata fatta una riforma del lavoro senza precedenti – scrive la Fifa – che ha alzato il salario minimo e migliorato le misure di sicurezza per i lavoratori. E ha cancellato molte leggi restrittive della libertà come la kafala (antica norma della tradizione islamica che in alcuni paesi è però utilizzata per sfruttare il lavoro migrante, con il datore di lavoro che assume un diritto assoluto di sfruttamento della forza lavoro, della vita e della morte del lavoratore).
Peccato però che quelle della Fifa siano tutte balle. Rothna Begum, una ricercatrice di Human Rights Watch che ha lavorato a lungo in Qatar vivendo con i lavoratori migranti ha raccontato al Washington Post che il sistema della kafala è ancora ben in vigore: «Ne hanno riformati solo alcuni aspetti, ma non hanno smantellato il sistema – ha detto – Anzi, proprio per come lo hanno riformato, sembra quasi che abbiano fatto di tutto per farlo rimanere in funzione». In generale la rete è piena di racconti di lavoratori qatarioti che dicono come non sia cambiato nulla. È vero che per legge oggi in Qatar è possibile cambiare lavoro. Ma il paradosso è che per farlo si ha bisogno del permesso scritto del vecchio datore di lavoro, che può benissimo non concederlo, oppure può usarlo come ricatto nei confronti del lavoratore. Con buona pace della Fifa, la situazione del lavoro in Qatar non è migliorata.
Secondo il sito The Athletic poi, i lavoratori sopravvissuti nei cantieri per la costruzione degli stadi e delle infrastrutture non sono nemmeno stati pagati. Eppure il Qatar i soldi li ha, e la Fifa qualcosa dal Mondiale ha guadagnato. Per la precisione, come riporta la stessa Fifa sul suo sito, nel quadriennio che va dal 2018 al 2022 la Fifa ha generato ricavi per 6,4 miliardi di dollari, di cui almeno 6 miliardi di dollari sono riconducibili ai Mondiali di calcio maschile di Qatar 2022. Secondo Al Jazeera, media qatariota, questi ricavi della Fifa sarebbero addirittura aumentati, arrivando a 7,5 miliardi di dollari grazie agli accordi di sponsorizzazione last minute con aziende locali come Qatar Energy (azienda petrolifera statale), la Qatar National Bank (banca nazionale dell’emirato e una delle più potenti della penisola) e Ooredoo (gigante delle telecomunicazioni).
Ma non è finita qui. Nonostante le telecamere della Rai e delle televisioni di mezzo mondo per un mese si siano ostinate a inquadrare stadi e autostrade, fontane e grattacieli, nessun oblio forzato potrà mai farci dimenticare le denunce e i reportage sulle migliaia di lavoratori immigrati da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh o Sri Lanka e morti di caldo, fame e fatica sotto il sole cocente. I loro corpi gettati nel deserto. Cosa ne è stato di quell’immane tragedia? A un anno di distanza dall’inizio della manifestazione non se ne parla più. Non perché il problema sia stato risolto, al contrario, perché non è stato fatto nulla. Non è stata pagata alcuna compensazione o penale alle famiglie.
Lo dice Amnesty International nell’ennesimo comunicato rilasciato sul tema, in cui si ostina a chiedere chiarimenti a Fifa e Qatar. Lo dice Minky Worden, direttrice delle iniziative globali di Human Rights Watch, sempre al Washington Post quando afferma che: «Nulla è stato ancora fatto sul tema». Le ultime parole pronunciate sul tema dalla Fifa sono quelle dette da Michael Llamas, direttore del Comitato per i diritti umani della Fifa (sic!). Interrogato sulla questione lo scorso marzo in Ruanda, durante il congresso che ha rieletto Gianni Infantino a presidente, e a tre anni di distanza dalle prime denunce delle Ong e a mesi di distanza dalla fine del Mondiale, il signor Llamas è riuscito giusto a dire che la Fifa «deve ancora approfondire la situazione». Alla faccia della legacy.
D’altronde che qualcosa sarebbe andato storto lo si era capito quando il presidente della Fifa, dopo avere preso la cittadinanza in Qatar, in risposta alla domanda sui lavoratori morti per realizzare il mega evento aveva detto che «i lavoratori migranti in Qatar devono essere orgogliosi di aver trovato un lavoro, e di poter lavorare così duramente». E da quanto ribadito pochi mesi fa sempre da Gianni Infantino a Davos, davanti all’ Organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni Unite. Un tour de force devastante per il povero Gianni, cercare di convincere tutto il mondo che le migliaia di lavoratori migranti morti in Qatar siano un tributo alla libertà di impresa. Forse per questo al suo stipendio da presidente della Fifa da 3,6 milioni di euro l’anno, ha deciso di aggiungere un bonus speciale da 1,6 milioni. Un beau geste che va a rafforzare il concetto di legacy.
E non è che dal lato ambientale le cose siano andate meglio. La Fifa aveva annunciato che la competizione sarebbe stata la prima carbon neutral dell’intera storia dei Mondiali. E subito una Ong aveva spiegato che il risultato non si sarebbe ottenuto con l’azzeramento delle emissioni, ma con una complessa architettura finanziaria in cui si vendono o scambiano quote di inquinamento. E così a giugno la Fifa, la cui sede è a Zurigo, è stata ritenuta colpevole di pubblicità ingannevole dalla Fairness Commission, autorità svizzera che si occupa della veridicità nelle campagne pubblicitarie. Secondo la commissione infatti, dopo una lunga inchiesta si è potuto stabilire che il Mondiale è stato ben lontano dall’essere carbon neutral, e continuare a sostenerlo «va a detrimento di tutti gli sforzi che si stanno facendo per migliorare la situazione del pianeta».
La legacy che ci lascia il Mondiale di calcio maschile di Qatar 2022 è quindi la stessa che ci lasciano tutti i grandi eventi: un mare di promesse irrealizzate, una serie di disastri sociali, economici e ambientali. Per questo forse, dopo tale innegabile successo, sembrava giusto alla Fifa assegnare i Mondiali del 2034 con candidatura unica all’Arabia Saudita. Come quei film dell’orrore in cui, quando tutto sembra finito, ecco che invece tutto sta per ricominciare come prima. Peggio di prima. Qui si impone però una riflessione. Le critiche ai grandi eventi sono condivisibili a priori, non solo quando questi sono assegnati a paesi che non rispettano gli standard politici occidentali. Che se davvero dovessimo parlare di diritti umani, saremmo noi i primi a non poter organizzare nemmeno una briscola.
Con questi paesi l’Occidente fa affari a prescindere. Per esempio, dopo la Germania il mese scorso il Qatar ha firmato accordi per rifornire di gas liquido fino al 2050 l’Olanda tramite Shell e la Francia attraverso Total Energies. Alla faccia dei protocolli ambientali, dei tentativi di passare al consumo di energie alternative o anche solo di cercare ridurre le emissioni prima di portare il nostro pianeta al collasso definitivo. Una festa macabra e mortale di energie fossili cui non poteva non essere invitata la nostra Eni, che subito si è accreditata anche lei fino al 2050. Questo per ribadire che i grandi eventi sportivi sono dannosi in sé. Sono deleteri per la popolazione e per la classe lavoratrice, per l’ambiente e per la giustizia sociale, sempre e ovunque. Indipendentemente dal tipo di governo dei paesi che li ospitano.
Per questo è assai sbagliato, oltreché retaggio del pensiero coloniale, sostenere che queste siano operazioni di sportwashing. Come se davvero Qatar e Arabia Saudita, che posseggono azioni (spesso da posizioni di controllo) in qualsiasi fondo, piattaforma o istituzione del capitalismo che governa le nostre vite, avessero bisogno di accreditarsi attraverso lo sport. E men che meno hanno bisogno di farlo agli occhi di noi che siamo inutili spettatori televisivi di queste infinite e replicabili mostre delle atrocità. Spettatori del cui giudizio o approvazione a questi paesi importa giustamente nulla. Questi grandi eventi sono semplicemente operazioni di accumulazione di capitale nella società globale dello spettacolo. Operazioni violente, prepotenti e ingiuste, contro cui bisogna combattere con i nervi saldi e gli occhi aperti ovunque esse siano. Per restituire la memoria, e non cadere nell’oblio.
Luca Pisapia, giornalista, ha collaborato con La Gazzetta dello Sport e con il Fatto Quotidiano, e attualmente scrive di calcio e società su il manifesto. È autore di Gigi Riva. Ultimo hombre vertical (Lìmina, 2012) e Uccidi Paul Breitner (Alegre Quinto Tipo, 2018).
30/11/2023 https://jacobinitalia.it/
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