Occupa, resisti, produci. Una panoramica sulle imprese recuperate in Italia e in America Latina
Occupare, resistere e produrre. Sono numerose le esperienze di recupero di imprese da parte dei lavoratori in America Latina e Italia. Rappresentano il tentativo di trasformare la produzione e il lavoro appropriandosi delle imprese che il capitale abbandona. Pubblichiamo questo approfondimento ad un mese da un incontro europeo sul tema: si svolgerà infatti a Barcellona, dall’11 al 13 ottobre, l’incontro europeo promosso dalla rete internazionale Economia dei lavoratori e delle lavoratrici, nata a partire dall’esperienza di Facultad Abierta dell’Università di Buenos Aires come progetto comune di dibattito e costruzione politica che coinvolge ricercator*, lavoratori e lavoratrici di imprese recuperate, cooperative, sindacati e movimenti a livello internazionale, dall’America Latina all’Europa.
In America Latina c’è una forte presenza di imprese recuperate, soprattutto in Argentina e Brasile, che rappresentano un tentativo audace di trasformazione del lavoro nel modo di produzione capitalistico intaccando un elemento centrale come la proprietà privata dei mezzi di produzione. Per indagare il primo dei due paesi è utile riprendere in mano il libro di Andrés Ruggeri Le fabbriche recuperate. Dalla Zanon alla RiMaflow pubblicato nel nostro paese una decina di anni fa. Il termine imprese recuperate dai lavoratori, ERT nell’acronimo spagnolo, nasce in Argentina durante la terribile crisi del 2001 e il ciclo di lotte che ne è seguito ed è stato scelto dagli stessi lavoratori in alternativa al concetto di autogestione.
Il termine offre l’opportunità per farci riflettere sulla parola “recupero” che riesce a descrivere molto bene la situazione di partenza di molte di queste imprese. Esse nascono essenzialmente per impedire la scomparsa della fonte del lavoro degli operai e allo stesso tempo per sostenere la ripresa dell’economia argentina. Non si è trattato di una novità nella storia del movimento operaio argentino, casi simili sono ben presenti nella tradizione del sindacato peronista ma queste lotte sono fuoriuscite dalla cornice del semplice confronto sindacale. All’epoca i sindacati erano giudicati inutili perché i lavoratori erano costretti a operare in un contesto dove le opportunità occupazionali erano talmente poche che il lavoro era considerato un bene di lusso. Le ERT non nascono da un vero e proprio esproprio visto che nella maggior parte dei casi i padroni avevano già abbandonato l’impresa nel momento della loro costituzione.
Quando Ruggeri ha scritto il suo libro le ERT in Argentina erano 300 e impiegavano circa 15.600 lavoratori. Nel 2022 questo numero ha superato quota 430. La maggior parte, circa il 42% secondo i dati del libro, erano inserite nel settore metallurgico e manifatturiero, il 19% nel settore alimentare e il 22% nei servizi come ristorazione, istruzione e salute. La maggior parte di esse sono PMI che impiegano poco più di 30 lavoratori.
Questo dato non deve stupire perché le aziende di piccole e medie dimensioni sono più facili da gestire rispetto a imprese più grandi. Il motivo è da ricercare nel bisogno di meno capitali, di meno guadagni per la manutenzione, il marketing e la logistica. Inoltre, bisogna aggiungere che le imprese più grandi fanno parte di giri d’affari a cui i padroni difficilmente rinunciano diversamente da PMI che avrebbero comunque chiuso o sarebbero state svendute. Questo non ha impedito l’esistenza di ERT di grandi dimensioni ma sono figlie di conflitti molto lunghi e articolati come il caso della Gatic, ex-concessionario di Adidas e altri marchi di scarpe sportive, dove 4 stabilimenti su 12 sono finiti sotto la gestione diretta dei lavoratori mentre il resto dell’azienda è stato comprato da altre imprese del settore.
Un altro caso altrettanto importante è quello della FaSinPat, ex Zanon, una fabbrica di ceramiche di Neuquén. La loro lotta ha raggiunto una fama mondiale. Questi lavoratori si sono dovuti battere per evitare lo sgombero della loro occupazione e allo stesso tempo riconquistare un sindacato troppo compiacente con i padroni. La dura lotta ha pagato con il riconoscimento dei giudici, dopo 12 anni di conflitto, della proprietà dei lavoratori dello stabilimento.
Il profilo medio del lavoratore di una ERT è quello di un operaio specializzato con poca capacità di reinserimento in un altro settore economico e che ha trascorso la maggior parte della sua vita professionale nella stessa impresa. I lunghi tempi per riavviare la produzione determinano un dato simile perché nel frattempo il personale tecnico e amministrativo, con più possibilità di trovare un nuovo impiego, lasciava facilmente la lotta. Per via dei settori coinvolti circa il 75% di questi lavoratori è uomo mentre le donne sono concentrate nelle ERT del settore tessile e dei servizi. La maggior parte di queste imprese si trova nell’area metropolitana di Buenos Aires, dove sorgono la maggior parte delle attività industriali dell’Argentina, e nella zona industriale di Santa Fe.
Il caso brasiliano
La situazione non è troppo diversa in Brasile. Seguendo il libro di Henrique Tahan Novaes Mondo del lavoro associato ed embrioni di educazione per andare oltre il capitale possiamo subito notare come le ERT siano molte meno, circa 67 con poco più di 10.000 lavoratori impiegati. Sono concentrate prevalentemente nel Sud e Sud-Est del paese, tra le aree maggiormente industrializzate del Brasile, e sono attive nei settori tessile, calzaturiero, metallurgico, alimentare, nei servizi e addirittura nell’estrazione dei minerali. La maggior parte di queste ERT nasce come recupero di imprese familiari fallite o in stato di pre-fallimento, spesso come risultato di una successione familiare fallita.
I lavoratori in questo modo hanno preso possesso di imprese fondate all’inizio del XX secolo, con macchinari vecchi di oltre 50 anni e con in pancia molti debiti dovuti al mancato pagamento, spesso protratto per mesi, degli stipendi dei lavoratori. Il caso di ERT più politicamente orientato in Brasile è quello di Flaskô che si batte per una nazionalizzazione sotto il controllo operaio delle imprese recuperate.
In entrambi i paesi le ERT, in assenza di norme volte a riconoscere le particolarità di questo fenomeno, sono organizzate come cooperative. Addirittura in Argentina è una scelta obbligata perché è l’unica forma di organizzazione del lavoro che consente ai non soci, tranne alcune eccezioni, di svolgere lavori nella fabbrica. Tuttavia comporta conseguenze negative per quanto riguarda l’assistenza sociale, la sicurezza sul lavoro e anche la previdenza sociale che finisce per essere a carico dei lavoratori stessi. Infine, i lavoratori argentini sono penalizzati per quanto riguarda l’accesso ad alcuni bonus che spettano anche a disoccupati e lavoratori in nero, per esempio l’Assegno universale per il figlio, ma non ai lavoratori autonomi e delle cooperative.
La nascita di una ERT segue in ordine lo slogan coniato dal Movimento Sem Terra in Brasile “occupare, resistere e produrre”. Infatti la prima fase inizia con l’occupazione della fabbrica, spesso sovrapposta alla seconda, cioè quella della resistenza. In Argentina la fase dell’occupazione dura in media circa nove mesi per poi lasciare il posto a una cooperativa legalizzata a seguito di un processo che può essere più o meno traumatico e radicale. A volte il passaggio dalla vecchia proprietà alle ERT avviene attraverso un accordo tra padroni e lavoratori, senza che l’impresa smetta di funzionare. La motivazione dietro una simile scelta può risiedere nel tentativo di salvare l’impresa da parte della vecchia proprietà che pur di raggiungere questo scopo è disposta a consegnare l’azienda ai lavoratori. In altre occasioni il processo assume dei contorni molto più radicali come nel caso del recupero, descritto da Ruggeri, della cooperativa La Nueva Esperanza, una fabbrica di palloncini e prodotti in lattice che venne chiusa all’insaputa degli operai, avvisati della decisione del padrone da lavoratori di altre fabbriche vicine alla loro.
La chiusura dello stabilimento è seguita dallo sgombero dei macchinari da parte di mercenari assoldati dal padrone, rendendolo un magazzino vuoto che poco dopo andò misteriosamente a fuoco. Tramite un lavoro investigativo molto certosino venne individuato il magazzino dove erano stati nascosti i macchinari. Gli operai sono riusciti a tornare in possesso di questi mezzi di produzione per riavviare, nel loro luogo di origine, la produzione. L’occupazione si lega inevitabilmente alla resistenza per provare a fronteggiare i tentativi di sgombero e trovare le risorse e la forza necessarie a far ripartire la produzione. Un fattore decisivo in questo contesto è la costituzione dei lavoratori in un collettivo solido e compatto capace di portare avanti il conflitto, superare le sfide poste dalla repressione ed ergersi a soggetto capace di organizzare la produzione in uno schema diverso dal classico lavoro salariato.
Si tratta di un lavoro di ricostruzione perché la chiusura della fabbrica, spesso in maniera fraudolenta, è preceduta dalla disarticolazione dell’unità dei lavoratori attraverso la contrapposizione tra lavoro manuale e intellettuale, la ricerca del sostegno dei delegati sindacali troppo compiacenti e la creazione di un clima di ansia e disagio volto a diminuire il numero totale dei lavoratori prima della chiusura.
Questa fase è accompagnata da pagamenti degli stipendi parziali o saltati completamente e dal trasferimento in nuovi stabilimenti dei macchinari oppure la cessazione della loro manutenzione. I lavoratori, in base all’intensità del conflitto, tendono a dissolvere le vecchie gerarchie e riorganizzarsi attraverso assemblee democratiche che assumono la leadership dell’impresa. La sfida dei lavoratori è quella di trasformarsi in classe dirigente capace di assumersi la responsabilità di come impiegare le risorse accumulate tramite il ritorno in attività dell’impresa. Questa fase ha anche come obiettivo il riconoscimento legale, tramite istituzioni statali e sindacati, della nuova impresa. A questo punto si apre la fase della produzione.
Nonostante l’entusiasmo iniziale, i lavoratori si trovano ad affrontare ostacoli significativi, tra cui la mancanza di risorse, la necessità di competere nel mercato capitalistico e la difficoltà di gestire un’impresa in assenza del personale amministrativo e tecnico. Ruggeri, evidenzia come le ERT, pur riuscendo a riattivare la produzione, spesso dipendano da terzi per capitale e commercializzazione, limitando le possibilità di controllare in maniera autonoma l’impresa. Inoltre, la mentalità da lavoratore salariato persiste, generando conflitti interni sulla distribuzione del reddito e sulla responsabilità individuale. In Brasile la formazione delle ERT affronta problemi simili sul fronte della produzione mentre ha aspetti meno conflittuali nelle fasi precedenti. Al momento della chiusura della fabbrica i lavoratori si ritrovano a rivendicare il diritto al lavoro, facendo emergere l’idea del recupero dell’attività produttiva con l’allontanamento della vecchia proprietà e la rinuncia anche alla riscossione di eventuali debiti con l’azienda pur di entrare in possesso dei mezzi di produzione.
Durante queste operazioni sono sostenuti dal sindacato che si rende disponibile a trattare la fuoriuscita dall’impresa con i vecchi padroni e si impegna a trovare i finanziamenti necessari confrontandosi con enti pubblici e privati. In alcuni casi il sindacato finisce per diventare corresponsabile della gestione dell’impresa assieme ai lavoratori. Va sottolineato, però, come questa strategia di lotta non abbia mai assunto un ruolo centrale nella prassi dei sindacati brasiliani. Le ERT in entrambi i paesi si sono organizzate in una rete per fare fronte comune. In Brasile sono sorte la ANTEAG e la UNISOL mentre in Argentina troviamo il Movimento Nazionale delle Imprese Recuperate.
Un ultimo aspetto da indagare è il rapporto con i movimenti sociali. Spesso queste lotte riescono a coagulare una serie di forze sociali, anche orientate verso una lotta per il superamento del capitalismo, nei primi momenti del conflitto ma una volta ripresa la produzione, tranne nelle ERT politicamente più orientate come la FaSinPat, tendono a isolarsi dal resto delle lotte, sia della propria categoria che degli altri movimenti.
Questo problema deriva dalla scarsa politicizzazione dei lavoratori che intraprendono questo percorso non perché siano politicamente orientati al superamento del capitalismo come modo di produzione ma a causa della necessità di avere un posto di lavoro con cui sopravvivere in assenza di alternative occupazionali.
Le esperienze italiane
In Italia abbiamo una lunga tradizione di imprese recuperate che ha prodotto, poco prima della pandemia, ben 113 ERT attive con oltre 10.000 lavoratori coinvolti e un fatturato vicino al mezzo miliardo di euro. Questo fenomeno è stato rafforzato dalle crisi che ha subito il nostro paese, in particolare quella del 2007-2008, portando il numero totale di imprese recuperate da 81 nel 2007 a 122 nel 2013. La maggior parte di esse è attiva nel settore manifatturiero, il resto delle ERT italiane sono legate al settore dei servizi, della distribuzione, dei trasporti e farmaceutico. Come sostengono Leonard Mazzone e Romolo Calcagno nel loro libro Le imprese recuperate in Italia da cui ho tratto queste informazioni, queste realtà nascono attraverso un piano industriale messo in campo dai soci lavoratori con cui viene messo all’angolo l’attendismo che di solito contraddistingue lo Stato in queste situazioni.
Questo modo di rilanciare la produzione industriale fa comodo a tutti: ai lavoratori, all’indotto dell’impresa e allo Stato che finisce per incassare più di quanto spende per mettere in moto le ERT sotto la forma di cooperativa. Questo è possibile grazie alla Legge 49/1985 detta Marcora che fornisce il quadro giuridico in cui queste imprese possono muoversi e sopravvivere. Il nome con cui è nota deriva dal ministro dell’industria del governo Spadolini Giovanni Marcora, un democristiano che ha tentato in questo modo di dirottare le risorse finanziarie della cassa integrazione verso interventi concreti per garantire una ripresa industriale con un forte protagonismo degli stessi lavoratori. La norma vide una convergenza di vedute tra DC e PCI che individuarono nelle cooperative di produzione e lavoro uno strumento con cui affrontare il problema occupazionale in Italia, rendere stabili forme di partecipazione dei lavoratori italiani alla gestione dell’impresa e dare una diversa traiettoria all’evoluzione dell’apparato produttivo italiano.
In questo modo dal 1985 ad oggi sono state create 323 ERT. Il 70% di queste imprese ha ricevuto un sostegno pubblico mentre il 35% di esse, cioè 113, sono ancora attive nel 2018 investendo un capitale sociale di 63 milioni di euro con un patrimonio netto di 113 milioni e un utile di 1,7 milioni. La durata media di queste ERT è di 15,2 anni.
Analizzando più in profondità la legge Marcora notiamo che era composta originariamente da due diversi interventi. Il Titolo I prevedeva finanziamenti a tasso agevolato per le cooperative intente ad aumentare la produttività tramite i propri investimenti. Il Titolo II era collegato al finanziamento a fondo perduto del capitale sociale delle cooperative di produzione e lavoro gestite da lavoratori che fossero licenziati, cassaintegrati o dipendenti di aziende in crisi o sottoposte a procedure concorsuali. In base alla validità del progetto industriale dei lavoratori veniva erogato il finanziamento. Gli interventi erano garantiti da due fondi da 90 miliardi di lire ciascuno erogati dal Tesoro. Il primo era concepito per i finanziamenti a tasso agevolato, la valorizzazione del prodotto, l’acquisto dell’impianto produttivo o parte di esso e la razionalizzazione della distribuzione. Era chiamato Fondo di rotazione per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. Fino ai primi anni Duemila è stato gestito dalla Banca Nazionale del Lavoro per poi passare alle regioni. Ne potevano beneficiare le cooperative riconosciute come PMI e iscritte all’albo delle Società Cooperative Italiane.
L’altro fondo era noto come Fondo statale speciale per gli interventi e la salvaguardia dei livelli occupazionali e come scopo aveva finanziare il capitale sociale delle nuove cooperative di produzione e lavoro in tutti i settori in un rapporto di 3:1. Inoltre, era prevista la possibilità di includere tra i soci i lavoratori in cassa integrazione fino al 20% del totale e persone giuridiche fino al 25%. I lavoratori organizzati in cooperative con lo scopo di salvaguardare l’occupazione avevano riconosciuto da parte dello Stato il diritto di prelazione tramite acquisto o affitto di aziende, rami d’azienda e gruppi di beni di proprietà di queste imprese messe in vendita. Per poter far parte della cooperativa i soci dovevano versare una quota minima di due milioni di lire a testa nel suo capitale sociale all’atto di costituzione e altri due milioni entro i due anni successivi anche sotto la forma di cessione totale o parziale del TFR. Al capitale sociale potevano partecipare anche le società finanziarie composte almeno all’80% da cooperative di produzione e lavoro. Infine gli ammortizzatori sociali potevano essere ricevuti in un’unica soluzione da parte dei lavoratori per poter avviare un’attività autonoma o costituire il capitale sociale di una cooperativa.
Questa legge trovò l’opposizione di Confindustria che la ritenne in contraddizione con la normativa europea sulla concorrenza. Di conseguenza venne avviata una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea. Questa decisione nasce dall’errata equiparazione tra ERT e una qualsiasi altra impresa. Le erogazioni previste dalla legge tra il 1995 e il 2001 furono bloccate e la normativa venne totalmente rivista con la cancellazione di buona parte del Titolo II. L’articolo 12 della nuova norma prevede solamente una partecipazione temporanea delle società finanziarie pubbliche come soci di minoranza della cooperativa per l’intera durata del finanziamento. Vengono eliminati i finanziamenti a fondo perduto e le risorse pubbliche a disposizione sono estese anche alle cooperative sociali. Viene fissata la durata massima della partecipazione statale a 10 anni e sono stati ridotti i tempi di erogazione dei finanziamenti.
Con la nuova normativa, dicono Mazzone e Calcagno, invece di lavorare con finanziamenti a fondo perduto per triplicare il capitale sociale messo insieme dai soci, le risorse messe a disposizione dallo Stato sono pari al capitale sociale versato dai soci ed entro una tempistica, di solito compresa tra i sette e i dieci anni, questa somma deve essere restituita. Queste scelte portarono a una riduzione del 33% dei finanziamenti della legge Marcora.
Una volta definito il quadro legale in cui sono sorte le ERT italiane, possiamo analizzare brevemente, sempre seguendo i ragionamenti di Mazzone e Calcagno, come avviene il recupero delle imprese in Italia. Solitamente, in assenza di alternative, i lavoratori scelgono di mobilitarsi per difendere il proprio posto di lavoro. Davanti ai primi dubbi sul recupero cooperativistico, prevale la volontà di autogestire la fabbrica per farla ripartire. Il progetto può nascere da diverse fonti. Ad esempio potrebbe essere un suggerimento proveniente da interlocutori statali o addirittura dalla vecchia proprietà. Il processo che emerge a queste condizioni è un recupero capace di prendere forma prima di una sua visibilità pubblica. Nel libro vengono citati gli esempi di Travertino Toscano e Aurora Cucine. Quando invece il progetto nasce esternamente alle dinamiche della vecchia azienda, di solito è figlia di manifestazioni pubbliche già in corso tramite mobilitazioni e presidi, come il caso della Bolfra e dalla più recente GKN a Campi Bisenzio, oppure occupazioni come alla RiMaflow.
La lotta finisce per cementare la solidarietà tra i lavoratori e fa emergere tutta la loro capacità di ergersi a classe dirigente capace di gestire da sé l’impresa. Il recupero dell’azienda porta alla scoperta dei documenti amministrativi dietro il fallimento e la ripresa della produzione prende la forma di una sfida per i lavoratori perché avviene spesso senza la presenza di proprietà e quadri dirigenti.
La vittoria di questa sfida dipende in larga parte dalle capacità autogestionali dei lavoratori che per questo motivo finiscono per dare vita a importanti processi di socializzazione della conoscenza sul processo produttivo con lo scopo di superare le asimmetrie di conoscenze tra i soci. Sono riprese pratiche del mutualismo originario e dinamiche fiduciarie con il territorio.
La realtà che si crea non è detto sia priva di gerarchie interne. Mazzone e Calcagno ritengono possibile riscontrare figure di riferimento che svolgono una funzione di raccordo all’interno di queste comunità produttive. La ripresa dell’azienda consente di sperimentare pratiche innovative di sostenibilità produttiva e nuovi modelli di gestione. Durante la vita dell’impresa recuperata emergeranno nuovi quadri dirigenti e nuovi potenziali conflitti ma le loro pratiche e le gerarchie saranno sempre sottoposte a una forma di controllo democratico da parte dei soci, anche se questa tendenza dipende molto dalla forza della politicizzazione della lotta dietro il recupero dell’impresa. Ovviamente ci sono spesso difficoltà di natura economica che queste imprese devono affrontare per rimanere in piedi, per esempio le difficoltà di accesso al credito oppure nel comprare lo stabilimento ma secondo i dati di Mazzone e Calcagno, circa l’80% delle ERT italiane riesce a superare questi problemi.
Come segnalato, si terrà a Barcellona dall’11 al 13 ottobre l’Incontro internazionale Economia dei Lavoratori e delle Lavoratrici: il primo incontro internazionale si è tenuto nel 2007 in Argentina, riunendo fabbriche recuperate e collettivi di lavoro, attivisti sociali e politici, sindacalisti e universitari. Da allora, questi incontri internazionali si tengono ogni due anni (con una interruzione durante la pandemia, in cui si tenne un incontro virtuale online), e costituiscono uno spazio di discussione e riflessione sulle sfide a cui i/le lavoratori/trici sono confrontati/e per difendere attraverso l’autogestione i loro mezzi di sussistenza dagli attacchi del capitalismo globalizzato. Dal 2014, sono stati organizzati degli incontri regionali (Centro e Nord America, Sud America e Europa).
Il primo incontro europeo si è tenuto nel 2014 nella fabbrica di lavorazione di tè ed infusi Fralib di Marsiglia (Francia) – all’epoca occupata, la fabbrica è stata poi recuperata dai/dalle lavoratori/trici e trasformata in cooperativa, SCOP-TI. Il secondo incontro, ridefinito euro-mediterraneo, si è svolto nel 2016 nella fabbrica recuperata Vio.Me di Salonicco (Grecia). Il terzo si è tenuto nel 2019 presso la fabbrica recuperata Ri Maflow di Trezzano sul Naviglio, Milano, e il quarto si terrà a Barcellona dall’11 al 13 di ottobre 2024. Una serie di incontri internazionali si sono svolti nel corso degli anni in Argentina, Messico, Venezuela, Cile e Uruguay.
Immagine di copertina di Ri Maflow, incontro euromediteraneo Economia dei lavoratori e delle lavoratrici. Immagine nell’articolo di Alioscia Castronovo. Incontro internazionale Economia dei lavoratori, serttembre 2017, presso la fabbrica recuperata Textiles Pigué, provincia di Buenos Aires, Argentina.
12/9/2024 https://www.dinamopress.it
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