Oltre il distretto
Prato non è più il distretto tessile che conoscevamo dai libri di Giacomo Becattini e nemmeno uno dei casi di terza Italia di Bagnasco, quell’Italia che si faceva forte di un sistema di piccole imprese che governava processi produttivi e di un’amministrazione locale stabile (guidata per lo più da Pci insieme al Psi in questo caso). Prato è cambiata e sta cambiando ancora, e le nostalgie del passato, di quell’orgoglio raccontato da Edoardo Nesi nei suoi romanzi (esemplare l’immagine della spocchia dei pratesi identificata con le rotondità delle coperture dei capannoni dove si faceva a pezzi Marx perché gli operai volevano diventare tutti padroni e spesso ci riuscivano) può diventare un limite per capire cosa sta succedendo. Sono utili i testi di ricostruzione storica della città come quelli di Riccardo Cammelli (Tra i panni di rossi tinti. Appunti di storia pratese 1970-1992, Attucci Editrice, 2014), la ricerca sullo sfruttamento a cura di Andrea Cagioni o l’analisi fatta proprio sul sistema economico pratese di Fabio Bracci nel suo Oltre il distretto.
Dopo anni di relazioni industriali basate su una concertazione che si reggeva sulle basi solide del distretto, dopo essere stata una delle prime città toscane a essere strappata dalla destra qualche anno fa, proprio qui sta avvenendo da mesi una grossa repressione delle lotte sindacali. Dopo l’enorme serpente di stoffa della bandiera italiana «Prato non deve chiudere» con cui Istituzioni e parti sociali sfilarono compatte nel 2009 dopo l’esplosione della crisi del tessile e il boom delle confezioni a titolarità cinese, oggi invece avvengono scontri e repressioni davanti ai cancelli dove spesso i protagonisti non sono italiani.
Prato è la città dove su circa 194 mila abitanti, oltre 40 mila sono residenti stranieri di cui circa 23 mila cinesi (stimati quasi il doppio) e dove convivono 124 etnie diverse (fonte Comune di Prato). Prato è inoltre la provincia italiana con la più alta percentuale di stranieri giovani, circa il 24% (fonte rapporto Ismu). È la città dove il primo dicembre 2013 morirono nella notte fra il sabato e la domenica sette operai cinesi sorpresi da un grosso incendio divampato mentre dormivano in loculi abusivi nel capannone dove lavoravano per la ditta Teresa Moda. Il fumo nero e quelle morti atroci scoperchiarono un sistema di sfruttamento piuttosto noto, ma passato sotto silenzio.
La Regione Toscana da allora ha finanziato un Piano Lavoro Sicuro attraverso cui in tre anni sono stati sottoposti a controlli su salute e sicurezza tutte le aziende a titolarità cinese fra Pistoia, Prato e Firenze. Alcune situazioni sulle condizioni di salute e sicurezza sono migliorate, ma sono ancora lontane le condizioni di piena tutela contrattuale e salariale. Infatti gli interventi del Piano Lavoro Sicuro non hanno competenze sulle condizioni contrattuali e lavorative che rimangono estremamente critiche, come emerge da segnalazioni dei lavoratori o da altri tipi di controlli. In tribunale intanto il processo – diviso fin da subito in due filoni – si è concluso con la condanna dei titolari cinesi (tornati in Cina e di cui si sono perse le tracce) e con l’assoluzione dei proprietari dei capannoni italiani, che il Pm aveva definito «professionisti dell’immobiliare», ribaltando le due precedenti condanne.
Prato è la città dove per il centenario della costituzione dei Fasci italiani di combattimento è stata autorizzata la manifestazione di Forza Nuova (poi diventata presidio e notevolmente ridotta di importanza grazie al contro presidio antifascista) mentre a Milano la stessa è stata vietata, e dove il 25 aprile, durante le celebrazioni della Liberazione, la Prefetta contestata con cartelli e fischi ha risposto segnalando e denunciando i contestatori (denunce poi finite con la richiesta di archiviazione del procuratore). Prato è la città dove il 7 marzo del ’44 furono deportati 152 lavoratori in sciopero, dove negli anni del distretto il conflitto non è stato sostanzialmente praticato e dove nell’ultimo anno si registrano scioperi, rivendicazioni, ma anche scontri con le forze dell’ordine.
Ci sono sconfitte, ombre, ma anche vittorie. Sicuramente c’è una domanda di giustizia sociale nuova e di denuncia dello sfruttamento a cui occorre dare risposta.
Al di là delle sigle sindacali, i fatti interrogano tutti, su come organizzarsi politicamente e sindacalmente. Prato porta segnali di allarme, ma è anche un possibile laboratorio.
La vertenza del Panificio Toscano
Nell’estate del 2018 fra i capannoni del Macrolotto a Prato e a Collesalvetti (Livorno), balzano alle cronache le proteste dei lavoratori della Cooperativa Giano, operai impiegati nel settore della panificazione. Ci sono stati picchetti e interventi della polizia. La lotta riguarda il modello di esternalizzazione basato sull’utilizzo di cooperative per l’impiego del personale del Panificio Toscano (circa 140 lavoratori) con conseguente risparmio sulla pelle di chi lavora. Il panificio industriale annuncia che a partire dall’autunno avrebbe assunto tutti i lavoratori della cooperativa con l’apertura di un tavolo di trattative sindacali.
A ottobre 2018 il Panificio Toscano attiva la procedura prevista dall’art. 47 della L.428/1990 per assumere direttamente tutti i soci lavoratori della Cooperativa Giano (circa 120 lavoratori). Sembra anche accolta la richiesta sia dei confederali (Cgil e Uil) sia degli autonomi (Si Cobas) per l’unificazione del Contratto collettivo da applicare in base al settore merceologico di appartenenza del Panificio, cioè di panificatori industriali. Ci sono tutti gli elementi per considerare il fatto – far rientrare un intero processo produttivo all’interno dell’azienda del Panificio Toscano – una svolta nelle relazioni industriali e nella gestione del personale in controtendenza rispetto a quanto avviene un po’ ovunque nel nostro paese dove si sbandiera l’esternalizzazione come soluzione ad ogni male. Male che poi ricade sui lavoratori e che rivela la volontà di far sempre più profitto a scapito dei diritti.
Il contratto nazionale dei panificatori industriali però non viene applicato, si opta per il contratto dell’artigianato. I Si Cobas si attivano con una serie di proteste che culminano a dicembre 2018 al Parco Prato, centro commerciale dove ha sede il supermercato Unicoop per il quale il Panificio Toscano lavora. I lavoratori protestano davanti al reparto “forno” dentro al supermercato in un sabato pomeriggio pieno di clienti. Una protesta informativa, fatta con carrelli colmi di pane e dolci, un megafono, cartelli e alcuni volantini in mezzo ai clienti. Sono loro, i lavoratori del Panificio Toscano che fanno con le loro mani quei prodotti che poi finiscono sugli scaffali Coop e chiedono l’applicazione del giusto contratto nazionale. La protesta finisce in un parapiglia fra questi lavoratori e il personale della sicurezza del supermercato.
UniCoop Firenze vanta un «Codice Etico» per i propri fornitori, che dovrebbe garantire la tutela dei diritti dei lavoratori. Dopo la manifestazione dei Si Cobas, Unicoop decide di sospendere il contratto di appalto in attesa di chiarimenti sull’applicazione del contratto, sostenendo di non poter intervenire nel rapporto fra Panificio Toscano e i propri dipendenti. Il sindacato Si Cobas indice un presidio davanti alla Prefettura sostenendo che Unicoop è a conoscenza della vertenza da mesi e non può risolverla stracciando il contratto di fornitura e mandando così a casa oltre un centinaio di lavoratori. La Uil invece si dissocia dall’operato dei Si Cobas, responsabili con le loro azioni dimostrative di aver fatto perdere la commessa e di perseguire interessi personali, e fanno appello alle istituzioni per risolvere al più presto la vicenda.
Unicoop riattiva la commessa, ma ad oggi la vertenza sull’applicazione del contratto dell’industria non è ancora chiusa.
Le lotte nella filiera tessile
Dopo la vertenza sulla filiera dell’industria alimentare, la lotta degli operai pratesi si rende evidente davanti ai cancelli di tre fabbriche tessili: Tintoria DL (circa 24 lavoratori), Tintoria Fada (circa 60 lavoratori), Gruccia Creations (producono grucce di plastica, circa 12 dipendenti). In tutti e tre i casi esplosi nella primavera/estate di quest’anno, i lavoratori denunciano condizioni di sfruttamento con lavoro nero, orari e turni massacranti (anche 12 ore al giorno per sei/sette giorni a settimana), il non rispetto dei contratti e dei pagamenti dei salari e, organizzati dai Si Cobas, si attivano con sit in e scioperi davanti ai cancelli senza preavviso che determinano l’intervento delle forze dell’ordine. Agli scontri seguono poi sit in davanti al comune o alla prefettura. Pur riguardando condizioni lavorative di diverse etnie (cinesi, italiani, pakistani, rumeni, sub-sahariani di diverse nazionalità, ecc.) chi protesta in questi tre casi sono per lo più i pakistani. Le rivendicazioni e lotte comuni che grazie al passaparola sulle vertenze e i risultati ottenuti si stanno estendendo, vedono come risposta violenza e repressione ma hanno portato anche a qualche vittoria o quantomeno a scoperchiare situazioni di sfruttamento non più sostenibili.
La protesta davanti alla tintoria DL di aprile 2018 finisce in scontri con denunce e alcuni poliziotti al pronto soccorso. Dopo due settimane di scioperi e dopo gli scontri ai cancelli, la vertenza termina con la stabilizzazione dei lavoratori e il miglioramento delle loro condizioni, ma la questura di Prato apre la procedura per i «Fogli di Via» per i due sindacalisti Si Cobas coinvolti nella vicenda, Luca Toscano e Sarah Caudiero. Potranno cioè frequentare la città solo per svolgere il loro lavoro e solo dopo aver comunicato la loro presenza alla questura. Al di là dei giudizi sulla modalità degli scioperi e sit-in dei sindacati autonomi, il provvedimento rischia di rispondere a finalità politiche per colpire il sindacato in generale e intimorire i lavoratori.
A maggio, alla Tintoria Fada davanti ai lavoratori in sciopero si presenta il titolare con un cartello con scritto «Cobas comanda Prato, aiuto istituzioni». Interviene tempestivamente la polizia provocando diversi feriti fra i lavoratori poi medicati al pronto soccorso. Dopo gli scontri interviene la Regione Toscana che chiede ulteriori controlli degli ispettori del Piano Lavoro Sicuro e dell’Ispettorato del lavoro. Solidale anche la Cgil di Prato che denuncia le condizioni di sfruttamento e chiede maggiori controlli.
Il gruppo consiliare Sì. Toscana a sinistra dichiara inaccettabile lo sgombero violento dei lavoratori e il tentativo di limitare la libertà sindacale proprio in un territorio dove istituzioni, associazioni di categoria e sindacali hanno firmato fior di protocolli e intese per combattere sfruttamento e insicurezza sul lavoro. Dopo due settimane di scioperi, dopo le cariche e i fogli di via e dopo tutte le dichiarazioni e interventi, anche in questo caso i lavoratori vengono stabilizzati (anche se qualcuno a termine).
Poco tempo dopo, a giugno, davanti la Gruccia Creations, i lavoratori che protestano nei confronti dell’azienda che aveva disertato il tavolo di incontro per l’accordo di regolarizzazione, vengono aggrediti da una squadra probabilmente organizzata dal titolare. È circolata la foto di un lavoratore colpito al ginocchio, con la gamba rigirata sulla barella del pronto soccorso. I Si Cobas hanno dichiarato lo sciopero provinciale sfilando in città. La Filctem Cgil Prato rilascia la seguente dichiarazione: «Dopo anni di denunce, di descrizione del sistema di produzione illegale e dello sfruttamento sul quale si basa, di indicazioni su come deve essere contrastato, ci ritroviamo alle aggressioni dei lavoratori durante le manifestazioni per rivendicare i propri diritti. La Filctem Cgil di Prato esprime tutta la propria solidarietà ai lavoratori della Gruccia Creations, aggrediti mentre rivendicavano orari e salari regolari […] Ancora una volta, in questo territorio, il lavoratore, anche il più debole e ricattabile, non può contare sugli organi di controllo ma deve trovare da solo la strada per farsi riconoscere i propri diritti. Speriamo che tutti operino perché questo episodio sia l’ultimo, e non il primo di una pericolosissima escalation». Arriva la solidarietà ai lavoratori da alcuni esponenti del Pd locale. Intanto Sinistra Italiana dichiara che, sulle vicende pratesi che hanno portato al pestaggio dei lavoratori, porrà un’interrogazione parlamentare. Ma il messaggio più potente lo invia dal megafono uno degli operai in sciopero: «questa non è una guerra fra pakistani e cinesi, ma fra lavoratori e chi sfrutta. Per ora siamo solo i pakistani, ma piano piano usciranno tutti i lavoratori».
La ronda organizzata dai padroni per picchiare chi protesta non è una modalità nuova. Spesso la minaccia di bande organizzate per etnie fa da deterrente all’organizzazione di lotte comuni: se sei operaio della stessa etnia del padrone, sei ancora più ricattato dalla tua stessa comunità di appartenenza che ti conosce e sa dove e come può colpirti e farti male. Oltre a questo ci sono spesso situazioni in cui i datori di lavoro ricattano i propri lavoratori col permesso di soggiorno: «Se non sottostai alle mie condizioni, ti metto in cattiva luce con le forze dell’ordine e faccio di tutto per renderti difficile la regolarizzazione come cittadino». Sono racconti che si raccolgono spesso in Camera del lavoro della Cgil o presso lo sportello di contrasto al grave sfruttamento lavorativo del progetto regionale antitratta e del Comune di Prato. Se i protocolli sembrano carte deboli di buoni propositi ma che oppongono un «noi» a un «loro» e non affrontano il carattere strutturale dello sfruttamento nella filiera dell’abbigliamento, se le istituzioni e la politica non hanno la forza di governare le condizioni ricorrendo a verniciature degli assetti di un tempo che non esistono più, se la polizia protegge il cancello dei padroni, se l’azione sindacale viene repressa con sempre più forza, cosa possono fare i lavoratori? Subire in silenzio? Se c’è un modello strutturato di sfruttamento, perché non organizzarsi e affinare i modelli di lotta per sgretolarlo?
Quando i lavoratori si uniscono
A fine marzo, dai cancelli della Bagnolo Srl di Calenzano (comune contiguo a Prato), sono venuti tutti a piedi alla camera del lavoro della Cgil dopo l’ennesimo rifiuto di essere pagati per un lavoro di confezione di dieci ore al giorno per 800/1.000 euro al mese. «Se non vi va bene, andatevene. Tanto ne ritroviamo quanti ne vogliamo». Venticinque lavoratori provenienti da cinque paesi diversi: Senegal, Costa D’Avorio, Pakistan, Afghanistan, Bangladesh. Li hanno radunati fuori e cacciati. Dopo l’iniziale smarrimento si sono messi in cammino. Hanno sentito parlare di sindacato e allora a piedi fra il traffico e per chilometri. «Nulla rispetto a farsi a piedi dal Pakistan alla Turchia» come racconta uno di loro. Due mesi di arretrati di stipendio, che significa perdere tutto, non paghi l’affitto e ti cacciano da casa. Senza contare il rischio di perdere il diritto a stare in Italia. Progetto Doris, a capitale albanese, è proprietaria di tutto il capannone. C’è un appalto ambiguo in quanto unico, affidato alla Bagnolo Srl in capo a un italiano che nessuno ha mai visto. Confezionano abiti. Poi c’è la stireria, l’attività madre. Lavoravano dalle 8.30 alle ore 19.00. Abitano a Calenzano, Prato, Sesto, Lastra a Signa, Livorno, Pisa. Si spostano coi mezzi pubblici e a piedi. Alle ore di lavoro devi aggiungerci i sacrifici degli spostamenti lunghissimi.
Si apre subito una vertenza per «allontanamento verbale». La Cgil guarda le loro buste paga e si mette in contatto con il consulente. Forse ci sono anche i presupposti per «sfruttamento da lavoro». L’azienda però manda a dire di non avere soldi e che i lavoratori se ne sono andati di propria volontà. Non si prospettano incontri a breve, allora il 29 marzo, lavoratori e sindacalisti si ritrovano davanti ai cancelli per un presidio che dovrebbe durare un’ora. Lì però i titolari e alcuni lavoratori della stireria di nazionalità albanese (che si viene a sapere essere anche loro in arretrato di stipendio) tentano di portare via le macchine. Il pericolo che smantellino senza pagare si fa realtà e il presidio diventa permanente. Si attiva subito la Cgil in tutte le sue strutture, la comunità di Calenzano con le istituzioni, la Caritas che propone di portare il cibo. I lavoratori si rifiutano. «Senza lo stipendio non stiamo mandando i soldi alle nostre famiglie. I nostri bambini non mangiano. Se non mangiano loro, non mangiamo neanche noi». I sindacalisti rimangono colpiti, ma insistono. Li convincerà una frase di un funzionario Filctem, Picchioni: «Il padrone si combatte a pancia piena».
In effetti la lotta è appena cominciata. Dormono davanti al cancello. Si alzano e sembrano indenni dal disagio, al contrario dei sindacalisti che lamentano acciacchi, ma non li lasciano mai soli. «Hanno una tempra per noi dimenticata», mi dicono. «Non ci aspettavamo così tanta solidarietà dagli italiani», dicono alcuni di questi lavoratori.
Il fine settimana trascorre tranquillo. Arrivano altri lavoratori alla spicciolata, esponenti politici e singoli cittadini a portare solidarietà. Cori, canti, cous cous e fuoco acceso in un bidone. Ci sono delle brandine, confezioni di biscotti, acqua e due Sebac.
Lunedì 1 aprile il titolare non ammette di avere responsabilità nei confronti di questi lavoratori. Si lamenta che gli stanno bloccando l’attività. Martedì mattina il titolare si presenta con tanti altri per forzare la situazione. La voce di un pericolo ronda si diffonde fra i cellulari dei lavoratori della zona. Rispondono immediatamente un centinaio di lavoratori della Manetti & Roberts (lavoratori chimici) che hanno fatto un’ora di sciopero per venire a sostenere i lavoratori in presidio permanente. Questo ancora per impedire alla proprietà di sgomberare la confezione senza dare il dovuto ai lavoratori e per evitare scontri. Perché bisogna metterci i corpi, mai nessuno come la classe operaia ha idea di cosa significa corpo, di quanto lo si spreme e di quanto sia prezioso. Stanno lottando con famiglie lontane, vengono da cinque paesi diversi, hanno permessi di soggiorno in scadenza, ricatti di ogni tipo aggravati dai provvedimenti di Salvini. Ci mostrano l’idea di giustizia sociale. Il piazzale è gremito di lavoratori solidali e i titolari e la loro ronda devono andarsene. Quando c’è l’unione concreta non c’è scampo. Nel pomeriggio arriva la telefonata per la trattativa. Nel piazzale c’è una breve assemblea «Vogliamo i soldi». Poche parole, ma chiare. Fumata nera. Forse forzano la situazione perché sono tutti lavoratori estremamente deboli, hanno il ricatto del permesso di soggiorno in scadenza e il decreto Salvini come spada sul collo. Il presidio allora continua. Danno mano altri lavoratori delle aziende vicine come Gkn, Menarini, Icap-Sira, Sims, altre realtà. Gocciola il cielo. Di nuovo i titolari devono ritirarsi. Questo e altro per la dignità. Questo e altro per una vita normale. Dopo una settimana di lotta, nello stesso piazzale occupato da tende e coperte e tavoli e gazebo, vengono consegnati gli assegni del primo stipendio arretrato e siglato l’accordo per il pagamento dell’altro mese non riscosso. Lavoratori di ogni nazionalità e ogni fabbrica si abbracciano. Questo tipo di unità è la minaccia più forte per chi sfrutta e fa profitto.
Nel frattempo il secondo stipendio viene saldato e interviene l’ispettorato del lavoro coi controlli e ispezioni. Si capisce che nella ditta Bagnolo srl lavorano circa 60 persone. L’ispettorato ascolta quasi tutti. La Bagnolo srl cessa l’attività, ma i lavoratori vengono tutti presi in carico: si attiva la mobilità, un terzo vengono riassunti dalla stireria, una buona percentuale ritrova subito lavoro, alcuni fanno stage formativi per lavorare in pelletteria. Tutti ritrovano un alloggio. Si attiva insomma una procedura di presa in carico totale dei lavoratori, dalla ricerca del lavoro, al medico, alla sistemazione del permesso di soggiorno, all’alloggio provvisorio e poi autonomo.
Questa esperienza insegna al sindacato che per sostenere i lavoratori sfruttati oltre a far leva sulla solidarietà di delegati e lavoratori delle aziende vicine, deve organizzarsi come un pronto intervento per l’emergenza a sostengo della protesta e poi con una rete capillare salda e stabile di professionalità e supporto (es. dai mediatori a esperti di immigrazioni e documenti), anche perché i dati di questa prima parte del 2019 mostrano che sono salite vertiginosamente le denunce di sfruttamento sulla Piana fra Prato e Firenze. I lavoratori denunciano di più e un’organizzazione sindacale che li tutela sotto ogni aspetto può incoraggiarli.
Il pane, le pezze, ma anche le rose
La città dove negli ultimi anni le parole «legalità» e «rispetto delle regole» sono state coperte di Linus a cui tutti si sono attaccati, nei fatti è la città dove i salari sono diminuiti, ma i depositi in banca aumentati (dalla rendita dunque?), dove i capannoni hanno i più alti affitti d’Italia, dove la democrazia sul lavoro è stata fatta a pezzi e l’antica concertazione distrettuale non regge più. Se si continua ad affrontare il tutto come un problema di ordine pubblico (dimenticando che lo sciopero è uno strumento riconosciuto dalla nostra Costituzione) e non come condizione materiale e di vita dei lavoratori, come sistema economico fatto di appalti e subappalti al ribasso di diritti e dignità, la strada della repressione sarà sempre più dura e la Prato che sfrutta e fa profitto sempre più protetta. Al di là delle nazionalità, conta solo se stai dalla parte di chi sfrutta o degli sfruttati. E poi organizzarsi al meglio su tutti gli aspetti delle rivendicazioni. Il pane, le pezze, ma anche le rose. Un monito per Prato, ma anche per l’intero Paese.
Simona Baldanzi
11/7/2019 https://jacobinitalia.it
*Simona Baldanzi è nata a Firenze e vive nel Mugello. È autrice tra l’altro di Figlia di una vestaglia blu (Fazi 2006, Alegre 2019), che ha vinto il Premio Miglior Esordio di Fahrenheit Radio3 Rai, di Il Mugello è una trapunta di terra(Laterza, 2014) e di Maldifiume. Acqua, passi e gente d’Arno (Ediciclo, 2016).
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