Oltre la crisi del lavoro di cura globale
La “crisi globale della cura” è parte integrante di una crisi più ampia che definirei “la crisi della riproduzione sociale”. Questa, come quella naturale, è uno dei possibili modi di vita che si afferma in relazione allo stato del mondo in generale. Nello scenario attuale, se da una parte la riproduzione sociale funge da sostegno alle relazioni di mercato, dall’altra viene strutturalmente sottovalutata dalle economie capitaliste.
Come prima cosa vorrei spiegare cosa si intende quando si parla di “crisi globale della cura”. Poi, come i regimi di occupazione e immigrazione contribuiscono a questa crisi. Come ultima cosa, traccerò le connessioni con altri temi.
Di cosa parliamo quando diciamo ‘crisi globale della cura’?
Tempo fa ho intervistato una donna migrante che lavora in Inghilterra come tata per la famiglia di una madre single con due bambini. La mamma lavora come infermiera in un ospedale pubblico, quindi facendo turni e lavorando anche la notte. Eliska, la tata, vive con questa famiglia da nove anni dividendo la stanza con uno dei bambini, mentre la mamma la divide con l’altro. Nessuno la maltratta e ha un contratto regolare: in questo senso se la passa molto meglio di tante colleghe. Guadagna il minimo sindacale e, durante l’intervista, si è dichiarata consapevole che, percependo il minimo salariale della sua categoria, la mamma non poteva pagarla più di quanto non facesse. Eliska prova un affetto sincero per la famiglia, sente che se la lasciasse loro non saprebbero come fare e che la vita della madre e dei bambini diventerebbe insostenibile. Ma sente anche che sta invecchiando e perdendo la possibilità di avere dei figli propri, o quella di cambiare vita per fare cose nuove. Secondo me, questo esempio, emblematico della crisi globale della cura, ci mostra come questa crisi si inserisca in un più ampio attacco alla riproduzione sociale. Un attacco che mette a rischio quei processi socioculturali che reggono i dispositivi di affetto e cooperazione, che a loro volta contribuiscono a formare persone appropriate al vivere sociale e creano “lavoro”. Il lavoro di cura che è una parte della riproduzione sociale, viene sempre più schiacciato e commercializzato. I modi in cui questo avviene dipendono dal contesto locale. La capacità delle comunità di prendersi cura gli uni degli altri è minacciata in diverse forme: tagli ai servizi e alla spesa pubblica, spinta verso forme di lavoro poco pagate, poche sicurezze, emigrazione. Fattori interconnessi che hanno conseguenze specifiche sulle donne, e che, spesso, mettono le donne in conflitto tra loro. Forse il termine “crisi” è inappropriato visto che implica una dimensione temporanea, mentre quelle a cui stiamo assistendo sono le conseguenze di un insieme di processi, relazioni e comportamenti di cui la “crisi” è un sintomo. Credo che anche se riconosciamo questa crisi, e probabilmente l’abbiamo esperita nelle nostre vite, è difficile superare la dimensione individuale e allargare la riflessione.
Cosa significa questa crisi per le lavoratrici e i lavoratori migranti della cura?
Non c’è nessun elemento di novità nel fatto che alcune persone si spostino per andare a lavorare nelle case di altre persone e svolgere lavori domestici e di cura. L’emigrazione lavorativa di donne e bambini dalla campagna verso le case della città come forma di transizione verso la costruzione di una famiglia propria ha caratterizzato molte regioni del mondo. Per questo motivo bisogna stare molto attenti a fare proclami su presunti grandi aumenti nei flussi migratori dovuti alla domanda di lavoro domestico e di cura.
La mobilità territoriale legata al lavoro domestico ha molte forme, alcune costanti e consolidate, altre legate a fenomeni più recenti, come per esempio quelle connesse al lavoro di cura nelle aziende o nelle istituzioni pubbliche che offrono servizi di cura. In questa varietà di paesi e contesti c’è una costante: le migranti sono mal pagate.
Occupazione
La sottovalutazione strutturale del lavoro di cura si riflette nell’organizzazione del mercato del lavoro. Il lavoro domestico, infatti, non è considerato lavoro. Storicamente c’è una linea di divisione tra attività e lavoro, dove il lavoro non è riconducibile alla sfera privata. È questa divisione che consente di dire cose tipo “le casalinghe non lavorano”. Ma nemmeno quando è retribuito, il lavoro domestico nelle case è considerato un vero e proprio lavoro. Pagare per qualcosa non basta a rendere quel qualcosa un lavoro, basta pensare agli stagisti, ai detenuti che lavorano in carcere o alle borse lavoro. Nel caso specifico del lavoro domestico questo significa spesso lavorare senza diritti o essere soggetti a compensi discriminatori e, anche quando non è così, risulta difficile applicare il diritto del lavoro quando il luogo di lavoro è una casa privata.
A livello individuale, l’introduzione di relazioni contrattuali nella sfera privata può essere difficile da gestire e la relazione tra datore di lavoro e impiegato difficile da contrattualizzare, in particolare nel caso in cui il lavoro di cura includa lo sviluppo di relazioni tra i fornitori di servizi e chi ne ha bisogno. Questa relazione, come dice Zelizer, emotivamente non ha prezzo ed economicamente “non vale la pena”.
Il lavoro di cura viene considerato un lavoro poco qualificato che richiede saperi taciti invece che saperi codificati, competenze considerate innate o acquisite per predisposizione piuttosto che attraverso la formazione (Kofman 2007). I datori di lavoro tendono a scegliere un lavoratore o una lavoratrice con esperienza, o con un atteggiamento giusto, o con una certa personalità e spesso la nazionalità è usata come scorciatoia.
Mentre ci si immagina che chiunque possa svolgere un lavoro poco qualificato, i lavoratori e le lavoratrici della cura “poco qualificati” sono difficili da rimpiazzare e non vengono considerati intercambiabili.
La connessione che stabiliscono con la persona di cui si prendono cura non è, nel bene e nel male, facilmente trasferibile su un’altra persona. Nella pratica, l’insostituibilità e la natura unica della relazione con la persona che richiede cura lede piuttosto che aumentare il potere contrattuale del lavoratore. Eliska non vuole lasciare la famiglia perché è affezionata alla mamma e ai bambini: non faceva parte del contratto, ma liquidare questo affetto come sciocco o illusorio, o insinuare che Eliska non dovrebbe sentirsi così, è poco realistico, e non umano. Tuttavia, il fatto che ci sia dell’affetto non significa che non ci sia sfruttamento.
Immigrazione
È difficile palesare la domanda di lavoro di cura, specialmente quella espressa dalle famiglie. Non si riflette nel PIL e viene considerata affare delle famiglie e della loro organizzazione, una scelta comportamentale piuttosto che un bisogno. Negli stati in cui la domanda è più visibile, il lavoro di cura viene comunque considerato un settore di scarsa importanza di fronte al quale si può chiudere un occhio. Questo atteggiamento si riflette nel modo in cui vengono pensati e pianificati i flussi migratori in cui di solito le competenze acquisite vengono misurate in termini di educazione formale e certificata e di salari alti. Per difendere il mercato del lavoro locale, gli stati sono spesso refrattari all’apertura di canali per la mano d’opera generica. Questa combinazione di scarsa visibilità e basso status si riflette nella sottostima del bisogno reale di lavoro di cura nella pianificazione dei flussi di immigrazione. Il risultato è che il lavoro di cura è sommerso e svolto da migranti senza documenti o in situazioni semi-irregolari.
Nei paesi in cui viene preso in considerazione nella pianificazione dei regimi di immigrazione, il lavoro domestico è spesso trattato come un sottoinsieme di altre forme di lavoro generico. La conseguenza è che i lavoratori domestici vengono vincolati ai loro datori di lavoro da cui dipende il rilascio del permesso di soggiorno che spesso ha delle limitazioni temporali o comunque legate alla relazione di lavoro. I controlli di immigrazione non sono neutri: facilitano l’entrata e l’uscita di lavoratori per strutturare il mercato del lavoro di cura. Quelli che, per ridurre i costi, cercano prestazioni ad alta flessibilità, a basso costo e senza limiti orari, impiegano lavoratori immigrati irregolari che non possono appellarsi a nessuna forma di protezione legale e sociale. Allo stesso tempo i migranti irregolari potrebbero scegliere il lavoro nelle famiglie immaginando che in una casa privata ci saranno meno controlli. Anche i migranti che possiedono un regolare permesso di soggiorno sono una forza lavoro appetibile perchè il rinnovo dei documenti dipende dal datore di lavoro, che ha un grande potere di controllo e di ricatto.
Genere e lavoro domestico
Gli abusi di lavoratori domestici succedono ovunque nel mondo, ma – e questa è una mia impressione, non il risultato di una ricerca – mi sembra che gli abusi siano maggiori nei contesti in cui i diritti delle donne sono meno riconosciuti in generale. Dobbiamo anche ricordare che in ambito domestico è spesso la datrice di lavoro donna a perpetrare violenza fisica contro le lavoratrici. Il modo in cui viene organizzato il lavoro di cura e domestico nelle case private è un’indicazione che ci permette di leggere le divisioni tra donne secondo molteplici assi. Le padrone di casa spesso agiscono violenze fisiche e psicologiche brutali nei confronti delle donne impiegate nelle loro case. Anche la datrice di lavoro più empatica e la migliore delle lavoratrici avranno un’alleanza a dir poco ambivalente nell’ambito di una relazione che richiede subordinazione e riproduce in scala domestica e in maniera grottesca le disuguaglianze globali, senza contare le differenze di interessi e di punti di vista nella vita di tutti giorni. Eppure queste alleanze ambivalenti, che sono molteplici, sono un segnale di come la relazione sia più complessa di quanto non lo sia il conflitto, una donna che si può permettere di lavorare fuori casa a spesa di un’altra che lavora dentro casa sua. E le stesse lavoratrici domestiche molto spesso pagano qualcuno nel proprio paese di origine che si prenda cura dei suoi parenti. Quando si ritrae la relazione tra donne, il potere strutturante della famiglia patriarcale spesso viene tagliato fuori dalla fotografia. Nominare l’importanza delle differenze tra datrice di lavoro e lavoratrice non dovrebbe mettere in ombra l’utilità delle connessioni tra lavoro domestico pagato e non pagato, tra la svalutazione sociale e la creazione ed estrazione di valore economico.
Molte sono le connessioni tra i paesi, i tipi di lavoro di cura e i diversi attori che concorrono a fornire servizi di cura. Queste connessioni a volte possono essere problematiche: per esempio è difficile dire quale influenza abbia sulle politiche che regolano immigrazione e lavoro domestico e di cura il fatto che i politici impieghino lavoro di cura migrante. In altri settori, a coloro che hanno interessi personali potrebbe venir chiesto di non esprimersi politicamente su questioni che li riguardano da vicino, in questo settore il conflitto di interessi è così diffuso che non solo non è immaginabile che venga nominato pubblicamente ma non viene proprio riconosciuto. Questo conflitto non riguarda solo i politici ma anche i sindacalisti, gli accademici e gli attivisti che tacciono la propria posizione di datori di lavoro domestico.
In conclusione
Parliamo di lavoro domestico come di un’eccezione perché non rientra nel modello in cui è organizzato il lavoro salariato, invece di eccezionale non ha nulla: è un lavoro che è sempre stato fatto. Piuttosto è sorprendente il fatto che il lavoro di cura sia così difficile da regolamentare. Il lavoro domestico e di cura è un accordo privato di secondo ordine, ma è la premessa del lavoro salariato. A mano a mano che il lavoro salariato è stato regolamentato e il percettore di reddito costituito come soggetto normalizzato, abbiamo dimenticato la centralità delle relazioni di cura. In conclusione, voglio rimarcare che non dobbiamo accettare acriticamente le relazioni di riproduzione sociale ma nemmeno dire che i valori della famiglia vengono prima del mercato. Importante è invece mettere in luce che non è solo il lavoro domestico a essere marginalizzato, ma il lavoro femminile non retribuito, i disoccupati e altre figure spettrali che si aggirano fuori dal dominio dell’economia politica convenzionale.
3/12/2015 www.ingenere.it
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