Omicidi, stupri e la narrazione tossica della violenza

I fatti sconvolgenti che si stanno susseguendo in questi giorni mi hanno portato a riflettere sulla violenza delle nostre società, e su quanto il maschilismo abbia un ruolo determinante in certe dinamiche. Ma a questo ci arriverò dopo.

Anzitutto và detto che ciò che accomuna i recenti fatti di cronaca è la speculazione sui corpi delle vittime che ogni volta diventa funzionale al proprio orientamento politico di riferimento, ed è questo a mio avviso il grande abbaglio che ci impedisce di trovare una via d’uscita ai problemi che affliggono la nostra società.

Che si parli di vittima o di carnefice, ogni volta che succede un fatto grave parte la ricerca spasmodica di dettagli che possano servire, non a chiarire le dinamiche del fatto, bensì ad affondare meglio l’avversario politico. Che si parli di stupro, di omicidio o di aggressione, si crea subito un recinto identitario dove poter vivisezionare i protagonisti dividendoli in base a due categorie di appartenenza: l’autoctono e lo straniero.

Caso 1: vittima autoctona carnefice straniero

Slogan: prima gli italiani, basta con l’immigrazione incontrollata.

Anche se il carnefice fosse nato in Italia si indagherà fino alla settima generazione per vedere se sia possibile apparentarlo a qualche etnia o minoranza, altro che ius soli. Si prediligeranno termini quali clandestino e immigrato per evidenziare una disparità culturale, sottolineando che lo straniero ha indole delinquenziale; partiranno le critiche verso le Ong e si parlerà di invasione e di una mancata integrazione culturale. Prime seconde e quattordicesime generazioni verranno buttate tutte assieme nello stesso pentolone. La sinistra e i suoi seguaci (o se preferite gli anti-razzisti) riporteranno la notizia molto superficialmente o ignorandola del tutto, scansionando gli unici tre commenti negativi e zittendo l’avversario con un lapidario: torna nelle fogne fascista.

Caso 2: vittima straniera e carnefice autoctono

Slogan: italiani brava gente, siamo un popolo di xenofobi razzisti, meritiamo l’estinzione.

Di nuovo, anche se la vittima è italiana, si scaverà fino alla settima generazione sottolineando le origini per poter sfruttare al massimo la matrice razzista del delitto, di nuovo addio ius soli. L’autoctonia del carnefice verrà rimarcata, l’italiano diventerà “italianissimo” e offrirà il pretesto alla narrazione degli opposti: gli italiani sono peggio degli immigrati, il vero nemico è in casa nostra. Si farà l’elenco di ogni caso simile per rimarcare il concetto e ponendoci ogni volta di fronte a una crisi di identità. Saranno la destra e i suoi proseliti stavolta a starsene in disparte sottovalutando il fatto e pregando che venga dimenticato al più presto.

Ciò che accomuna queste due tifoserie apparentemente lontanissime l’una dall’altra è appunto la strumentalizzazione dei protagonisti da usare come pedine inanimate sullo scacchiere dei propri ideali e la malcelata sensazione di trionfo che si evince dai commenti nello scoprire che il carnefice ha esattamente il colore di pelle che ci aspettavamo (tra l’altro dispiace che entrambi, attraverso questa divisione per colore, non facciano che rafforzare la questione razziale).

Allora ogni indizio viene sezionato e qualunque tassello diventa utile a rafforzare la propria teoria: man mano che la ricostruzione prosegue i morti diventano eroi senza macchia, come se la morte di un povero o di una povera disgraziata fossero meno gravi. Intanto gli avversari passeranno al setaccio ogni notizia precedente dove le parti erano invertite, usando un altro morto non certo per sensibilità d’animo ma per poter ribaltare la narrazione.

Al contempo gli assassini vengono dipinti come qualcuno il più possibile distante da noi e dalle nostre idee: per la sinistra chi commette qualunque abuso è e sarà sempre un nazi-fascista, per la destra un drogato evaso dai centri sociali. L’abusato termine “analfabeta funzionale” viene usato indiscriminatamente da entrambe le tifoserie e l’identikit del cattivo, oltre alla nostra tesi servirà a confermare la nostra catena di pregiudizi generando la guerra dei social. Un’isteria collettiva fatta di screenshot, shitstorm e altre anglofonie che dietro alla solidarietà nascondono in realtà un intento vendicativo verso l’altro.

Benvenuti nel grande circo della strumentalizzazione mediatica, dove sono gli influencers con più like a decidere chi voterete nell’urna.

Una volta stabilito che questa eterna statistica che contrappone stranieri e non ci pone di fronte ad un problema inesistente e che a chi subisce aggressione non importa un fico di conoscere l’etnia del suo aggressore, dovremmo domandarci quale sia il grande problema che affligge l’umanità intera da millenni e che è la matrice della maggior parte dei crimini verso la persona.

Ebbene, si chiama violenza maschile, lo so, suona brutto, ma è così.

Se anche solo ci soffermassimo ad analizzare gli ultimi casi di cronaca, dovremmo ammettere che il 98% dei delitti viene consumato da maschi.

Il terribile caso di Caivano ci ha mostrato un maschio, che è il prodotto di un’educazione famigliare e sociale sessista e chiusa, che si crede guardiano e tutore di sua sorella e della sua sessualità.

L’efferato crimine di Colleferro ha posto sotto ai riflettori un modo tossico di intendere e vivere la virilità maschile, intesa come sopraffazione violenta, nella quale la debolezza fisica, e in taluni casi le origini etniche, rappresentano disvalori.

In entrambi i casi è lo stesso tipo di sopraffazione che si usa negli stupri, dove le donne vengono immobilizzate, picchiate, abusate, umiliate, dominate. Per non parlare dei femminicidi che sono ormai quasi all’ordine del giorno e che dovrebbero entrare urgentemente nell’agenda quotidiana dei progetti politici.

Leggo ogni giorno – non solo qui, anche sulla stampa estera perchè è una realtà globale – di casi di pedofilia, di femminicidi, di stupri, risse, di incidenti provocati, di attentati, di episodi nei quali perdono la vita anche uomini…e in nessuno di questi casi gli assassini sono donne. Allora mi chiedo perché dobbiamo essere sempre e solo noi a dirlo impostando la questione in questi termini, senza sorbirci la solita accusa di generalizzare.

Perchè non istituire un tavolo di confronto tra attiviste e giornalisti, intellettuali, influencer, medici, psicologi, politici, cronisti, editorialisti, attori, imprenditori, camionisti e fruttivendoli che affrontino una volta per tutte e senza sminuirla la questione della mascolinità tossica ?

Ha ragione il filosofo Lorenzo Gasparrini quando afferma che il sessismo inizia dal linguaggio: è esattamente un linguaggio volgare, rancoroso e schierato quello che leggo ogni giorno sui social, e il linguaggio sessista ha fatto da apripista a tutti gli altri sottogeneri scatenando una sorta di tribalismo che ci fa perdere lucidità di pensiero e che dovremmo superare se non vogliamo fare la fine dei clan che si ammazzano a vicenda.

Quando sdoganiamo un linguaggio o un comportamento sessista stiamo favorendo una discriminazione. E la discriminazione può avere tante altre facce, come l’omofobia, l’abilismo, il razzismo, tutte collegate tra loro, ecco perché mi sono convinta che contrastando il sessismo miglioreremmo le nostre società.

Sappiamo bene di poter contare su uomini integri, onesti, ma non è questo il punto: se vogliamo progredire dobbiamo ammettere che il problema è un certo tipo di maschio. E’ quello il filo conduttore che ruota attorno alla quasi totalità della violenza che ci circonda.

Sono maschi quelli che impediscono ad una donna di passeggiare la sera indisturbata, e sono maschi quelli che fanno le risse fuori dai locali o che si masturbano sui treni. Erano maschi quelli che hanno stuprato le povere turiste inglesi in vacanza ed era un giovane maschio quello che si è introdotto in casa di un’anziana di quasi 90 anni stuprandola. Sono maschi quelli in divisa che sparano a sangue freddo, che soffocano, che usano la loro potenza fisica per sopraffare, che insultano e picchiano i trans e gli omosessuali, che sparano per strada a “uno a caso”. Sono maschi quelli che hanno fatto fiorire la prostituzione e l’industria pornografica. Sono maschi la maggior parte degli estremisti religiosi e degli attentatori. Sono maschi i pedofili. E sono sempre maschi quelli che tengono le mogli chiuse in casa, che le isolano in una baracca quando hanno le mestruazioni,  che non le concedono di guidare senza la loro supervisione, che fanno sposare le figlie da piccole o che le tagliano la testa nel sonno e potrei continuare fino a domani. E sono gli stessi che all’occorrenza si barricano dietro a quelle leggi che guarda caso sono state scritte dai maschi.

Non serve ripetere ogni volta che non tutti gli uomini sono così, e che qua e là ci sono e ci son state donne malvagie e violente, litigiose e competitive: lo sappiamo. Ma finchè non diventerà una battaglia condivisa, una priorità sociale, finchè non si farà luce sull’origine della violenza, non vedo alternative.

Chi muore eroicamente per difendere qualcuno, chi salva una donna dalla violenza, chi difende la compagna di classe sul pullman, sono questi i giovani che vanno lodati e tutelati, e li tuteleremo davvero quando molti più maschi ripeteranno  ai loro figli, fratelli, amici e colleghi nelle palestre, nei bar, nei circoli e nei luoghi di lavoro che i veri uomini non sono quelli che prevaricano con la forza.

Credo dovrebbero essere proprio i maschi a lavorare per attivare nei loro simili un cambiamento di mentalità, per riscoprire una sessualità sana, per valorizzare una virilità che non sia stereotipata e tossica e una forza fisica che serva a proteggere e non a sopraffare. Perchè oltre a condannare e punire, è davvero arrivato il momento di prevenire.

Forse quel giorno il nostro mondo non girerà più alla rovescia.

(di Agatha Orrico)

15/9/2020 https://www.paginatre.it

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