Operai ieri e oggi

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Tutto ha inizio quando Il Tribunale del Lavoro di Firenze revoca i licenziamenti collettivi intimati dalla Gkn di Campi Bisenzio a tutti i propri 422 dipendenti, semplicemente attraverso una e-mail: una riedizione dell’ottocentesco licenziamento ad nutum (letteralmente: “al cenno”).
Roba ordinaria, in questi tempi di revanscismo padronale.
Ma questa volta la novità c’è, ed ha una forte valenza simbolica, perché viene riesumato e applicato dai giudici quell’articolo 28 della legge 300/70, lo “Statuto dei diritti dei lavoratori”, divenuto un fondamentale caposaldo del giuslavorismo moderno, esito di una straordinaria stagione di lotte operaie, ma da tempo manipolato e accantonato come espressione di un’era conflittuale tramontata e da archiviare.

Sta di fatto che il comportamento della multinazionale controllata dal fondo britannico Melrose (che produce componentistica per auto) viene condannato come antisindacale. Il giudice ritiene che esso “si configura come un’evidente violazione dei diritti del sindacato, messo davanti al fatto compiuto e privato della facoltà di intervenire sull’iter di formazione della decisione” dei vertici della multinazionale di lasciare a casa i dipendenti. In altri termini, comunicando i licenziamenti collettivi attraverso una e-mail, la Gkn è venuta meno al “democratico e costruttivo confronto che dovrebbe caratterizzare le posizioni delle parti”.
I lavoratori della Gkn non sono disposti a soccombere. E lo dicono subito. La battaglia, sebbene impari, perché diseguali sono le forze in campo, ha inizio. E porterà lontano.

Un tuffo nel passato

All’inizio degli anni ottanta, nel corso di un convegno sindacale al quale era stato invitato, il giudice Giovanni Palombarini, fra i fondatori di Magistratura Democratica, volle insistere sul fatto che forse noi non avevamo sino in fondo la percezione di cosa avesse significato, dalla fine degli anni sessanta in avanti, l’irruzione sulla scena sociale e politica di un giovane e combattivo movimento operaio; un movimento che aveva scosso, sin nelle fondamenta, non soltanto rapporti sociali solidamente dominati dall’autoritarismo padronale, ma anche le convinzioni, la forma mentis, di una nuova generazione di magistrati che aveva cominciato a rileggere la Costituzione con le lenti dello Statuto dei lavoratori. Fu così che i lavoratori e il sindacato cominciarono a vincere anche in quelle aule dei tribunali che prima li vedevano sistematicamente soccombenti. La partecipazione di massa e la fantasia operaia superarono, in quello che fu poi denominato il secondo biennio rosso, la stessa forma di rappresentanza formalizzata nello Statuto dei lavoratori per inventare, con i Consigli di fabbrica, un inedito modello di democrazia diretta che avrebbe trasformato per lungo tempo, attraverso l’elezione dei delegati di reparto e di gruppo omogeneo, la stessa natura, il modo di funzionamento e le prerogative contrattuali del sindacato.
Si aprì una fase di soggettivazione operaia che redistribuì le carte a tutta la politica, influenzando in modo potente e per quasi un decennio la cultura, il lavoro intellettuale e la stessa produzione legislativa del parlamento.
Da quel tempo paiono trascorsi vari anni-luce.

Passato e presente: L’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci

Tutte le volte che la classe operaia entra in campo direttamente, il pensiero va alla grande stagione del ‘19 e ‘20, all’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci, all’epopea consiliare quando, per la prima volta nella storia d’Italia e quale che fosse stata l’origine occasionale dello scontro, si pose niente meno che la questione del potere, non in una fabbrica sola, ma nel paese: la classe operaia poneva se stessa, consapevolmente, come soggetto immediato di politica, come “classe generale”, capace di riscattare se stessa e, contemporaneamente, di liberare tutta la società dal dominio del capitale, capace di pensare e costruire un nuovo di tipo di Stato, un nuovo mondo.
L’Ordine nuovo – scrisse Gramsci traendo un bilancio di quella straordinaria stagione – divenne per noi e per quanti ci seguivano ‘il giornale dei consigli di fabbrica’. Gli operai amarono L’Ordine nuovo. E perché gli operai amarono l’Ordine nuovo? Perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli de L’Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore; “Come possiamo diventare liberi? Come possiamo diventare noi stessi?”
Perché gli articoli de L’Ordine nuovo non erano fredde architetture intellettualistiche, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali della classe operaia torinese, che erano state da noi saggiate e provocate; perché gli articoli de l’Ordine nuovo erano quasi un “prendere atto” di avvenimenti reali, visti come un processo di intima liberazione ed espressione di se stessa da parte della classe operaia. Ecco perché gli operai amarono L’Ordine nuovo ed ecco come si formò l’idea de L’Ordine nuovo”. (1)

La distanza fra questa concezione del rapporto fra classe operaia e intellettuali non poteva essere più lontana dalla natura del partito socialista, incapace di porsi come elemento unificatore, come momento di sintesi politica e come forza capace di generalizzare quell’esperienza. Per questo né il partito socialista, né i sindacati, seppero, tantomeno vollero guidare quella lotta straordinaria verso un esito rivoluzionario.
Con questo affresco sintetico Gramsci descriveva la drammatica situazione che la classe operaia aveva di fronte: “In verità, il partito socialista italiano, per le sue tradizioni, per l’origine storica delle varie correnti che lo costituirono, per il patto di alleanza con la Confederazione del lavoro, non differisce per nulla dal labour party inglese ed è rivoluzionario solo per le affermazioni generali del suo programma. Esso è un conglomerato di partiti. Si muove, e non può non muoversi, pigramente e tardamente; è esposto continuamente a divenire il facile paese di conquista di avventurieri, di carrieristi, di ambiziosi. Per la sua eterogeneità, per gli attriti innumerevoli dei suoi ingranaggi, non è mai in grado di assumersi il peso e la responsabilità delle iniziative e delle azioni rivoluzionarie che gli avvenimenti incalzanti incessantemente gli impongono. Ciò spiega il paradosso storico per cui in Italia sono le masse che spingono ed educano il partito della classe operaia e non è il partito che guida ed educa le masse. (…) In verità questo partito socialista, che si proclama guida e maestro delle masse, altro non è che un povero notaio che registra le operazioni compiute spontaneamente dalle masse. Questo povero partito socialista altro non è che gli “impedimenta” dell’esercito proletario”. (2)

Torniamo alla Gkn

La mobilitazione dei lavoratori della Gkn incassa dunque un primo, peraltro provvisorio successo. Ma non si ferma. Neppure dopo l’acquisizione integrale delle quote societarie da parte dell’imprenditore Francesco Borgomeo, che pare prefigurare la possibilità di difendere i posti di lavoro. Occorre passare all’offensiva. Serve una legge vera contro le delocalizzazioni, qualcosa di profondamente diverso dal pastrocchio indecente in gestazione nelle stanze di un governo sempre corrivo nei confronti di Confindustria. Nasce così la decisione di costruire una proposta, un documento di indirizzo per una
legge davvero efficace, redatto dal gruppo dei giuslavoristi intervenuto il 26 agosto di fronte ai cancelli, poi discusso e approvato dall’assemblea dei lavoratori: un progetto incardinato su un’architettura legislativa che tagli le unghie alla protervia del capitale che tratta i lavoratori come carne da macello, un disegno ispirato al recupero della parte più feconda ma totalmente elusa del dettato costituzionale: la centralità del lavoro, che non può essere considerato solo il corrispettivo della retribuzione, ma un elemento costitutivo della personalità umana (articolo 4); i limiti da imporre all’iniziativa privata, quando questa “rechi danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (articolo 41); la possibilità di espropriare un’azienda ove questa non persegua l’utilità sociale, per consegnarla allo Stato o affidarla a comunità di lavoratori o di cittadini (articolo 43).
Perché questo avvenga davvero non può esservi nessuna delega, devono essere gli operai a redigere direttamente quel testo: “Nessuna legge sulle nostre teste, ma una legge che sia scritta con le nostre teste”, perché le imprese non devono potere fare quello che vogliono.

“Ci sono trent’anni di attacchi al mondo del lavoro da cancellare”

Ma c’è dell’altro. Alla proprietà che se ne vuole andare si contrappone l’intelligenza dei produttori, la loro matura capacità di trovare soluzioni razionali là dove il capitale intravvede solo la speculazione e l’opportunistica via della fuga: “Stiamo imparando tante cose in questa lotta. Iniziamo anche a masticare qualcosa di finanza. E quindi, fossimo un azionista Plc Melrose, inizieremmo a pensare che forse i nostri soldi non sono proprio in buone mani e inizieremmo a diversificare il portafoglio. È una semplice opinione, sia chiaro. Noi non siamo azionisti del resto. Siamo gli operai Gkn. E questo è quanto. Noi non giochiamo in Borsa. Facciamo semiassi”.

Riappare il tema, così desueto in un mondo regolato dal dogma liberista del mercato, del “controllo operaio”.
Nel conflitto si fa strada una consapevolezza più grande, che accende una miccia capace di andare lontano.
Prende corpo un’iniziativa “costituente”: “Siamo pronti a presentare il testo di legge, e ad arricchirlo sui cancelli di ogni azienda, a sostenerlo nelle piazze”. Da qui l’idea di un viaggio verso le fabbriche i cui lavoratori e lavoratrici rischiano di essere spazzati via da provvedimenti di delocalizzazione. Ed ecco chiarito l’obiettivo: “Creare rete con le altre lotte operaie e vertenze in atto, come quella di Cemitaly e, in particolare, della Tessitura Mottola che riguarda 115 lavoratori, dal 2004 alle dipendenze di un’impresa che ha deciso, secondo le logiche opportunistiche della delocalizzazione, di chiudere lo stabilimento pugliese, mettendo in liquidazione l’azienda subito dopo il primo decreto pandemico e dopo aver messo in cassa Covid tutti i dipendenti, in questo momento in presidio permanente di fronte alla fabbrica”.

Il tour tocca Bologna, Jesi, Lecce, Bari, Taranto. I contatti si moltiplicano e cresce la dimensione complessiva di un conflitto non più circoscritto alle sole realtà immediatamente coinvolte dalla chiusura degli stabilimenti. Passo dopo passo, la lotta si carica di un significato generale, il cui contenuto di classe si impone con una forza da tempo smarrita: “Ci sono trent’anni di attacchi al mondo del lavoro da cancellare. Per questo insieme a tutti voi, noi #insorgiamo”.
Va formandosi una convinzione: se quanto. Noi non giochiamo in Borsa. Facciamo semiassi
”.

Riappare il tema, così desueto in un mondo regolato dal dogma liberista del mercato, del “controllo operaio”.
Nel conflitto si fa strada una consapevolezza più grande, che accende una miccia capace di andare lontano.
Prende corpo un’iniziativa “costituente”: “Siamo pronti a presentare il testo di legge, e ad arricchirlo sui cancelli di ogni azienda, a sostenerlo nelle piazze”. Da qui l’idea di un viaggio verso le fabbriche i cui lavoratori e lavoratrici rischiano di essere spazzati via da provvedimenti di delocalizzazione. Ed ecco chiarito l’obiettivo: “Creare rete con le altre lotte operaie e vertenze in atto, come quella di Cemitaly e, in particolare, della Tessitura Mottola che riguarda 115 lavoratori, dal 2004 alle dipendenze di un’impresa che ha deciso, secondo le logiche opportunistiche della delocalizzazione, di chiudere lo stabilimento pugliese, mettendo in liquidazione l’azienda subito dopo il primo decreto pandemico e dopo aver messo in cassa Covid tutti i dipendenti, in questo momento in presidio permanente di fronte alla fabbrica”.

Il tour tocca Bologna, Jesi, Lecce, Bari, Taranto. I contatti si moltiplicano e cresce la dimensione complessiva di un conflitto non più circoscritto alle sole realtà immediatamente coinvolte dalla chiusura degli stabilimenti. Passo dopo passo, la lotta si carica di un significato generale, il cui contenuto di classe si impone con una forza da tempo smarrita: “Ci sono trent’anni di attacchi al mondo del lavoro da cancellare. Per questo insieme a tutti voi, noi #insorgiamo”.
Va formandosi una convinzione: se generale è lo scontro, alla stessa altezza deve porsi la risposta
L’appuntamento è fissato: tutti e tutte a Firenze, il 26 marzo.

Contare sulle proprie forze

In una fase storica in cui la precarizzazione di massa e l’annichilimento dei lavoratori ha toccato vertici che ricordano fasi dell’accumulazione originaria, correrò il rischio di evocare un’immagine che, ne sono certo, a qualcuno apparirà niente più che un’iperbole retorica: l’immagine è quella della prima grande lotta di classe in Italia, la rivolta degli schiavi scoppiata a Capua intorno al 70 a.C. in una delle prime scuole gladiatorie costituite in Italia, dove un pugno di uomini in catene si rifiutò di combattere nell’arena per il diletto dei propri padroni e si ribellò, raccogliendo lungo l’Italia decine di migliaia di uomini e donne decisi a combattere e a farla finita con una condizione di totale deprivazione. Quell’insurrezione, guidata da Spartaco – un ufficiale tracio reo di diserzione e posto in schiavitù – sebbene sconfitta, mise effettivamente in pericolo il controllo romano sull’Italia. E anche dopo la fine della guerra il ricordo di quello scontro campale continuò a condizionare almeno in parte la politica romana negli anni seguenti.
E fu proprio al significato di quella straordinaria rivolta che si ispirarono, duemila anni dopo, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, quando fondarono la “Lega di Spartaco”, propedeutica alla nascita del partito comunista di Germania.
Si sa che anche in quel caso l’epilogo fu tragico.
E tuttavia, c’è una lezione ricorrente che bisognerebbe mandare a memoria: tu puoi subire sconfitte, anche talmente pesanti da indurti a pensare che non vi è più niente da fare. Ma poi, da qualche parte, tutto ricomincia, perché nessuno, per robuste e potenti siano le catene che ti opprimono, è ancora riuscito a mettere le brache al mondo.

Vale la pena di ricordare le parole che proprio Gramsci scriveva in una lettera dal carcere del 1927: “Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna mettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio. Mi sono convinto che bisogna sempre contare solo su se stessi e sulle proprie forze; che non bisogna attendersi nulla da nessuno e quindi non procurarsi delusioni; che occorre proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e andare per la propria via”.
E’ questo, in definitiva, il messaggio fatto proprio dai lavoratori della GKM e rilanciato a tutti i proletari di questo paese.

NOTE

1 “Se è vero che la storia universale è una catena degli sforzi che l’uomo ha fatto per liberarsi e dai privilegi e dai pregiudizi e dalle idolatrie – scriveva Gramsci in un articolo apparso il 29 gennaio del 1916 sul Grido del popolo – non si capisce perché il proletariato, che un altro anello vuol aggiungere a quella catena, non debba sapere come e perché e da chi sia stato preceduto, e quale giovamento possa trarre da questo sapere”.

2 Antonio Gramsci, L’Ordine nuovo, Torino, Einaudi, 1954, p.147

Dino Greco

resp. PRC formazione politica

Editoriale del numero di marzo del mensile Lavoro e Salute

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