Organizzazione dei lavoratori e rappresentanza

lavoro

1.

Alcune iniziative di riflessione sulle esperienze dei consigli di fabbrica nel 1919 e nel 1969, intervenute a Torino nei mesi scorsi (e delle quali pubblicheremo a breve alcuni materiali nella sezione Workingclass*), hanno portato all’attenzione una questione rimossa nel dibattito e nelle proposte attuali sulla rappresentanza dei lavoratori: il venir meno della vita democratica dei loro istituti nei luoghi di lavoro.

A ciò hanno concorso sia processi di trasformazione dell’impresa e di riorganizzazione del lavoro iniziati da più di trent’anni (quando “competitività” significava riduzione dei costi e dei diritti dei lavoratori) sia, se mi è permessa l’ironia, un’adeguata normativa e legislazione “di sostegno”. Conviene ricordarne le prime tappe: la cancellazione dell’indennità di contingenza del 1992, l’accordo sindacale tra la Confindustria e Cgil-Cisl-Uil del 1993 che prevedeva la “riattivazione del mercato del lavoro” introducendo il lavoro interinale, la legge Treu sul mercato del lavoro del 1997 e, poco prima, il passaggio dal sistema pensionistico retributivo (la pensione era in proporzione al salario percepito e agli anni di lavoro svolto) a quello contributivo dove la pensione era in rapporto ai soldi accantonati individualmente (cosiddetta riforma Dini delle pensioni).

L’esito è stato (ed è) evidente: disgregazione dei rapporti di lavoro, frantumazione contrattuale e individualizzazione del rapporto del proprio lavoro come della propria pensione. Il «costo umano della flessibilità» denunciato da Luciano Gallino (Il costo umano della flessibilità, Laterza, 2001) è rimasto totalmente ignorato. Le conseguenze anche: ogni lavoratore per sé senza più possibilità di immaginarsi un futuro, mentre i lavoratori insieme, per dirla utilizzando una categoria di Max Weber, «non ritengono più di avere un destino comune»; il sindacato ripiega sui servizi individuali come modalità di tutela e soprattutto di raccolta delle adesioni dei lavoratori; gli eredi del Pci diventano la più importante formazione neoliberale in Italia, artefici della demolizione di diritti fondamentali dei lavoratori a partire dall’articolo 18 dello Statuto.

Non ci si può stupire che i lavoratori si comportino come merce e cerchino di difendere al meglio il valore e le condizioni di vendita di parte importante del proprio tempo di vita in un mercato competitivo. È già successo: uno dei motivi dello sciopero dei tessitori biellesi del 1877 era, secondo la Commissione parlamentare d’inchiesta sugli scioperi del 1878, «l’ostilità verso l’ammissione indefinita di apprendisti e operai forestieri»: ci volle la costituzione, alcuni anni dopo, delle Camere del lavoro e del Partito socialista per organizzarsi in modo solidale (Vittorio Foa, Per una storia del movimento operaio, reprint Einaudi, pag. 95).

2.

A cent’anni dall’esperienza torinese dei Consigli di fabbrica conviene ricordare il realismo del loro programma quando sottolineavano come il lavoro in un sistema capitalistico è (e continua ad essere) una merce e solo superando questo sistema potrà essere liberato (L’Ordine Nuovo, anno I, n. 25, pagg. 193-195). È pur vero che nel secondo dopoguerra ai lavoratori della parte nord occidentale dell’emisfero vennero riconosciuti diritti, retribuzioni e protezioni sociali che diedero vita a quello che fu chiamato il “compromesso socialdemocratico”, ma ora si sta svolgendo un’altra lotta di classe e si stanno cedendo diritti, redditi e protezioni sociali.

Personalmente non faccio parte di quelli che si illudono che, senza cambiare i rapporti sociali – oggi così sfavorevoli ai lavoratori – e senza ricostruire una critica prima e un rinnovato protagonismo dei lavoratori poi, sia possibile mantenere delle tutele con un’azione dall’alto. Ma questo cambiamento è estremamente difficile quando quotidianamente i lavoratori vedono lese la loro dignità e la loro sicurezza con il ricatto del lavoro incerto e variabile da doversi svolgere in ogni luogo e in ogni tempo (https://www.eurofound.europa.eu/sites/default/files/ef_publication/field_ef_document/ef1658en.pdf). La lotta deve ripartire da qui, ma quali strumenti hanno oggi a disposizione i lavoratori nel nostro Paese? Una rappresentanza elettiva nei luoghi di lavoro che coinvolge una minoranza delle imprese e dei lavoratori; un sindacato, consapevole della sua crisi di rappresentatività, che punta al suo riconoscimento ad opera delle controparti imprenditoriali (e anch’esse non stanno così bene); un partito (!?: stendiamo il velo, ma impietosamente).

La crescita che non c’è ormai da decenni, la crisi climatica che c’è e pesa duramente, l’incremento demografico nel mondo confermano che il lavoro che abbiamo conosciuto noi in Occidente non c’è (e non ci sarà) più. Ma intanto costruiamo muri, portiamo eserciti alle nostre frontiere e, come abbiamo nei resoconti mensili sul lavoro nel mondo presenti nel sito, in tre Paesi a governo nazionalista (Austria, Ungheria e ora Ucraina) si sono adottate leggi per aumentare l’orario di lavoro a parità di salario o quasi.

Va cambiato il modello economico e produttivo e va cambiato il lavoro.

Per il lavoro affiorano, ma vengono subito accantonate, nuove proposte come il diritto all’orario minimo del gruppo di studio della Organizzazione internazionale del lavoro, la proposta delle Trade Unions inglesi dell’orario medio settimanale di 32 ore “per tutti” (anche per chi oggi ne lavora meno), la regola prevista in alcuni accordi sindacali con multinazionali che afferma il diritto a un rapporto di lavoro stabile dove c’è un posto di lavoro stabile, mentre le eccezioni devono fondarsi solo per prestazioni in posti di lavoro effettivamente temporanei. Lo spettro che si aggira per l’Italia è il realismo degli sconfitti e sembra rimanere solo la strada del ripiegamento perdendo così la lezione più importante che ha permesso ai lavoratori di diventare movimento operaio: l’utopia di una società migliore e la tattica dell’azione giorno per giorno.

Al momento dell’unità d’Italia si stima che solo l’uno per cento dell’energia venisse prodotta da fonti diverse da quella animale, fossero questi cavalli o esseri umani; solo dal 1883 inizierà l’impiego di energia elettrica e ora siamo alla crisi climatica: o si affermerà una nuova cultura del lavoro o la paura del futuro e la chiusura corporativa continueranno a spingere i lavoratori verso il nazionalismo.

La tutela dall’alto dei lavoratori non fermerà questo processo, la destra si mostra ai loro occhi più efficace.

3.

Vanno quindi riproposti un senso generale del lavoro che guardi oltre a un efficace rapporto commerciale della merce e una rivitalizzazione dell’azione collettiva. Ma per fare questo va sminato il campo dal ricatto e dal ghetto del consenso passivo e le mine sono molte a partire dai luoghi del lavoro. Per sminare è necessario – non sufficiente ma necessario – partire dalla rappresentanza dei lavoratori che si proponga di affrontare i problemi ponendo al centro il cambiamento delle condizioni concrete oggi così – volutamente – diversificate per ricostruire una nuova unità fondata sull’uguaglianza.

È ancora una volta Umberto Romagnoli (Inchiesta, ottobre-dicembre 2019, La Costituzione venuta dal futuro, pagg. 15-20) a riproporre «la domanda inquietante: è vera democrazia una democrazia a-conflittuale?». È però difficile persino iniziare se non si ha la consapevolezza del rovesciamento avvenuto sul piano della rappresentanza nei luoghi di lavoro che fa della situazione sindacale italiana una realtà molto diversa da quella di tanti altri Paesi europei: in Francia, Germania e Spagna il diritto ad avere propri rappresentanti è un diritto di cittadinanza dei lavoratori; in Italia un diritto dei sindacati ad avere dei loro fiduciari previo accordo con gli imprenditori. Basti confrontare le leggi e le norme contrattuali sui diritti dei lavoratori di Italia, Francia, Germania e Spagna.

Come sappiamo l’articolo 39 della Costituzione («L’organizzazione sindacale è libera. / Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge») è rimasto inapplicato e ancora oggi solo la Cgil ha avanzato una sua proposta di legge al riguardo mentre le parti sociali (Confindustria, Cisl e Uil ma anche la Cgil) chiedono una legislazione di sostegno che al massimo recepisca l’accordo siglato il 10 gennaio 2014 che non a caso hanno chiamato «Testo unico sulla rappresentanza» (unico!). Non è dato che ce ne sia un altro, magari approvato dal Parlamento che da molte legislature ne discute non arrivando mai, e non a caso, a una conclusione.

Il testo unico è nato sotto l’assillo della crescente crisi di rappresentatività delle organizzazioni dei lavoratori ma anche di quelle degli imprenditori espressa dalla fuoriuscita della Fiat/Fca dal contratto nazionale dei metalmeccanici e dalla Confindustria, così come dalle centinaia di contratti collettivi nazionali firmati, soprattutto nel settore terziario, da associazioni padronali e sindacali di comodo. Ne deriva che la rappresentatività delle strutture del sindacato deve venire prima di quella dei lavoratori e la vita associativa e democratica degli istituti di rappresentanza dei lavoratori, le RSU, a questo deve essere improntata. A cinquant’anni dalle esperienze dei consigli di fabbrica e dello Statuto dei lavoratori alcune differenze rendono abbastanza evidente il passaggio da “rappresentanti dei lavoratori” a “fiduciari del sindacato”. Lo stesso voto dei lavoratori ha prima di tutto lo scopo di verificare non la loro rappresentatività (cosa che, ovviamente, avviene, ma non è ritenuta importante) bensì quella delle strutture sindacali esterne ai luoghi di lavoro. Per queste ragioni «il cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un componente della RSU ne determina la decadenza dalla carica e la sostituzione con il primo dei non eletti della lista di originaria appartenenza del sostituito» (articolo 6, terzo comma, della Parte seconda, Sezione seconda del Testo unico). Nelle precedenti esperienze consiliari il rappresentante eletto dei lavoratori poteva essere iscritto o non iscritto al sindacato e, prima ancora, un membro di Commissione Interna che cambiava sindacato o concordava con altri sindacati di presentare una lista unitaria per la commissione interna rimaneva in carica.

Conviene qui richiamare per un attimo la seconda modalità di verifica della rappresentatività delle strutture sindacali esterne ai luoghi di lavoro: il conteggio degli iscritti a ciascuna associazione viene fatto dal datore di lavoro sulla base delle deleghe per la trattenuta sindacale e inviato all’Inps tramite il modulo Uniemens (quello dei contributi per le prestazioni previdenziali), ma i dati sono segreti e i lavoratori e i loro rappresentanti in azienda ufficialmente non li conoscono. Così pure l’Inps non li rende pubblici.

Ancora, per lo Statuto dei diritti dei lavoratori è prerogativa delle rappresentanze sindacali aziendali convocare le «riunioni dei lavoratori», in gergo le assemblee. Con il nuovo accordo interconfederale tre delle dieci ore retribuite di assemblea vengono gestite dalle organizzazioni di categoria dei sindacati firmatari Cgil, Cisl e Uil. Si potrebbe dire che sono solo tre ore su dieci ma, nei fatti, quello che è avvenuto è che si è spostata al di fuori del luogo di lavoro la sede in cui si decidono i temi e le modalità di svolgimento delle assemblee, ora quasi sempre appannaggio delle segreterie dei sindacati.

Lo stesso trasferimento di prerogative è avvenuto per la tradizionale modalità di informazione rivolta ai lavoratori: il diritto di affissione. Il testo unico prevede infatti che «Sono fatti salvi in favore delle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie il CCNL applicato nell’unità produttiva, i seguenti diritti: […] c) diritto di affissione di cui all’art. 25 della legge n. 300/1970». Sin dall’accordo interconfederale del 1947 questa funzione era sempre stata attribuita ai rappresentanti eletti dai lavoratori, nel 1947 per i «comunicati inerenti ai loro compiti» (e tra questi compiti era previsto l’essere l’organo “di collegamento” fra il sindacato e i dipendenti dell’impresa) mentre l’articolo 25 dello Statuto prevede che «le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di affiggere, su appositi spazi, […] pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro». Oggi ci si potrebbe avvalere di bacheche digitali che potrebbero benissimo contenere quello che prevede lo Statuto ma con ogni probabilità sarebbero dei links a siti e blogs dei sindacati.

Abbiamo una democrazia sindacale sotto sorveglianza in funzione della pace sociale. Poi se la destra avanza è colpa dei lavoratori…

* Nella sezione Workingclass continueremo a pubblicare ulteriori sulla rappresentanza e su altri temi come l’uguaglianza tra lavoratori, il diritto allo studio, la riduzione dell’orario di lavoro, offrendo una documentazione sulla storia e sull’attualità.

Fulvio Perini

13/3/2020

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