Ousmane, il pastore delle stelle
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Gioca con la fanghiglia e le scarpe, creando una piccola pressione si crea un vuoto d’aria e i piedi rimangono leggermente incollati al terreno. Sorride, è un gioco infantile, lo faceva da piccolo quando era con suo nonno. Si è fermato per riposarsi e far brucare il gregge nell’appezzamento dove gli è stato detto di andare. A est le cime innevate, più giù, a ovest la faggeta che ha superato da poco, subito dopo, dei fiori che ammira spesso quando sale su, ma di cui non conosce il nome. Non sono i soliti cardi, “Le Panelle della Madonna” le chiamano da queste parti.
Che strano. Sembra esserci un principio immutabile nei destini, suo nonno e tutta la sua etnia hanno sempre vissuto di pastorizia e commercio di animali, lui si era sempre immaginato nei campi di calcio o in qualche altra professione redditizia, una di quelle dei film, della televisione intravista insieme agli altri bambini in qualche bottega. Invece, nonostante la traversata, qualche sputo e mese rinchiuso in un edificio dal nome impronunciabile, si è ritrovato a badare agli animali e a camminare in questa quotidiana migrazione.
Le poche parole di italiano apprese sono servite per dire di si ad un signore che non aveva mai visto prima. Dal “centro” al campo, con la possibilità di alloggiare in un container. Un braciere, una coperta, una brandina, un tavolo incrostato, un piccolo lavabo, una tinozza, qualche utensile da cucina, posate, bicchiere, un calendario di una qualche azienda mangimistica, poi, dietro a una tenda un rubinetto e una doccia fatta con un tubo malmesso e un buco a terra.
Questo era il suo spazio, di riposo, riflessione, immaginazione, di riproduzione materiale. Una porta per entrare e uscire e una piccola finestra da cui intravedere le stelle nelle notti fredde, quando non è possibile farlo all’aperto.
Contemplava le stelle a volte, le immaginava capi lucenti da governare, portare al pascolo tra le altitudini, le colline e i campi, sui tratturi del cielo. Ogni complesso, ogni punto luminoso, hanno un nome di quelli imparati da bambino. Ricorda quando gli insegnavano a dare un nome a tutto, un incrocio di religiosità, sincretismi tra la cultura pastorale e nomade e quella monoteista della terra, tra gli abitanti secolari e i colonizzatori. Staticità e dinamicità, andare e venire, mettere le mani sulla terra e attraversarla semplicemente.
Modi di contare il tempo e disegnarlo, una linea, una spirale, cerchi concentrici.
Contrasti, incontri, esodi. La storia dell’uomo che ancora non scopre le leggi della “macchina mondiale”, quelle leggi che conservano la pace e l’amicizia tra i popoli.
Non ha molte possibilità di imparare questa lingua nuova e sconosciuta, di
esprimersi e comunicare a qualcuno ciò che immagina, come sta e come vive in quel container. Come ci passa le notti quando deve alloggiarci, lì, lontano dal “centro”. Solo attraverso il suo cellulare che spesso tiene in mano, riesce a dire qualcosa di sporadico alla famiglia o a qualche amico che vive in Europa.
Le sue giornate sono silenziose, pronuncia per lo più qualche parola alle
pecore, ai cani, ma non sappiamo quali. Si sveglia presto, esegue i compiti della sua mansione: munge, pulisce, controlla paglia, fieno, mangime, si assicura che tutti i capi mangino, che stiano bene e poi, cammina quando c’è da farlo, quando il tempo è clemente, quando è il tempo di andare, e conosce ormai i passaggi, i torrenti, le piante e la velocità con cui muta il clima da queste parti, le leggi della valle. Forse assegna un nome nella sua lingua ad ogni punto geografico fissato dai suoi occhi color della terra: una nuova mappatura, un altro ordine. Ma non li ha raccontati a nessuno, sono i suoi punti di riferimento, ciò che gli occorre per orientarsi.
Le giornate si ripetono, ogni alba e ogni tramonto fissano il tempo. Sono diversi ogni giorno, ma si ripetono e ad ogni ciclo non sappiamo cosa immagini. Accettare questa vita o pensarsi altrove, diversamente? Il dubbio tra desiderio e bisogno, quando vengono messi in contrasto dall’imminenza delle materialità.
Dal paese a qui, qualche volta incrocia qualcuno che accenna un gesto di saluto, ma pochi avranno scambiato una parola con lui da quando è qui. Un soldato ignoto della guerra dei prezzi del latte, delle dinamiche del libero mercato, delle importazioni dall’estero che schiacciano il lavoro dei pastori, dei pochi rimasti, degli industriali della trasformazione, dei marchi, dei bollini, delle mafie dei pascoli e dei fondi delle politiche agricole comunitarie.
È un soldato di una guerra non sua, con qualche panno addosso e un container per rifugio. È raro che a qualcuno sorga la domanda: ma come vivono i pastori, i custodi degli animali, negli allevamenti? Quanto guadagnano? Che stato di salute hanno? Quali storie si portano dietro?
Una notte di novembre, di freddo, ha acceso il braciere per addormentarsi e guardando le scintille del fuoco ha immaginato le stelle da portare al pascolo, lontano, talmente lontano da non essere più tornato indietro.
Il monossido di carbonio ha saturato l’aria dell’alloggio e senza poter salutare nessuno, Kourouma Ousmane, a 23 anni è andato via, con le sue mappe, i suoi sogni e i nomi dei suoi nonni pastori tra le labbra.
Renato Turturro
Tecnico della prevenzione
Articolo pubblicato sul numero di ottobre del mensile Lavoro e Salute
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