Paghe da fame a chi produce i nostri vestiti
Per noi abituati al tenore di vita dei Paesi ricchi e ai diritti conquistati con oltre un secolo di battaglie sindacali è difficile immaginare che vi siano lavoratori che lavorano 80 ore settimanali, per paghe di 25 euro al mese, in ambienti malsani e insicuri [1]. Eppure in tale situazione si trovano milioni di lavoratori. E la stragrande maggioranza di loro è sfruttata in tal modo per consentire agli azionisti delle aziende di fare alti profitti e a noi, cittadini dei Paesi ricchi, di avere merci a basso prezzo. Merci che pensiamo valgano poco (visto il prezzo) e che sprechiamo, usiamo solo poche volte, trasformandole presto in rifiuti. Tutto ciò avviene senza alcuna cattiveria di noi cittadini “dell’Occidente”, anzi spesso nell’assoluta inconsapevolezza.
Quanti sanno che lo stipendio medio mensile di un operaio di una fabbrica tessile etiope è di 24 euro al mese? Che il costo della manodopera di una t-shirt è pari allo 0,5-1% del prezzo finale? Che i datori di lavoro spesso impongono obiettivi di produzione giornalieri del tutto irrealistici per cui, per non rischiare di essere licenziati, i lavoratori sono costretti a ritmi massacranti o a lavorare gratis oltre l’orario di lavoro [1]? Che il lavoro minorile è diffusissimo (152 milioni di lavoratori con meno di 15 anni di età [2])? Che l’80% della manodopera del settore tessile è formata da donne [1]? Che bambini e donne sono preferiti perché più facilmente soggiogabili e meno capaci di lottare per i propri diritti?
Nel 2013 in Bangladesh crollò un edificio di 8 piani, il Rana Plaza. Era stato costruito per essere un centro commerciale, ma imprenditori senza scrupoli avevano trasformato i 6 piani più alti in fabbriche tessili dove lavoravano circa 5000 persone. Il peso dei macchinari e di tante persone, unito agli abusi edilizi praticati, causò crepe nell’edificio, tanto che gli ispettori, il giorno prima del crollo, ne avevano chiesto l’evacuazione e la chiusura. I negozi dei primi due piani furono immediatamente chiusi, ma le fabbriche rimasero aperte e i loro manager minacciarono di trattenere un mese di stipendio a chi non si fosse presentato al lavoro. Il giorno dopo l’edificio crollò uccidendo 1138 persone e ferendo gravemente altre 2500. Poi si scoprì che in quelle fabbriche si producevano capi di vestiario, borse e altri prodotti tessili per Benetton, Inditex (cioè Zara, Bershka, Pull and Bear ecc.), Sons and Daughters (cioè Kids for Fashion), H&M, Manifattura Corona, YesZee, Auchan, Carrefour, El Corte Inglés, Grabalok, Mascot, NKD, Primark, Walmart ecc. [3]
In seguito a tale tragedia e alla presa di coscienza di una parte dei consumatori si è costituito un cartello di sindacati, ONG e associazioni (in totale 234) che ha lanciato la campagna “Abiti Puliti” (Clean Clothes Campaign) che chiede:
1) trasparenza: ogni multinazionale deve dire a quali aziende ha appaltato la produzione dei propri prodotti, da dove arrivano le materie prime e come avviene la produzione;
2) salari che possano consentire di soddisfare i bisogni essenziali (cibo, vestiario, casa, sicurezza ecc.);
3) rispetto dei diritti dei lavoratori: libertà di organizzare o iscriversi a sindacati, sicurezza sul lavoro, ecc.;
4) accordi e regole vincolanti che impegnino le imprese a rispettare norme e convenzioni internazionali e a valutare, prevenire, monitorare e rimediare gli impatti negativi sui diritti umani delle proprie attività.
A oggi, dopo quasi 10 anni dal lancio della campagna, ancora nessuna grande azienda soddisfa tutte queste richieste, nessuna ha portato prove certe che i lavoratori della propria filiera abbiano un giusto salario, il 63% non ha fornito informazioni sulle fabbriche e i laboratori di primo livello delle loro filiere. Lo dimostra l’ultima indagine effettuata inviando un questionario a 108 grandi aziende dell’abbigliamento, tra cui le italiane Benetton, Calzedonia, Gucci, OVS, Salew, Geox, Prenatal, Falc (queste ultime 3 aziende non si sono degnate nemmeno di rispondere al questionario) e intervistando un campione di lavoratori in fabbriche di vari Paesi (Cina, India, Indonesia, Croazia, ecc.) [1].
Ma qualche passo avanti è stato fatto: all’inizio della campagna solo il 12% delle grandi aziende della moda aveva dichiarato quali erano i fornitori di primo livello, ora sono il 37%; iniziano a farsi strada piccole aziende che producono capi d’abbigliamento e accessori nel rispetto dei lavoratori e dell’ambiente; aumentano sempre più i consumatori che sono disposti a pagare di più pur di non essere complici dello sfruttamento di bambini, donne, uomini o dell’inquinamento; alcuni Stati (per esempio il Regno Unito e la California) hanno varato leggi che impongono alle aziende di rendere pubbliche le informazioni sulle loro filiere.
La filiera del tessile è anche una di quelle a grande impatto ambientale: deforestazione, inquinamento da pesticidi (la coltivazione di cotone copre solo il 2,4% dell’agricoltura globale, ma usa l’11% dei pesticidi prodotti ogni anno nel mondo), alto consumo d’acqua (per fare una singola t-shirt occorrono 2.700 litri d’acqua), inquinamento dell’aria, emissione di gas serra, inquinamento da microplastiche (un terzo delle microplastiche presenti nell’ambiente origina da capi d’abbigliamento), inquinamento chimico e termico di fiumi e laghi, uso di petrolio ecc. [4].
Che fare allora? Come smettere di essere complici di tanti disastri, contrastare tutto ciò e promuovere una filiera dell’abbigliamento più rispettosa delle persone e dell’ambiente?
1) appoggiare le azioni di sindacati, ONG e associazioni che si battono per tutto ciò. La campagna Abiti Puliti organizza spesso petizioni, campagne di pressione su determinate aziende, boicottaggi di alcune aziende o prodotti [1];
2) far prendere consapevolezza di questo problema a quante più persone, fornire informazioni, dati, storie;
3) non comprare prodotti di aziende che non comunicano dati sui loro fornitori o che hanno un indice di trasparenza basso o un basso punteggio etico. Se vuoi sapere quali sono basta andare sulla piattaforma Fashion Checker [5];
4) comprare prodotti che garantiscono il rispetto dei diritti dei lavoratori e cercano di ridurre l’impatto ambientale. Esistono certificazioni di rispetto dei diritti dei lavoratori (per esempio Fair Trade, Fair Wear Foundation, Equo Garantito, SAI Social Accountability International), marchi di salvaguardia ambientale (per esempio FSC Forest Stewardship Council, OEKO-TEX), marchi di certificazione ambientale e sociale (per esempio BlueSign). E’ difficile trovare capi d’abbigliamento con questi marchi nei grandi magazzini, molto più facile nelle botteghe del commercio equo e solidale;
5) comprare abbigliamento prodotto in Italia o nella UE (cioè con la dicitura made in Italy, made in EU, ecc. o che non riportino diciture tipo Prodotto fabbricato in Paesi extra UE). Nell’Unione Europea, per fortuna, vigono norme che tutelano i lavoratori e l’ambiente molto più che nei Paesi extra UE. Inoltre più breve è la filiera e minore è l’inquinamento da trasporti e imballaggi;
6) comprare di meno e prodotti che durano più a lungo. Produrre un capo d’abbigliamento è costato fatica, ha avuto un impatto ambientale: è folle usarlo solo poche volte. Se già sappiamo che dobbiamo usarlo solo una-due volte meglio farselo prestare o affittarlo. Se lo usiamo poco perché il nostro armadio è già pieno di abiti significa che non ne avevamo bisogno e che è stato uno spreco comprarlo. Se lo usiamo poche volte perché subito si deteriora significa che non è un buon affare né economicamente né per l’ambiente. Se non ci calza più bene lo si può stringere, allargare, accorciare, allungare o si può decidere (se abbiamo messo qualche chilo) di fare un poco più di moto e un’alimentazione più sana (più verdure, meno cibi ipercalorici ecc.): così ne guadagniamo anche in salute;
7) avere cura dei capi di vestiario per farli durare più a lungo: pulire gli armadi con l’aspirapolvere, mettere un preparato antitarme, appendere i capi (invece di tenerli uno sull’altro, tenerli sottovuoto nella stagione nella quale non si usano ecc.;
8) comprare capi di abbigliamento “puri” (cioè con almeno 95% di un’unica fibra). I prodotti che hanno almeno il 95% di lana o di cotone possono essere dati ad aziende che li riciclano producendo nuovi capi di vestiario o teli da mare. Per esempio Rifò preleva gratuitamente i capi che si vogliono consegnare e dà un buono acquisto di suoi prodotti per ogni capo consegnato [6];
9) lavarli solo quando è necessario: ad ogni lavaggio si perdono fibre, microfibre e particelle che finiscono nelle acque di scarico e, quindi, nei mari e fiumi. Inoltre meno si lava un capo e più dura.
In ultimo mettere i vestiti nei cassonetti ad hoc non è la scelta più etica ed ecologica che possiamo fare quando decidiamo di liberarci dei capi che non vogliamo più. I vestiti raccolti in questa maniera sono troppi e spesso (anche per il modo con il quale vengono depositati) per le loro condizioni è difficile darli a persone bisognose. La gran parte degli indumenti dei cassonetti finisce per andare nei Paesi poveri. Bene? Non proprio. L’arrivo di abiti a bassissimo costo ha un effetto di concorrenza spietata sull’economia tessile locale, determinando disoccupazione e dipendenza dall’estero. Per questo motivo alcuni Paesi (per esempio Ruanda, Uganda, Tanzania) hanno vietato il commercio dei capi di abbigliamento usati importati dai paesi occidentali, che però finiscono per essere venduti illegalmente.
La cosa migliore da fare quando ci si vuole sbarazzare di un indumento è lavarlo, piegarlo e portarlo a qualche associazione o parrocchia che lo dà direttamente a persone bisognose [7]. I capi più richiesti sono biancheria intima, scarpe, magliette, camicie, maglioni, jeans, pantaloni, giacconi (raramente servono abiti completi, giacche e vestiti eleganti).
Se i capi sono in condizioni pessime possono diventare stracci per togliere la polvere, per lucidare, lavare o asciugare.
Ogni volta che stiamo per comprare, indossare, lavare, buttare un capo d’abbigliamento pensiamo a tutto ciò e cerchiamo di avere comportamenti più etici e più ecosostenibili.
13/6/2022
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