Paladini del capitalismo verso benicomunisti
Il successo popolare della mobilitazione politica dei cittadini in favore dei beni comuni (caso esemplare, i 27 milioni di italiani che hanno votato nel giugno 2011, per via referendaria, in favore dell’acqua bene comune pubblico), è un fatto politico innegabile. Pertanto è comprensibile che rappresentanti delle forze sociali e politiche favorevoli alla mercificazione dei beni essenziali e indispensabili per la vita e alla privatizzazione dei servizi pubblici connessi, in ossequio alle logiche dell’economia capitalista di mercato e del primato dell’iniziativa privata, cerchino di capire il significato dei beni comuni e del loro successo per de-costruirne i principi fondatori e discreditare l’impatto esercitato su milioni di cittadini.
Gli autori di I beni comuni oltre i luoghi comuni (a cura di Eugenio Somaini, edizione Istituto Bruno Leoni, Milano 2015) sono onesti e chiari nel dichiarare la loro piena adesione alle teorie e ai valori dell’economia capitalista di mercato. Per cui denunciano come «belle parole», «ideali ingenui», «concetti che non hanno alcun legame con la realtà», ciò che spinge tanti esseri umani a battersi e anche a morire: la giustizia, la solidarietà, l’uguaglianza, la democrazia partecipativa…
Del resto sono coerenti: è normale ed evidente che dette parole e simili obiettivi non hanno luogo né diritto di presenza in un’economia di mercato. Il mercato non riconosce che la concorrenza per la conquista di quote parte di mercato, la competizione per la sopravvivenza e la potenza, la rivalità per l’accesso alle risorse, ai beni e alla ricchezza, i vincitori e i perdenti, gli “eletti” e gli esclusi. Il mercato legittima il principio affermato in tutte le strade e i tetti delle città americane “only the strong will survive” (solo il più forte sopravvivrà).
Peccato che la loro adesione fideista, assoluta ai princìpi e ai valori dell’economia capitalista di mercato li conduca a non vedere bene la realtà, a capire male i problemi, e a muoversi un po’ allo sbando, commettendo errori su errori, sia sul piano fattuale descrittivo che su quello analitico e prescrittivo.
1. Non vedere la realtà
Il primo errore è quello di considerare che il punto di partenza del dibattito politico e socioculturale sui beni comuni in Italia siano stati i lavori della Commissione Rodotà, dal nome del suo presidente, costituita dal governo Prodi nel 2007 per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici. Questo postulato ha indotto gli auto-definitisi anti-benicomunisti a ridurre il dibattito sui beni comuni a una forte contrapposizione tra un approccio giuridico-istituzionale (inerente ai lavori della Commissione Rodotà) e l’approccio economico (proprio del gruppo di autori del libro).
Secondo questi ultimi, l’approccio giuridico-istituzionale sarebbe fallace e pericoloso perché farebbe discendere la definizione dei beni comuni e la loro organizzazione concreta nella società da princìpi prefissati (diritti, obblighi) dalle istituzioni (in particolare i giudici costituzionali) che danno valore oggettivo ai bisogni dei cittadini e impongono forme di gestione necessariamente burocratiche distaccate dalla realtà dei processi di produzione, di diffusione e di valorizzazione dei beni. Realtà, invece, che sarebbe al centro dell’approccio economico. Questo permette, a loro avviso, di tener conto della grande diversità e molteplicità dei bisogni individuali, non solo collettivi, e della varietà degli usi dello stesso bene, variabili nel tempo e nello spazio in funzione dell’utilità e della loro disponibilità.
Tutto il libro è strutturato e cadenzato attorno a detta dicotomia e contrapposizione. Ora, la storia, anche in Italia, dimostra che il dibattito politico e socioculturale sui beni comuni è nato con forza e si è espanso rapidamente sin dagli anni ’70 in reazione e in opposizione netta ai processi di smantellamento dello stato sociale (welfare state) e della società dei diritti, in particolare sotto gli attacchi della globalizzazione dell’economia capitalista di mercato a partire dagli anni ’80 all’insegna della
– mercificazione di ogni bene. Le lotte contro l’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (Gatt) e poi contro l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) – cioè contro i trattati commerciali che volevano tutto mercificare e tutto liberalizzare – hanno marcato l’ultimo quarto del 20° secolo come momento di affermazione che la vita non è una merce, che le terre e le foreste non sono da vendere. Lo stesso dicasi della mercificazione dei semi e del vivente e della loro privatizzazione. Memoriali le lotte contro gli Ogm e la brevettabilità del vivente a scopo di lucro (approvata nel 1980 dagli Stati Uniti e nel 1998 dall’Ue), lotte ancora oggi molto attive nel mondo intero;
– delocalizzazione delle imprese verso i paesi a basso costo del lavoro e senza protezione sociale. Le battaglie per il lavoro come bene comune, patrimonio della collettività e non proprietà del capitale hanno insistito molto sul lavoro come capitale sociale e ricchezza delle collettività;
–predazione delle risorse naturali e artificiali, materiali e immateriali, della terra e dell’umanità perpetrata da un modello di crescita economica non sostenibile dominata dalle logiche capitaliste di produzione e di consumo. I movimenti ecologici e le lotte ambientaliste sono stati strettamente legati alla salvaguardia e promozione dei beni comuni e dei servizi pubblici rispettosi del principio di rigenerazione e integrità della vita;
– privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici d’interesse generale collettivo. L’opposizione è stata forte, anche se poi sconfitta, contro la privatizzazione dell’energia elettrica, delle telecomunicazioni, delle poste, delle ferrovie, degli ospedali, dell’aviazione, dell’educazione, della ricerca… Unica grande vittoria fu quella dell’abbandono nel 1999 del progetto Ami (Accordo multilaterale sugli investimenti), rimesso oggi sul tappeto con pervicacia e aggressività maggiore da parte di coloro che propugnarono l’Ami, con le proposte dei trattati Ttip, Tptp, Ceta… che, si spera, anche questa volta saranno rigettati.
2. “Acquaioli”
Tutto ciò è stato storia viva anche in Italia. Se posso fare riferimento a un campo che conosco in maniera particolare, quello dell’acqua, quelli che ho chiamato più di 15 anni or sono gli “acquaioli”, cioè i militanti per l’acqua diritto umano e l’acqua come bene comune pubblico, non hanno atteso la Commissione Rodotà.
Ho creato, con Mario Soares e Danielle Mitterrand, nel 1997 il Comitato internazionale per il contratto mondiale dell’acqua, dopo alcuni anni di lavoro e di battaglie sulla scia di forti movimenti latinoamericani, asiatici ed europei (in particolare in Francia). Se siamo stati capaci di organizzare a Firenze nel 2003 il primo Fame (Forum alternatif mondial de l’eau), con la partecipazione di più di 800 persone e un centinaio di organizzazioni attivamente impegnate, è perché da anni c’era una mobilitazione diffusa in Italia sul tema dell’acqua bene comune, contro la “petrolizzazione” dell’acqua e la sua “coca-colizzazione”.
Altro che approccio giuridico-istituzionale! E quando i 27 milioni di italiani votarono per i referendum abrogativi, pochi fra loro sapevano dell’esistenza della Commissione Rodotà. La cultura dei beni comuni è stata e rimane parte integrante di un rinnovo della cultura della vita al quotidiano, dei diritti umani e del vivere insieme iniziato quarant’anni fa, specie a livello locale, nei territori.
A proposito dell’acqua, non posso fare a meno – di fronte all’arrogante presunta “scientificità” di molte affermazioni degli autori del libro – di far rilevare due errori fattuali descrittivi gravi.
Primo: contrariamente a quanto affermato nel libro, la risoluzione dell’Onu del 28 luglio 2010 sul riconoscimento dell’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari, non è stata approvata all’unanimità da parte degli stati membri. L’unanimità dimostrerebbe, secondo gli autori, la scarsa rilevanza politica del riconoscimento del diritto all’acqua: tanto vale dire sì. Se l’autore del capitolo sull’acqua avesse letto la risoluzione, avrebbe costatato che essa fu approvata da 122 stati, con 41 astensioni. Ora, come è noto nella pratica e nel gergo onusiani, l’astensione significa “opposizione”. Cosi, 11 stati dell’Unione europea hanno votato contro la risoluzione (per i dettagli consultare www.rampedre.net). Oggi, questi stati continuano a opporsi al riconoscimento giuridico del diritto umano all’acqua per la vita.
Secondo errore, molto significativo per la questione in discussione: nel libro si legge che «i diritti impegnano i governi che li sottoscrivono fintanto che lo vogliano». Assolutamente falso. Il riconoscimento di un diritto, per esempio il diritto all’acqua o al cibo, o all’educazione, nell’ambito di un trattato internazionale comporta un obbligo vincolante per tutti gli stati firmatari da quando i diritti inclusi nel Patto internazionale dei diritti sociali ed economici, che ha valenza giuridica vincolante, sono stati considerati “giustiziabili”.
La giustiziabilità di un diritto significa che qualunque cittadino o gruppo di cittadini può portare in giustizia uno stato, o chi per lui, che non rispetti l’obbligo derivante dai diritti approvati in sede internazionale. Un trattato internazionale diventa fonte di diritto interno superiore alle leggi normali nazionali. Gli stati non possono farne quello che vogliono, quando vogliono!
È vero che, ad oggi, i trattati internazionali, come anche le Costituzioni di molti stati, non forniscono degli elementi precisi, specie in termini quantitativi, di specificazione della natura e portata concreta degli obblighi. Il che lascia un ampio margine di manovra ai vari governi sul piano dei tempi e modi di concretizzazione dei diritti (vedi semprewww.rampedre.net).
3. Non capire bene i problemi
L’opzione fatta in favore dell’approccio economico, in quanto presunto unico approccio pertinente in materia, ha imprigionato gli autori in vicoli ciechi, per cui hanno avuto grosse difficoltà a capire gli aspetti essenziali dei problemi.
Anzitutto, l’approccio economico ha significato l’adozione della definizione di bene unicamente in chiave delle teorie economiche capitaliste di mercato dominanti, di stampo occidentale. Così hanno adottato la definizione dibene economico elaborata dall’americano Paul Samuelson nel 1950 (Premio Nobel dell’economia nel 1970) e insegnata in tutte le università occidentali ed occidentalizzate. Secondo queste teorie, un bene è economico (e non sociale) allorché è oggetto di rivalità (per la sua appropriazione e il suo uso) e di esclusione (l’uso che il proprietario fa del bene ne impedisce l’uso ad altri).
Da qui, la tesi che l’acqua, la terra, i semi, la casa, l’energia, il vivente… sono dei beni economici che possono essere comuni a titolo privato (i beni di una cooperativa, di un’associazione…) ma che non sono dei beni comuni pubblici (salvo in caso di decisione da parte degli stati di considerarli dei beni demaniali non cedibili).
A parte il fatto che l’economia capitalista di mercato competitiva non è il solo approccio economico possibile, l’approccio economico stesso non è il solo approccio possibile per pensare e organizzare la vita sociale e collettiva. Esso è un approccio settoriale che prende senso in connessione con gli altri approcci possibili e non in loro sostituzione. Le concezioni sociali, culturali, religiose, politiche, tecnologiche costituiscono maniere di vedere la realtà e di organizzarla altrettanto determinanti e legittime di quelle strettamente economiche (ricordiamo, peraltro, che eco-nomiasignifica “le regole della casa”, dal greco oikos et nomos, e non “la scienza del fare ricchezza per soddisfare al meglio i bisogni solvibili”).
Il duplice riduzionismo degli autori ha così sterilizzato la loro capacità di capire le due questioni principali relative ai beni comuni pubblici, e cioè (a)il carattere strumentale dei beni comuni pubblici rispetto alle finalità del vivere insieme delle varie comunità umane, dal livello locale al mondiale tenuto conto delle caratteristiche evolutive dell’oikos (luogo di vita) della Terra; (b) le necessarie relazioni di pertinenza e di coerenza tra i regimi di proprietà, di governo (gestione compresa) e di uso dei beni comuni pubblici. Lo stesso vale per quelle relative ai beni privati e ai beni comuni privati.
L’obnubilazione sui meccanismi di mercato e “in nome del denaro” esclude altri elementi di riferimento strutturanti (realtà, valori, scelte collettive…) come, per l’appunto, l’esistenza e il riconoscimento di diritti umani o l’adattamento a evoluzioni di nuove dimensioni (quali il passaggio delle nostre società da un’era “nazionale’ ad un’era planetaria e quindi, per esempio, da una cultura della sicurezza collettiva “nazionale” a una sicurezza “planetaria”).
La storia degli ultimi duecento anni è stata soprattutto una storia di lotte per i diritti umani universali e imprescrittibili, contro qualsiasi forma di ineguaglianza nei diritti e d’ingiustizia. Da qui, la ricerca di sistemi economici efficienti sul piano della giustizia e del vivere insieme. I beni comuni pubblici derivano la loro legittimità e pertinenza dal loro stretto legame di strumentalità rispetto ai diritti e al vivere insieme, il che ha condotto necessariamente allo sviluppo di una sfera economica pubblica. Altri elementi di riferimento hanno promosso lo sviluppo di una sfera economica privata, e altri ancora lo sviluppo di forme economiche miste, cooperative, né pubbliche né private. Ogni sfera ha generato i propri “beni comuni”.
Per definizione, alla sfera pubblica corrispondono beni comuni pubblici che non debbono né possono essere sottomessi alle logiche di rivalità e di esclusione proprie ai beni della sfera privata. Queste differenze sostanziali sono difficili da capire da coloro che escludono, per cecità dogmatica, l’esistenza di realtà autonome e diverse da quelle da loro ammesse.
4. Nuovi paradigmi
In questo contesto, essi non sono stati capaci altresì di afferrare il senso dell’evoluzione teorica e pratica dei membri della Commissione Rodotà nell’ambito della tendenza da loro accettata in favore del superamento delle dicotomie stato/mercato, pubblico/privato a proposito della rilevanza o meno della titolarità della proprietà rispetto al ruolo e alla funzione dei beni comuni.
Significativamente influenzati dai lavori e dalle tesi di Elinor Ostrom (unica donna ad aver ricevuto il Premio Nobel dell’economia nel 2009, proprio per i suoi lavori sui beni comuni), i membri della Commissione Rodotà hanno sostenuto che il regime di proprietà pubblica o privata o mista non è discriminante per consentire ai beni comuni di rispondere alle loro funzioni strumentali rispetto ai fini prefissati. I lavori della Ostrom avrebbero dimostrato che una proprietà e gestione privata dei beni comuni su base comunitaria volontaria e autorganizzata da parte dei membri di una comunità umana (sia essa l’insieme dei pescatori di un’isola, un’associazione femminista su scala mondiale, gli abitanti di una zona forestale……) è più consona, efficiente e pertinente di quella pubblica/statuale e di quella privata/capitalista.
Alla base, devono esserci, beninteso, degli appropriators, cioè dei soggetti che affermano di considerare un bene, o più beni, di loro interesse e cura comuni. Occorre inoltre che la gestione sia fondata per quanto riguarda i processi decisionali e il sistema di finanziamento su meccanismi comunitari in un contesto di economia di mercato. Da quanto ora descritto, le posizioni della Commissione Rodotà in materia rappresentano, a mio parere, uno slittamento certo verso “meno pubblico e stato” e “più mercato diverso”.
Non penso che il futuro dei beni comuni pubblici, soprattutto a due livelli territoriali estremi delle comunità umane – il locale ed il mondiale – possa dipendere “meglio” dalla proprietà e la gestione comunitarie da parte diappropriators à la carte. Pensiamo al vivente in quanto insieme di “beni comuni pubblici”. Possiamo essere certi che gli appropriators di un genoma vegetale o di una proteina umana à la carte garantiscano una gestione più efficiente, coerente e giusta rispetto ai diritti umani e all’interesse comune generale di quella pubblica/statuale a livello locale e mondiale?
Il livello mondiale (sicurezza comune mondiale) richiede sempre più delle istituzioni e dei dispositivi politico-istituzionali nuovi, complessi, diversi dai sistemi “sovrani” degli stati nazionali. I beni comuni mondiali, a-territoriali, richiedono altri concetti e altre modalità organizzative di quella della sovranità nazionale o della libera auto-organizzazione spontanea diappropriators privati collettivi. Lo stesso dicasi dei beni comuni pubbliciman made, artificiali, quali la realtà virtuale o il vivente fabbricato dagli esseri umani: essi necessitano punti di riferimento e d’inquadramento fondamentalmente nuovi e diversi dai meccanismi e dispositivi economici dell’accumulazione privata, della competitività, rivalità ed esclusione e della finanziarizzazione speculativa.
Gli autori del libro non hanno capito che lo slittamento di cui sopra va nella direzione di un ripensamento profondo del ruolo della proprietà privata e dei beni comuni privati che non conduce necessariamente a un superamento della dicotomia stato/mercato ma a una nuova forbice meno stato/diritti e uguaglianza e più mercato/libertà e auto-organizzazione.
La stessa cecità, infine, li ha indotti a una penosa pirouette a proposito di quanto è scritto sui beni comuni nell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco. Pur rendendosi conto che l’enciclica è strutturalmente favorevole ai beni comuni pubblici e non alle logiche di mercato, gli autori – probabilmente di fede o di cultura cristiana – hanno cercato di non opporsi apertamente alle tesi di Francesco, affermando che le analisi dell’enciclica si situano a livello di principi di ordine generale morale e che esse non si traducono in indicazioni prescrittive politiche e socioeconomiche concrete. Esempio flagrante di quel che si dice arrampicarsi sugli specchi.
Riccardo Petrella
Professore emerito dell’Università Cattolica di Lovanio (B), autore di Il bene comune. Edizioni Diabasis, Reggio Emilia, 1997 e di Res publica e beni comuni, I quaderni SVI, Monastero del bene comune, Verona, 2012.
8/2/2016 www.inchiestaonline.it
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