Palestina. Il punto di non ritorno

Dopo il 7 ottobre, spiega la docente universitaria palestinese Dana El Kurd, assistiamo a passaggi irreversibili: sull’Anp, le forme di lotta, la solidarietà, il modo di intendere una forma di convivenza tra israeliani e palestinesi

Al di là del giudizio politico e morale che si voglia assegnare all’attacco di Hamas del 7 ottobre, esso rappresenta una sorta di punto di «non ritorno»: da un lato, il falso senso di sicurezza di Israele all’interno dei suoi territori ha ricevuto un grave contraccolpo e la sua leadership sembra talvolta avviarsi verso una sorta di «suicidio» per quanto riguarda la sua credibilità sulla scena internazionale; dall’altro, gli eventi in corso stanno ridisegnando la composizione e le dinamiche all’interno della resistenza palestinese (che sembra avere Hamas come attore principale e punto di riferimento anche per altri gruppi, non solo islamisti) e, soprattutto, hanno provocato una brutale violenza da parte di Israele che si sta abbattendo da ormai cinque mesi in maniera incessante sulla popolazione di Gaza. 

Su questi temi, all’interno di un più ampio progetto di ascolto di testimoni dalle zone di conflitto, abbiamo intervistato Dana El Kurd, docente universitaria palestinese, da tempo impegnata in una riflessione sui temi dello Stato, della mobilitazione sociale e dell’identità.

Cosa pensi dell’attuale resistenza armata, quali risultati sta ottenendo e quale strategia ha in mente secondo te?

Posso provare a dare una risposta come ricercatrice che si occupa di strategie di resistenza non violente. C’è una letteratura scientifica che suggerisce che le tattiche non violente sono molto più efficaci di quelle armate, da Erica Chenoweth in giù. Ci sono poi altri filoni, specialmente incentrati sullo studio del conflitto israelo-palestinese, che suggeriscono invece che la non violenza non sia sempre così efficace. Le ricerche di Devorah Manekin e Tamar Mitts, per esempio, lo dimostrano nel contesto di Israele. Negli ultimi due mesi è stata pubblicata una ricerca molto approfondita di Avishay Ben Sasson-Gordis e Alon Yakter in cui si analizza la percezione delle diverse tattiche della resistenza palestinese da parte dell’opinione pubblica israeliana. In pratica viene chiesto agli intervistati israeliani che cosa considerano terrorismo e ciò che al contrario considerano resistenza legittima da parte paelstinese.

La conclusione di questa ricerca è che non importa come agiscano i palestinesi: anche se si impegnano in una forma di protesta non violenta, se costruiscono una scuola vicino a un villaggio o altro, qualsiasi gesto viene percepito dagli intervistati israeliani come terrorismo. Ovviamente, ci sono diverse sfumature che hanno a che fare con l’affiliazione politica di ciascuno: le persone di destra tendono a considerare terrorismo tutto ciò che viene fatto dai palestinesi senza distinzione. Ma questa è la realtà generale. In un tale scenario, dunque, le azioni non violente potrebbero non essere così efficaci come viene generalmente descritto dalla letteratura accademica sull’argomento: probabilmente nel caso di Israele e Palestina sono all’opera dinamiche diverse dalle tendenze generali. 

Esiste poi un’altra prospettiva e letteratura sulla logica della violenza, secondo cui troppa violenza provoca ritorsioni, ma una certa quantità di violenza potrebbe essere efficace. Tra le persone palestinesi ci sono state diverse discussioni, per lo più private ma anche pubbliche, sull’azione di Hamas del 7 ottobre: ci si è chiesti se fosse sostenibile a livello strategico o se fosse inaccettabile da un punto di vista etico. Ci sono stati intellettuali palestinesi che hanno detto che, pur partendo dal presupposto che i palestinesi hanno il diritto di resistere, ci sono alcune azioni (e il 7 ottobre tra queste) che sono da considerare criminali, perché fanno uso di una violenza di tipo sadico. Dico questo perché voglio sottolineare che quando si parla di ciò che è accaduto il 7 ottobre ci sono considerazioni di diverso tipo e atteggiamenti sfumati, anche fra gli stessi palestinesi.

Direi anche che molte persone, pure a Gaza – e ci sono alcuni sondaggi a sostegno di una tale ipotesi – pensano che il prezzo che si sta pagando sia troppo alto. Israele potrebbe non essere in grado di sradicare Hamas (anche perché parte di Hamas è fuori da Gaza), ma sta sradicando Gaza. Gaza è stata distrutta: la società è stata deliberatamente distrutta, sono stati presi di mira intellettuali e accademici e la maggior parte della popolazione è bloccata a Rafah, anch’essa ora sotto bombardamento. Ci sono notizie sulla costruzione da parte dell’Egitto di spazi dove i palestinesi possano eventualmente rifugiarsi. Una parte di Hamas potrebbe sopravvivere, perché parte della leadership politica è fuori dal paese, ma Gaza potrebbe non sopravvivere. Quindi per i palestinesi si tratta di un costo davvero molto alto. Credo quindi che in uno scenario di questo tipo, «a somma zero», ciò di cui avevamo bisogno era, una qualche soluzione politica che potesse essere imposta dalla comunità internazionale. Non è successo nulla di tutto questo ed e siamo arrivati al punto in cui i civili sono presi di mira, gli ostaggi sono ancora bloccati e oltre 30.000 palestinesi finora sono stati uccisi.

Una resistenza «civile» e quotidiana, fatta di gruppi di aiuto mutualistico, associazioni femminili, sindacati e così via è sempre esistita in Palestina, soprattutto in Cisgiordania. Quanto è rimasto di questa «società civile», quale autonomia riesce ad avere rispetto alle fazioni politiche, e quale strategia di resistenza e difesa del territorio e della popolazione mette in pratica o immagina? 

Sia nei territori occupati nel ’67 che tra la comunità palestinese in Israele la repressione è stata molto forte e la società civile è più o meno bloccata. Questa è la mia analisi a breve termine: all’indomani del 7 ottobre la società civile non riesce a essere efficace, subisce una forte repressione, sia fisica che psicologica. La gente ha paura di organizzare qualcosa sia nei territori occupati che in Israele, per ottime ragioni. Ma anche prima del 7 ottobre lo stato della società civile palestinese non era buono. Naturalmente esistevano tentativi di resistenza basati sul mutuo aiuto e simili, ma procedevano con grandi difficoltà. Soprattutto all’indomani del 1994 e degli accordi di Oslo e ancora dopo la seconda Intifada e il consolidamento dell’Autorità Palestinese, l’importanza tradizionale di questo tipo di gruppi di solidarietà all’interno della società palestinese è stata erosa.

Anche prima del 7 ottobre, dunque, la società civile palestinese era stata indebolita sistematicamente e ora è in uno stato di difficoltà profonda. Inoltre anche altri tipi di organizzazioni, come l’Olp, hanno smesso di funzionare. Penso che in questo momento i palestinesi vivano un enorme vuoto di leadership e di spazi per organizzarsi.

Cosa pensi della mobilitazione internazionale a sostegno di Gaza? In Italia e in Europa ci sono manifestazioni ogni settimana. I partecipanti sono per lo più giovani, tra cui soprattutto immigrati dalla regione araba – naturalmente in solidarietà con il popolo palestinese, ma anche per mostrare la propria identità, per far sentire la propria presenza, politica e sociale.

Penso che molte proteste svolgano spesso una funzione di «costruzione dell’identità» di determinati gruppi o comunità sociali. Senza aver fatto ricerche specifiche, credo anche che esistano similitudini tra i vari paesi e nel comportamento delle cosiddette seconde generazioni nei diversi paesi. Negli Stati uniti c’è un divario generazionale generalizzato, non solo tra gli arabi e i palestinesi, ma all’interno dell’intera popolazione statunitense. Il divario generazionale riguarda la visione delle politiche di Israele in rapporto al razzismo sistemico degli Stati uniti. C’è anche la vasta comunità afroamericana che porta avanti un suo peculiare percorso politico sulla Palestina.

In ogni caso non credo che la questione dell’identità spieghi le motivazioni della stragrande maggioranza delle persone a scendere in piazza. La realtà è che stiamo assistendo a un forte cambiamento nella politica statunitense, almeno a livello di opinione pubblica. Una parte di questo cambiamento in qualche modo si riflette nell’atteggiamento di alcuni membri del Congresso. Ci sono evidenze che suggeriscono che il forte attivismo negli Stati uniti ha spostato i calcoli dell’amministrazione americana. Se sarà sufficiente è tutto da vedere. Ragionando in termini controfattuali possiamo chiederci però quanto sarebbe potuta andare peggio se non avessimo avuto questo tipo di pressione pubblica.

Cosa pensi del legame, possibile o effettivo, tra le manifestazioni per la Palestina e altre manifestazioni di liberazione popolare (ad esempio, Siria o Ucraina). Che tipo di legami di solidarietà possiamo costruire? Che tipo di rete sta emergendo in questi giorni?

È una domanda davvero complicata perché all’indomani del 7 ottobre e della gravità della distruzione di Gaza, credo che le persone non vogliano davvero affrontare questa discussione sull’interconnessione di lotte che possono avere punti in comune, perché non viene vissuta come una priorità – anche se so che nel movimento pro-Palestina (almeno negli Stati uniti, realtà che conosco) ci sono opinioni sfumate sulla Siria e sull’Ucraina, e non tutti partono da una prospettiva «campista». 

La mia impressione è che le persone si stiano davvero radunando intorno alla lotta specifica su Gaza, e cercano di costruire una rete più ampia. Magari in circostanze diverse, non con in corso una pulizia etnica a Gaza, ci sarebbero state remore a lavorare con altri gruppi palestinesi e non, che avevano opinioni molto negative sulla rivoluzione siriana. La sensazione è che oggi si tenda ad accettare maggiormente soggetti che magari hanno posizioni negative su altri contesti e argomenti per provare a costruire una coalizione più ampia. In questo momento il segmento politico che definiamo «campista», che si mobilita per la Palestina ma allo stesso tempo sostiene la Russia o il regime di Assad, è spesso tra le voci più attive e che risaltano maggiormente.

Molte persone che per la prima volta si mobilitano per ciò che sta accadendo a Gaza, non sono consapevoli di questo tipo di retroterra, ma allo stesso tempo stanno assorbendo gran parte del discorso della sinistra «campista». 

E quest’ultima sta davvero proliferando, riuscendo a capitalizzare questo momento. Mi preoccupano i possibili effetti a lungo termine: cosa comporterà l’amplificazione di queste voci? Cosa comporterà per lo sforzo di collegare le lotte? So che ci sono tentativi di questo tipo, come la Rete di solidarietà ucraina che si è messa in contatto con gli attivisti palestinesi e così via. È una cosa preziosa, ma non posso dire che sia così diffusa.

Quale pensi possa essere una conclusione, anche provvisoria, di questa situazione? Ovviamente c’è il rischio di una seconda Nakba, di una pulizia etica e di un’espulsione da Gaza. La consideri una minaccia reale? O pensi che sia solamente una strategia per fare pressione sui palestinesi affinché si arrendano?

Per i ministri che oggi stanno nel governo israeliano sbandierare la possibilità di una seconda Nakba non è una tattica per fare pressione ma un progetto reale, è quello che vogliono… e probabilmente sta già accadendo davanti ai nostri occhi. In termini numerici le espulsioni di popolazione avvenute a Gaza sono già superiori a quelle della Nakba. I palestinesi guardano a Gaza come al primo passo: pensano che questo potrebbe essere un modello che si ripeterà. Forse su scala minore, ma la comunità palestinese è convinta che ciò si ripeterà in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Non è un pensiero cospiratorio: ci sono membri del governo che hanno dichiarato esplicitamente che la pulizia etnica è un’opzione. Il ministro Bezalel Smotrich ha discusso a lungo del trasferimento di popolazione.

Forse Netanyahu non resterà per molto a capo del governo e la nuova leadership sarà dissuasa dal continuare su questo percorso, non lo sappiamo. Ma è una possibilità reale e questo è il modo in cui se ne parla anche nei media palestinesi. 

Cosa pensi della discussione all’interno dell’amministrazione statunitense? Potrebbe e dovrebbe essere in grado di «fermare» il governo israeliano nelle prossime settimane?

Gli Stati uniti sono l’unico paese che può esercitare una certa pressione su Israele. Non l’hanno fatto e dovrebbero farlo. Penso che stia diventando molto più difficile per Washington continuare a sostenere Israele, perché va davvero contro gli interessi americani nella regione, estendendo il conflitto. Quindi penso che stia diventando più difficile per l’amministrazione trovare un equilibrio. Naturalmente non si sarebbe dovuto arrivare a questo punto, avrebbero dovuto esercitare molta più pressione fin dall’inizio. 

Abbiamo bisogno di un potere internazionale che crei una mediazione tra le due parti – la leadership palestinese, qualunque essa sia, e il governo israeliano in futuro – perché altrimenti non c’è alcun incentivo per gli israeliani a non continuare la guerra. 

Cosa pensi della lotta congiunta israelo-palestinese? Al giorno d’oggi questo tipo di lotta comune è molto difficile, alcuni la ritengono addirittura controproducente… 

Penso che dovremmo separare e distinguere i contesti. In luoghi come gli Stati uniti, i segmenti delle comunità ebraiche americane che chiedono il cessate il fuoco e i diritti dei palestinesi sono fondamentali per far «scoppiare la bolla», per presentare una narrazione diversa e dire che un’alternativa è possibile. Diverso invece è per quanto riguarda la lotta congiunta israelo-palestinese sul campo o le iniziative di costruzione della pace che hanno avuto luogo molto prima del 7 ottobre.

Gli Stati uniti sono molto interessati alle iniziative di costruzione della pace tra Palestina e Israele: il Dipartimento di Stato è sempre pronto a dare finanziamenti a iniziative di pace, ma molte di queste iniziative erano inefficaci già prima del 7 ottobre, perché non affrontavano il nocciolo del conflitto tra i due gruppi. Si trattava solo di riunire un gruppo di adolescenti israeliani e palestinesi nel Vermont o nel Maine pensando che da lì sarebbe potuto venir fuori qualcosa di rilevante per la pace nella regione… Sul campo, tuttavia, è molto difficile parlare di lotta comune in questo momento. 

Nel contesto di guerra calda in corso è molto difficile discutere. Esperienze come il sostegno di gruppi non sionisti, come i refusenick, le proteste contro le demolizioni delle case palestinesi, le lotte contro il Muro e così via, purtroppo si stanno rivelando poco efficaci a causa delle loro dimensioni e perché non in grado di raccogliere un sostegno su larga scala. Questo non significa che debbano smettere: sono importanti fosse anche solo per fornire una contro-narrazione a lungo termine.

Ci sono altre iniziative, che è difficile possano svilupparsi ora ma che potrebbero giocare un ruolo a medio-lungo termine, come Standing Together, che sono spesso criticate per il modo in cui sono strutturate, ma se vogliamo immaginare una soluzione politica non violenta, penso che questo tipo di iniziative saranno sempre più cruciali nel tempo. Sono convinta della loro teoria del cambiamento: dobbiamo coinvolgere una parte più ampia di persone all’interno di queste iniziative e costruire il quadro di riferimento. Un altro segmento a cui si dovrebbe prestare maggiore attenzione è quello dei palestinesi con cittadinanza israeliana. Sono le «comunità ponte» e i leader e gli attivisti di queste comunità possono svolgere un ruolo cruciale nella creazione di una piattaforma per una soluzione politica.

In questo momento potrebbe sembrare una discussione astratta, ma quale dovrebbe essere dal tuo punto di vista la «soluzione» ideale del conflitto (uno Stato unitario, bi-nazionale, due Stati, ecc.)? E cosa pensi possa rappresentare una via d’uscita dall’attuale massacro? 

È difficile. Quello che sappiamo è che il processo di una soluzione a due Stati è stato finora un completo disastro. Perché non abbiamo nemmeno una comprensione condivisa o congruente del significato di Stato. Abbiamo partecipato a questo processo – ovviamente completamente ignorato negli ultimi due decenni – e non ha funzionato, perché non abbiamo parlato davvero di cosa potesse essere uno Stato palestinese, ma si è riusciti a immaginare solo una sorta di zona demilitarizzata. Allo stesso tempo se si guardano i sondaggi si vede che non c’è molto sostegno per una soluzione che preveda uno Stato unico, né tra gli israeliani, come è ovvio, né fra i palestinesi. E credo che il motivo sia che non c’è, e non c’è stata mai, una visione politica di come sarebbe uno Stato unico.

Se qualcuno avesse presentato pubblicamente la soluzione dello Stato unico, con le garanzie che si potrebbero mettere in campo per i palestinesi per evitare di diventare cittadini di seconda classe e così via, avrebbe potuto avere una maggiore approvazione.  Comunque non vedo alcun movimento verso nessuna di queste soluzioni senza un intervento esterno. E purtroppo l’intervento esterno sinora è avvenuto in modo negativo. Per quanto riguarda gli Usa, i loro interventi sono semplicemente consistiti nel sostenere Israele e nel discutere di un possibile day-after. Ma qualsiasi esito sia stato discusso e immaginato, era chiaramente insostenibile per il popolo palestinese.

Non è una situazione positiva. Ma se riusciamo a capire come fare pressione su questi attori esterni, allora possiamo iniziare a discutere su come creare uno Stato, uno Stato binazionale, due Stati o qualsiasi altra cosa. La soluzione dei due Stati ora è molto facile da sostenere a livello teorico, ma come renderla accettabile per le parti? Ancora, siamo in una situazione «a somma zero» perché ci troviamo in un contesto in cui ogni parte non immagina alcun futuro in cui esista anche l’altra parte. E ovviamente è insostenibile. So che alcuni palestinesi che sostengono uno Stato libero palestinese ritengono che gli israeliani possano rimanere in tale Stato, con la loro identità israeliana. Questa richiesta è stata giudicata troppo elevata e irrealistica anche da parte di intellettuali e politici palestinesi, come Azmi Bishara, già decenni fa. Gli israeliani non hanno un’altra cittadinanza o un’altra nazionalità, non c’è una madrepatria a cui tornare.

La realtà è troppo violenta in questo momento e non si riesce a immaginare un’altra strada. Per farlo dobbiamo dare potere a quelle comunità che stanno creando ponti e abbiamo bisogno di un intervento esterno che comprenda queste realtà, senza sorvolare sui nodi più spinosi per pensare a una soluzione rapida che si è già rivelata insostenibile. La cosa triste è che non credo che gli Stati uniti abbiano assorbito nulla di tutto questo, stanno ancora giocando le loro carte rispetto alla leadership israeliana, ma il lavoro che va fatto dev’essere molto più profondo. 

Quale sarebbe l’obiettivo per il popolo palestinese dopo un cessate il fuoco (ovviamente oltre la ricostruzione)? Serve un nuovo soggetto politico unitario?

Gli Stati uniti vogliono una nuova Autorità Palestinese, possibilmente con una nuova leadership, che sia il partner negoziale nel prossimo futuro e che fornisca servizi nei territori, a Gaza e in Cisgiordania, ma Israele non è interessato a questo. D’altro canto, si è discusso molto poco e seriamente di rivitalizzare l’Olp che invece penso sia necessario. Rivitalizzare l’Olp non significa non cambiare le leadership e non mobilitare i palestinesi. Per essere rilanciata efficacemente l’Olp deve avere un sostegno sociale, una legittimità nella società è necessaria se si vogliono tenere elezioni all’interno dell’Olp. 

Pochi giorni fa si è tenuta a Doha (Qatar) una riunione del Forum annuale della Palestina [tra cui c’erano Mustafa Barghouti, Hanan Ashrawi, cioè persone che hanno un passato di partecipazione alla leadership nazionale, Ndr]. I palestinesi si stanno unendo intorno a questa idea: dopo tutte le persone che sono morte a Gaza, qualsiasi cosa accadrà in seguito non dovrebbe essere limitata al solo cambio di leadership a livello di Autorità palestinese. Questo è un momento di sacrificio per i palestinesi che stanno pagando un prezzo così alto per cui non si può tornare indietro e non rivitalizzare il processo politico.

Questo processo politico dovrebbe essere rivitalizzato non a livello dell’Autorità Palestinese, ma a livello di tutti i palestinesi, rappresentando anche i palestinesi della diaspora. Ciò richiede una pressione sulla leadership già in carica. Sarebbe necessario pensare a delle elezioni nel medio termine. Poi sarà necessaria una strategia politica: il modo in cui si è svolto il processo di pace finora non potrà avvenire anche in futuro. Se vogliamo che la questione palestinese sia risolta in modo soddisfacente per la maggior parte dei palestinesi, è necessario che l’Olp sia coinvolta in questi negoziati – non l’Autorità Palestinese, non solo essa, ma un’autorità che possa discutere le questioni relative a tutti i palestinesi, compresi i rifugiati, il diritto al ritorno, ecc.

Questo è il discorso che i palestinesi dovrebbero essere in grado di articolare. Dobbiamo resettare il modo in cui questo processo è stato negoziato in passato. Non può essere come prima. Ancora una volta sto parlando di ciò che dovrebbe accadere mentre gli Stati uniti e Israele vogliono qualcos’altro – una sorta di iniziativa di pace arabo-israeliana, con un partner palestinese di secondo piano – ma non avrà alcun risultato se si vuole una pace sostenibile.

Cosa chiederesti al movimento di solidarietà in Europa o negli Stati uniti? Cosa  pensi della creazione di una coalizione più ampia?

Mi pare che anche qui negli Stati uniti viga una sorta di politica della purezza, in cui non c’è molta costruzione di coalizioni perché le persone vogliono parlare di cose su larga scala e non di preoccupazioni immediate. Nonostante tutte le proteste e le azioni, i cambiamenti nelle politiche sono stati minimi. Non è responsabilità delle proteste, ovviamente, dipende dalla struttura del potere, ma è qualcosa su cui si può lavorare: come cambiare e spostare la capacità di protesta e di movimento verso altri tipi di richieste. Probabilmente il movimento sarebbe più efficace, ad esempio nel contesto statunitense, se articolasse le proprie richieste affrontando la questione dell’interesse americano o dell’interesse delle varie comunità negli Stati uniti.

Naturalmente ci sono già lotte comuni e interessi reciproci tra diverse comunità qui negli Usa. Così come ci sono interessi comuni tra le comunità palestinesi e i settori interessati alla libertà accademica, quelli preoccupati per la democrazia, e così via. Non è solo la Palestina a risentire di questa situazione, come non è solo la Siria a risentire della repressione dell’Ucraina a causa dell’invasione russa (e viceversa). Si tratta di precedenti che diventano tendenze e le persone possono avere opinioni molto diverse su ciò che dovrebbe accadere in Israele e in Palestina (io sono dell’idea che dovrebbero essere le persone sul campo a decidere), ma si può concordare sul fatto che il precedente che è stato stabilito in Palestina con questa feroce distruzione di Gaza potrà avere un impatto negativo per molte altre cose. Se si vuole costruire un’ampia coalizione, dobbiamo spiegare come quello che succede in Palestina influisce sugli interessi comuni. È una cosa che vale per tutti i contesti. Può sembrare una risposta insoddisfacente, ma è autentica.

Dana El Kurd è ricercatrice in scienze politiche presso l’Arab Center di Washington. Si occupa di relazioni Stato-società nel mondo arabo, con temi quali l’autoritarismo e l’intervento internazionale. La Palestina è al centro dei suoi interessi di ricerca. Dana è nata a Gerusalemme e successivamente è immigrata negli Stati uniti. Francesco Brusa è giornalista freelance e corrispondente dall’est-Europa. Piero Maestri, attivista, è stato redattore di Guerra&Pace ed è coautore tra l’altro di #GeziPark (Alegre, 2013).

13/3/2024 https://jacobinitalia.it/

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