Pandemia e salute mentale
L’emergenza sanitaria nel mondo non si ferma e i dati sono sempre più apocalittici. Per questo motivo le autorità consigliano di non abbassare la guardia. Il Covid-19 non è sparito e l’allerta mondiale rimane alta, anche se nel nostro paese la situazione sembra essere sotto controllo con piccoli focolai isolati. Le terapie intensive sono vuote e negli ospedali non si vive più quel clima bellico che aveva caratterizzato i mesi del lockdown.
Abbiamo visto immagini suggestive in televisione e sicuramente non vorremmo che si ripetessero più. Li abbiamo sentiti inneggiati, li abbiamo chiamati eroi, ma come hanno vissuto realmente i medici e gli operatori sanitari durante quest’emergenza?
Subito dopo l’inizio della Fase 2 abbiamo intervistato un medico che lavora nel reparto di Psichiatria di un grande ospedale del Norditalia per farci raccontare la sua esperienza in prima persona rispetto a quello che succedeva in quei giorni.
Sono passati 10 giorni dall’inizio della fase 2 e sembra procedere bene. L’Italia sta ripartendo e possiamo fare qualche considerazione su quelle che sono le ripercussioni che questa emergenza sanitaria sta lasciando dietro di sé. Sapevamo che tutto ciò avrebbe avuto un forte impatto sulle nostre vite, soprattutto dal punto di vista psicologico – oltre al dramma economico e sanitario che si è abbattuto sul nostro paese. Un impatto tanto grande che l’OMS ha dichiarato una seria preoccupazione riguardo la nuova emergenza: la sanità mentale. Sei d’accordo? È reale quest’allarme?
Si, questo nuovo virus, con l’emergenza sanitaria che ha provocato, ha stravolto e sconvolto la nostra quotidianità. Ci siamo trovati tutti ad affrontare una situazione con la quale il mondo di oggi non si era mai interfacciato. La pandemia ci ha costretti all’isolamento e alla solitudine delle nostre case e anche delle nostre menti. Per questo, sin dall’inizio dell’emergenza covid-19, sia la letteratura scientifica che clinici di noto spessore hanno espresso una certa preoccupazione rispetto a quelle che sarebbero state le conseguenze. Difatti la paura del contagio e il distanziamento sociale hanno avuto ed avranno un significativo impatto sulla nostra salute mentale, sia a breve che a lungo termine.
Un panorama che non avevamo mai visto prima né che ci saremmo immaginati. In così breve tempo abbiamo dovuto modificare le nostre vite, e ora facciamo fatica a pensare di tornare davvero alla normalità.
Ci è stato piuttosto chiaro sin da subito, sin dal decreto di marzo che annunciava la chiusura dell’Italia, che questa pandemia avrebbe modificato il nostro stile di vita, in modo più o meno drastico la nostra società e il sistema sanitario, per non parlare della chiamata al senso civico individuale che ognuno di noi ha dovuto risvegliare, talvolta fallendo. “Restate a casa”, un monito nelle strade deserte e nelle città fantasma come ai tempi di guerra: il contraccolpo emotivo e psichico era piuttosto prevedibile e forse inevitabile.
Poteva essere in qualche modo evitato? Dato che era abbastanza chiaro lo scenario che si sarebbe presentato all’indomani del lockdown, cosa si poteva fare per evitare quest’ulteriore disagio?
Nell’era della medicina preventiva, nel paese della sanità pubblica di cui tanto ci vantiamo? Si, poteva essere quantomeno attutito. Eppure nessuna istituzione ha pensato di tutelare i più deboli, di attuare un programma di prevenzione attiva del disagio psichico derivato dalla situazione in cui versiamo, che è piuttosto grave.
A cosa ti riferisci? La gravità della situazione in cui siamo o la mancata tutela dei deboli?
A entrambe le cose, ovviamente. Psichiatri e psicologi ci hanno provato, da soli, senza un sistema davvero strutturato alle spalle. Singolarmente o tramite associazioni di volontariato o di privati autofinanziati, su piattaforme e sportelli on-line per sostenere pazienti, cittadini e colleghi medici e infermieri sottoposti ad uno stress psico-fisico estenuante, prolungato per turni di ore e ore in ospedali assediati dal virus e dal panico. Con i propri mezzi, come potevano, loro erano lì, ad ascoltare la paura che vivevano. Dovendosi arrangiare senza delle linee guida aziendali, con la sensazione di sbagliare per ogni cosa che fai.
Abbiamo visto immagini strazianti e toccanti degli ospedali come campi di battaglia e medici e infermieri presentati come gli eroi che combattono per la vita. Oltre all’ovazione e al plauso mediatico, in che modo lo Stato ha cercato di agevolare questo inferno? Hai detto senza un sistema strutturato alle spalle: a cosa ti riferisci precisamente?
Linee guida, protocolli, direttive aziendali e regionali che diventavano sempre più confuse. Non si faceva in tempo a capirle e applicarle che cambiavano di nuovo. Difficoltà nell’imparare nuovi gesti da compiere, nuove accortezze da mettere in atto, copiandoci e aiutandoci a vicenda perché nessuno ci ha spiegato come avremmo dovuto comportarci e riorganizzarci. Gli operatori sempre più stanchi, risorse sempre più scarse. Sembra che, nonostante le buone intenzioni, le cose diventino progressivamente più difficili. Ad oggi, il risultato è forse più drammatico della più pessimista delle previsioni.
La burocrazia da sempre intralcia la nostra vita quotidiana, ma questa volta, più che in qualsiasi altra circostanza, forse c’era bisogno di più fatti che parole e leggi, direttive e protocolli mal scritti. In questo clima caotico, in certi casi il distanziamento sociale non ha significato protezione dal contagio del virus, ma ha espresso concetti come allontanamento e forse, se possiamo osare, abbandono. La paura del contagio è stata aggravata da paure da cui spesso si scappa con il semplice gesto di uscire di casa. Per alcuni, stare in casa era il pericolo maggiore.
Esattamente. Tra i servizi territoriali forzatamente chiusi, case di cura e ospedali in esubero, i pazienti psichiatrici si sono ritrovati più soli che mai. Gli individui affetti da disturbi mentali sono stati in gran parte abbandonati a loro stessi, relegati in situazioni socio-abitative disfunzionali, condannati a sentirsi per un’ennesima volta un peso per la società. Sono rimasti chiusi a chiave nelle loro paure a combattere da soli i loro mostri per tutta la fase 1, non senza pagarne gravi conseguenze. Ma solo con l’inizio della fase 2 e della fine del lockdown sembrerebbe scoppiata una vera e propria pandemia psichica. Ora le autorità sanitarie mondiali seguite dalla stampa lanciano l’”allarme mental health”, ma qui, nella nostra realtà, gli psichiatrici sono considerati ora più che mai pazienti di serie B.
I media ci hanno raccontato di un’altra categoria di soggetti deboli come gli anziani nelle RSA e la nascita silenziosa di focolai al loro interno, ma non è stata dedicata molta attenzione ai pazienti psichiatrici. Com’è gestire il paziente psichiatrico nel contesto apocalittico degli ospedali degli ultimi due mesi? A cosa pensi quando parli di pazienti di serie B?
Ti posso raccontare della realtà che vivo ogni giorno in uno degli ospedali più grandi d’Italia. Qui, oggi, a più di due mesi dallo scoppio dell’emergenza covid-19, i concetti di sporco, pulito, contagio, distanza sembrano ancora poco chiari. Non ci sono percorsi separati definiti in modo corretto per la zona “sporca” e quella “pulita” (ossia contaminata dal Covid e non), non viene utilizzata una zona di filtro adeguata tra le due e i dispositivi di protezione (DPI) continuano ad essere utilizzati in maniera impropria. In questo contesto, la gestione del paziente psichiatrico, soprattutto in pronto soccorso, resta arbitraria e scarsamente regolamentata, per non dire caotica e disorganizzata.
Contagioso e resistente più di qualsiasi altro virus è lo stigma sociale nei confronti della malattia mentale, che in questi mesi è cresciuto in maniera esponenziale e preoccupante. In più, il paziente psichiatrico non è più soltanto un diverso, un peso, ma oggi è diventato un vero e proprio pericolo. Inaffidabile e ingestibile, considerato infetto di default. Tutto questo rende l’urgenza ancora più problematica del solito. Il paziente in agitazione psicomotoria diventa un sospetto Covid+ anche in assenza di sintomatologia. Viene portato dalle ambulanze del 118 direttamente nella rianimazione del pronto soccorso per una sedazione. Non è affatto semplice effettuare un tampone rinofaringeo in soggetti agitati, a volte capita di doverli quasi costringere fisicamente, camminando sul filo sottile che segna il confine tra stato di necessità e violazione dei diritti umani. La sensazione che ne deriva, in molti operatori sanitari, è di disorientamento e sconforto.
Gli operatori sanitari sono disorientati per colpa dello stress di cui parlavamo prima; questo vale anche per gli operatori psichiatrici? Quali sono le difficoltà che incontrate con questo tipo di pazienti?
Gli operatori si ritrovano a dover decidere caso per caso come
gestire le procedure burocratiche, non avendo delle chiare direttive da
seguire. Per mantenere puliti i reparti di psichiatria è stato deciso di
effettuare tamponi rinofaringei a tutti i pazienti da ricoverare.
Durante l’interminabile attesa dei risultati, il paziente resta in
pronto soccorso, in genere in zona grigia, ma non può essere lasciato
solo, soprattutto se si deve attuare un TSO (Trattamento Sanitario
Obbligatorio). Se, inoltre, il paziente è agitato viene spostato in area
sporca, col rischio di contagiarsi, nella stanza più isolata di tutte,
sorvegliato da infermieri o medici del reparto di psichiatria,
specializzandi per la maggiore. Questi si trovano a passare ore, magari
di notte, nelle loro armature di plastica, da soli in una stanza
isolata con un paziente agitato e potenzialmente contagioso. La
violazione dei diritti umani dei nostri pazienti in alcuni casi si
riflette anche su di noi.
Davanti a questi nuovi scenari si crea inevitabilmente tensione tra
colleghi, ci si arrabbia, viene meno la solidarietà, l’attenzione cala,
vacilla la solidità dell’equipe. Si ha paura di sbagliare. In questa
confusione, l’ascolto empatico del paziente diventa faticoso, quasi
impossibile. La comunicazione risulta complicata dalle mascherine, dalla
distanza, dall’annullamento completo del linguaggio non verbale e in
alcuni casi dalla riduzione di quello verbale.
Sembra che quest’emergenza abbia destabilizzato il sistema sanitario, costringendolo a gestire una nuova e terribile realtà e ponendo delle sfide agli ospedali e agli operatori sanitari difficili da accettare e superare. Sembrerebbe che non fossimo pronti a gestire una simile tragedia.
Come una casa di paglia che vola via al primo soffio di vento, la struttura di questa realtà socio-sanitaria sta crollando sotto il peso della superficialità e dell’ignoranza. L’emergenza sanitaria in corso a mio avviso è soltanto una cartina al tornasole di un sistema già pericolante, destabilizzato dai tagli economici e dalle politiche sbagliate degli ultimi 30 anni. Il virus è stato solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, insomma.
Cosa possiamo imparare da questa crisi per il futuro?
La speranza che questa crisi possa portare ad un cambiamento in positivo rischia di essere soffocata dalla paura di prendersi delle responsabilità, soprattutto “ai piani alti”.
Tuttavia, mi piace pensare che in questo momento di enorme vuoto comunicativo su diversi livelli, potremmo riuscire a sentire davvero la solitudine profondissima a cui sono condannati i soggetti con disagio psichico, oggi più che mai. Da sempre, lo stigma con cui la nostra società ha marchiato la malattia mentale si riflette anche sugli operatori della salute mentale, rendendoli a loro volta degli operatori di serie B. Forse per la prima volta però iniziamo a percepire questo disagio e questo dolore a un livello molto più personale che professionale. E mi auguro che il futuro della psichiatria in Italia sia composto da persone, non solo da professionisti.
Queste erano le parole che testimoniavano direttamente la situazione sanitaria durante la pandemia. Ma oggi com’è la situazione dei nostri operatori sanitari?
Siamo tornati a intervistare lo stesso medico, che delinea un quadro molto chiaro della realtà sanitaria del nostro paese e dei lasciti di questa terribile esperienza.
Sperando che quella fase di caos infernale non torni più a imperversare negli ospedali, cosa ha lasciato questa pandemia nel sistema sanitario nazionale?
Mentre l’Italia grida alla guarigione e alla liberazione dal virus, noi sappiamo bene che non è finita. La pandemia c’è ancora, anche se sembra che sia tutto passato non è così.
Noi operatori sanitari siamo ancora oggi quelli più esposti all’infezione, siamo esposti ad un enorme rischio, ma siamo stati già dimenticati. Si è già passati da “Siete i nostri eroi!” a tornare in Pronto Soccorso di note e a sputarci in faccia se non diamo loro quello che furiosamente vengono a reclamare…
La stampa si è ammutolita. Passava le giornate ad applaudire i medici e oggi non dice più nulla. Dall’ultimo inserviente al primario, gli operatori sanitari hanno pagato con la vita, la malattia, l’energia, la stanchezza e l’umanità per tutta una serie di lacune che riguardano solo marginalmente la sanità in senso stretto, ma hanno a che fare piuttosto con un substrato economico sociale e politico molto problematico che in Italia abbiamo sempre nascosto sotto al tappeto, considerandolo un affare scomodo. Tutto ciò ci ha portato allo sfacelo durante questa pandemia e si ripercuoterà per molto tempo ancora, anche se – sensazione personale – per i media è ormai un argomento sorpassato, come se non ci fosse più niente da dire a riguardo.
Gabriella De Rosa
19/7/2020 https://www.pressenza.com
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