Pandemia: Serve più trasparenza
Il dato è potere e noi non abbiamo una cultura del dato adeguata. Parte da questa consapevolezza la campagna “Dati Bene Comune”, lanciata e sottoscritta da una serie variegata di oltre 170 realtà associative e più di 50mila cittadini e cittadine per chiedere che le informazioni sulle pandemia rilasciate dalle istituzioni siano “aggiornate, ben documentate e facilmente accessibili”. Sino a ora, infatti, Governo e Istituto Superiore di Sanità hanno reso pubblici numeri e statistiche relativi alla crisi da Covid-19 soltanto in maniera aggregata e il più delle volte in formati non machine-readable, ovvero che non possono essere letti ed elaborati da un computer.
«I dati sono fondamentali per prendere delle decisioni», spiega Sara Vegni di Action Aid, organizzazione indipendente per la lotta contro la povertà che ha aderito all’iniziativa. «È qualcosa che è diventato evidente a tutta la popolazione già dall’inizio della pandemia, ma soprattutto da quando è stato introdotto il “sistema a colori” per differenziare il rischio nelle varie regioni. Sulla base di calcoli e numeri vengono prese misure legislative diverse».
Proprio per questo la campagna è stata lanciata il 6 novembre, il giorno successivo all’introduzione di un tale sistema: «I cittadini hanno il diritto di conoscere su quali dati e su quali analisi si basano le decisioni prese dal governo per le restrizioni dei prossimi Dpcm», si afferma nella lettera aperta indirizzata ai rappresentanti delle istituzioni.
Ciononostante né il Conte Bis, sotto cui era nata l’iniziativa, né il nuovo governo Draghi hanno mai fornito una vera e propria risposta alle richieste di “Dati Bene Comune”, che nel frattempo conta sempre più iscritti (anche nel mondo del giornalismo). «Ci sono state delle dichiarazioni di buoni intenti da parte dei leader politici», racconta sempre Sara Vegni. «La nostra campagna ha riscosso un interesse trasversale da parte di alcuni membri del parlamento, mentre il Ministro Colao ci ha promesso un incontro. Tuttavia di azioni concrete ce ne sono state finora ben poche. A volte sembra mancare proprio la competenza: l’Istituto Superiore di Sanità ha reso pubblici alcuni dati, come richiedevamo, ma lo ha fatto in pdf, un formato per nulla agevole da rimaneggiare!».
Eppure, l’Italia è un paese che in passato è stato capace di compiere avanzamenti legislativi importanti in materia di trasparenza sui dati. In linea con le tendenze internazionali, il nostro paese ha infatti sottoscritto programmi quali l’Open Government Partnership (lanciato nel 2011), che si prefigge come obiettivo una maggiore apertura delle Pubbliche Amministrazioni alla collaborazione col cittadino, anche in senso digitale, e ha adottato oramai quasi dieci anni fa il documento strategico dell’Agenda Digitale Italiana, che fra le altre cose intende «favorire innovazione, progresso e crescita economica, avendo come obiettivo principale lo sviluppo del mercato unico digitale».
«Ma c’è ancora molto da lavorare», puntualizza nuovamente Sara Vegni. «Credo che nel nostro paese si sia formata negli anni una società civile estremamente attiva e matura. Lo dimostra la quantità di realtà e associazioni che stanno aderendo alla campagna e che quotidianamente si impegnano a comunicare numeri e statistiche in maniera più comprensibile e trasparente (come OnData, per esempio). Tuttavia, da parte delle istituzioni non sempre si è riusciti a reggere il passo».
Ciò risulta drammaticamente vero se si presta attenzione alla scarsa efficacia con cui vengono rielaborati e condivisi alcuni dati anche all’interno degli stessi organi preposti a gestire l’emergenza.
Lo denunciava, per esempio, il comunicatore della scienza Giancarlo Sturloni in un articolo pubblicato su “Wired” a inizio di questo mese: «Ogni venerdì si attende il bollettino dell’Istituto superiore di sanità (Iss), l’analisi settimanale che fotografa l’andamento dell’epidemia e che il governo usa per decidere aperture e restrizioni da cui dipende la nostra vita quotidiana. Eppure questa fotografia tanto attesa arriva sempre già sbiadita: per il calcolo di Rt, il parametro più importante per avere il polso della situazione, si riferisce infatti a dati vecchi di due settimane, il tempo necessario per consolidare l’affidabilità delle informazioni raccolte sul territorio. E così, per quanto possa sembrare incredibile a più di un anno da quando è cominciata l’emergenza, la gestione della pandemia continua a essere afflitta da un sistemico ritardo».
Si capisce allora come una lettura e un’interpretazione dei dati eseguite in maniera puramente “verticale” siano del tutto insufficienti a fronte del periodo che stiamo attraversando. Le poche e precise azioni richieste dalla campagna “Dati Bene Comune” (rendere aperti e disaggregati i dati comunicati dalla Regioni al Governo, rendere pubblici le formule e i metodi con cui viene valutato il rischio epidemico, istituire un centro nazionale per la gestione e il coordinamento dei dati, nominare dei referenti per garantire la trasparenza delle comunicazioni) potrebbero invece consentire lo sviluppo di collaborazioni trasversali, con un decisivo protagonismo della società civile e con un maggiore impiego di strumenti e piattaforme di elaborazione dei dati costruiti “dal basso” (si veda a questo proposito il caso di CovIndex).
«Serve un cambio di paradigma», conclude Sara Vegni. «Alla base della scarsa trasparenza c’è una mancanza di fiducia da parte delle istituzioni verso la società civile, che dovrebbe invece svolgere un ruolo fondamentale nella gestione della crisi sanitaria».
Sabato 8 aprile, le realtà che hanno sottoscritto la campagna proveranno a ribadire questo concetto con una discussione in diretta dal canale YouTube di Action Aid Italia, alle ore 17. “Tante voci” e “tante buone ragioni” per rendere i dati un bene finalmente comune.
Francesco Brusa
2/4/2021 https://www.dinamopress.it
Immagine di copertina di Pexels da Pixabay
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