Pausa Gaza: Al Sisi sotto ricatto economico e la rabbia popolare in Egitto
Gaza dopo 50 giorni di bombe. Stop ai raid utilizzato per cercare i dispersi, recuperare i cadaveri nelle strade. 15mila morti, 7mila dispersi, 35mila feriti. E 1,7 milioni di sfollati. Mentre il governo israeliano assicura: «breve pausa, la guerra continua»
Della Giordania alle prese col Far West dei coloni ebrei nei territori palestinesi vi abbiamo detto. Ora l’Egitto, nel cui deserto del Sinai, l’attuale confusa Israele, una parte almeno, vorrebbe esiliare i gazawi sopravvissuti. Ma il Paese dei Faraoni e delle piramidi, già in crisi sociale ed economica gravissima, rischierebbe di esplodere.
Gaza, reazioni a catena
Gaza è l’ultimo grosso problema che si aggiunge a quelli che già stava affrontando il Presidente egiziano El Sisi. Il suo grande Paese è stato tirato in ballo più volte, sia pure informalmente, come ipotetica destinazione finale di un «trasferimento di massa palestinese». Tutti hanno smentito. Ma i discorsi si sono fatti e, in qualche modo, se ne conoscono pure alcuni dettagli.
Ricatto economico
Per esempio, l’Economist rispolvera i sospetti sul vecchio «accordo del secolo sostenuto da Trump», che prevedeva proprio il reinsediamento di una certa quota di palestinesi nel Sinai. «Oggi – scrive la rivista britannica – circolano voci che qualcosa di simile potrebbe avvenire in cambio di una grande cancellazione del debito pubblico egiziano. Intorno a 20-30 miliardi di dollari».
Estremismi palestinesi e Fratelli musulmani
Naturalmente, da un punto di vista etico la proposta si commenta da sola. D’altro canto, gli analisti spiegano, dettagliatamente, i motivi per i quali El Sisi non si sognerebbe mai di inondare il Sinai di palestinesi. Il primo di tutti è che potrebbero fungere da detonatore per il terrorismo interno. In che senso? Secondo i Servizi di sicurezza egiziani, nel flusso di palestinesi esodati ci sarebbe sicuramente una certa percentuale di aderenti ad Hamas. Il gruppo è una diretta filiazione dei Fratelli musulmani, l’organizzazione politica, espressione di un certo fondamentalismo islamico, nata e prosperata al Cairo. E mortalmente combattuta dai El Sisi, fino ad arrivare al colpo di Stato. Per cui, ‘importare gaziani’, vorrebbe dire rimettere in collegamento due pericolose anime estremistiche.
Il Sinai delle rivolte beduine
La seconda ragione è che il Sinai, dal punto di vista della sicurezza, per il governo egiziano è un’area ‘off limits’. Per tanti anni, nella desolata penisola, i nomadi beduini si sono rivoltati contro lo Stato, uccidendo centinaia di soldati e rivendicando parità di diritti con gli altri egiziani. El Sisi, con molto bastone e qualche carota, è riuscito a calmarli. Ma il fuoco cova sempre sotto la cenere, specie quando le tribù beduine credono di essere discriminate in favore di altre etnie. Così, dopo il colpo di Stato di El Sisi e l’imprigionamento dell’ex Presidente Morsi, molti gruppi nomadi si sono uniti ai combattenti dell’Isis, mettendo a ferro e fuoco tutto il Sinai.
‘Palestina libera’ e pane per chi ha fame
Il terzo motivo, che induce le autorità egiziane a trattare la crisi di Gaza con molta attenzione, è quello che riguarda le sue ricadute sul piano sociale. In sostanza, c’è il timore che le rivendicazioni (e le manifestazioni) per la ‘Palestina libera’ possano costituire il nucleo per proteste di più vasta portata. Se c’era un momento più infelice perché scoppiasse un’altra guerra a Gaza, per l’Egitto era proprio questo. L’economia sta andando a rotoli e la struttura sociale sta in piedi, ma miracolosamente. O, meglio, grazie ai sussidi pubblici, che consentono agli egiziani di sfamarsi.
Voto sempre più difficile da manipolare
A dicembre si vota e Sisi sarà sicuramente rieletto Presidente, con una consultazione che l’Economist, spreca spazio a prevedere ‘truccata’. Tuttavia, il problema per lui non sono le urne, ma è la piazza. Lo scorso 20 ottobre, una manifestazione al Cairo a favore di Gaza si è velocemente trasformata in un tumulto, in cui la folla gridava ‘pane, pane’. Così, la proposta oscena del trasferimento forzato palestinese nel Sinai, cacciata dalla porta, è tornata dalla finestra. Nel senso che, l’Egitto non la farebbe mai, anche per quello che abbiamo detto.
Gigante coi piedi d’argilla
L’Egitto, però, ha disperato bisogno di quei soldi, che gli hanno proposto di ricevere in cambio della sua disponibilità. Ne ha bisogno perché è sull’orlo di un fallimento epocale e non è stato in grado di rispettare le ‘ricette’ imposte dal Fondo monetario internazionale. Questa situazione di fragilità economica, spiega anche secondo molti osservatori, la debolezza geopolitica che il Cairo sta dimostrando nella crisi attuale, dove l’Egitto appare più spettatore che protagonista.
Egitto sull’orlo del fallimento
Altri attori, piccoli ma ricchi -il Qatar, gli Emirati- hanno preso in mano la situazione, mentre El Sisi è obbligato a chiudere il varco di Rafah, piazzandogli a ridosso i carri armati. Timore degli israeliani? No, con loro va assolutamente d’accordo, anzi secondo l’Economist si preoccupa addirittura di non indispettirli. La paura, invece, è che gli piovano addosso quasi due milioni di profughi palestinesi, che rappresenterebbero un’emergenza ingestibile. Se mettete nel conto altri 400 mila profughi sudanesi entrati in Egitto nell’ultimo anno, questa ulteriore massa di rifugiati sarebbe il colpo finale per le esangui casse dello Stato.
Un’altra biblica fuga d’Egitto, ma verso l’Europa
Con un’inflazione alimentare al 70%, con i sussidi per il prezzo del pane che dovrebbero essere eliminati, col turismo in crisi e la sterlina egiziana in caduta libera, la guerra di Gaza potrebbe aver provocato uno scenario da incubo: due milioni di palestinesi sfollati in Egitto. E una buona parte dei 106 milioni di egiziani a cercare fortuna in Europa.
Piero Orteca
25/11/2023 https://www.remocontro.it/
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