Pensieri e silenzi di chi non ha più parola

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Provo a tradurre in un ragionamento compiuto sprazzi di discussione – che in più momenti negli ultimi mesi mi sono trovato a partecipare – con persone di diverse fasce sociali. Il minimo comune denominatore sta nella stanchezza di parlare di politica in un Paese in frantumi, nelle istituzioni, nei diritti di lavoro e di salute, nella sicurezza di una convivenza civile con gli eredi degli italiani emigrati all’estero nei primi novecento, sia in atto, da decenni, un vero e proprio colpo di stato senza violenza militare, ma con le stesse vittime e la riduzione drastica delle libertà politiche e civili, del classico colpo di stato messo in opera in pochi giorni?

L’unica differenza sta nel sistema d’informazione: nel classico colpo di stato, giornali e televisioni passano sotto il controllo dei golpisti un minuto dopo la presa del potere, in questo golpe tricolore, l’informazione, via via trasformatasi in comunicazione a tavolino, ne è stata propellente e complice, ha distorto la realtà, mistificato le notizie disorientando la gente comune, quella che vede a fatica la strada della sopravvivenza dignitosa.

Con giornali (quasi tutti) e TV (tutte) che da strumenti di informazione si sono trasformati solamente in mezzi di comunicazione di interessi, possiamo ancora ritenere che la libertà di stampa sia sacra se proprio chi se ne occupa persegue

l’obiettivo di deformare la realtà dei crudi fatti? In verità la grande editoria finge di difendere la libertà di stampa per ottimizzare un disegno di omissione. Le balle che ci raccontano tv e giornali ci disegnano sprazzi di vita di un’Italia, di un’Europa, di un mondo, inesistente.

La comunicazione televisiva e cartacea ci forma, plasmandoci in individui solitari che camminano dentro una massa, ipocritamente declinata come “popolo” solo se e quando vanno nella direzione indicata da questi altoparlanti di chi oggi comanda.

Accomodarsi in una virtuale poltrona e sentenziare masochisticamente: “Mi rendo conto della situazione ma che ci posso fare?”. La risposta, sta nel riuscire a vedere quel che ci vogliono nascondere. E’ vero, non siamo noi a decidere i tempi di lotta, spesso riusciamo solo a dare una risposta post danno, ma nel contempo dovremmo essere consapevoli che dobbiamo attivamente “sporcarci le mani”, perché comunque ce le sporchiamo col silenzio, dimenticando la nostra condizione materiale che sui grandi numeri ci dice che la ricchezza è detenuta dall’1% della popolazione mondiale.

Così ci mantengono inconsapevoli del ruolo assegnatoci, rendendoci incapaci di comprendere mentre noi siamo convinti di sapere tante cose facilitati dalla mole a getto continuo di notizie che ci regalano come farmaci senza “bugiardino”

Ogni giorno verifichiamo uno stato di prostrazione generale crepato solo da atti di maniacale apparente benessere, ingolfandoci la mente e denutrendoci delle capacità di discernere il vero dal falso (strategia delle fake news). Ora, considerati e trattati da idioti e schiavi produttivi delle loro merci avariate, quindi popolo inferiore perché incapace di parola appropriata e movimento adeguato alla ribellione. Per amalgamare definitivamente quest’opera di schiavizzazione moderna c’è bisogno di farci sentire in colpa, di essere noi stessi i responsabili del nostro stato d’inferiorità sociale e culturale. Privarci del sapere e quindi del diritto alla scuola prima e poi all’università rappresenta il primo delitto.

Come fuggire da questo lager invisibile come caseggiato di morte ma visibile come panzer velocissimo nel calpestarci?
Intanto entriamo nell’ordine d’idee che siamo capaci di pensare e di agire. E torniamo capaci di pensare, di volere e agire sulla materialità delle nostre condizioni, iniziando questa nostra riconversione di soggetti produttivi di azione concreta, e non solo di lamenti e indignazione, su fatti concreti come la nostra condizione lavorativa e pretendiamo da noi stessi, prima ancora che dai nostri rappresentati sindacali, una ricognizione nel nostro essere portatori di bene comune con la nostra professionalità e disponibilità a prenderci cura dei nostri simili.

Questo ricostruirci come soggetti pensanti non deve essere monco ed egoistico, ma deve valere anche fuori dal mondo del lavoro quando relazioniamo con qualunque nostro simile, a prescindere dalla provenienza territoriale, dal colore e, per i credenti, dalla religione.

L’apparente stato di benessere non ha nulla a che fare con il vivere la quotidianità del lavoro. Un mondo del lavoro vissuto in forma individuale senza interesse per una serie di lotte che lo hanno scosso, mentre le condizioni peggiorano e la disoccupazione dilaga amplificando sconforto e rassegnazione, un disinteresse, accentuato dalla disinformazione e mala-informazione, che impedisce di raggiungere la consapevolezza del fatto che quando i lavoratori si mobilitano riescono anche a fermare la corsa verso il dirupo della disperazione e a riflettere sulle divisioni che ci mettono gli uni contro gli altri.

Nella logica del profitto su ogni cosa, materiale e umana, l’arrivo degli immigrati è utilizzato, da alcuni decenni, come un’arma di distrazione di massa dai problemi reali che affliggono la gente comune alle prese con il cappio della disoccupazione, dei salari da fame, degli sfratti, degli ospedali chiusi o ridotti a luoghi di non cura dalle politiche governative.

Siamo arrivati a portare al governo princìpi qualunquisti, in base ai quali ognuno pensa ai propri interessi calpestando i propri simili, senza riflettere sul fatto che quali che siano le nostre origini, siamo tutti esseri umani.

Quanto sta succedendo dovrebbe preoccupare le menti libere da egoismi estremisti, pare che il virus del menefreghismo stia invadendo anche individui che non hanno nulla da difendere, anche le persone più povere. Difendersi da chi? La logica e l’intelligenza, porterebbero a individuare il nemico in chi ha troppo, ma il condizionale è d’obbligo di fronte alla sconfortante realtà che vede coinvolti nella spirale del razzismo, persone di diversa cultura, origine e censo, tutti questi seguono il messaggio mediatico del capo e/o dei capetti locali, individui che negano, nei fatti, l’evidenza assolvendo le proprie responsabilità nella situazione creatasi con il loro voto.

La difficoltà a comprendere da parte di milioni di essere indotti a far da complici di un sistema politico che ci porta a considerare nemici coloro che stanno peggio, è una questione di coscienza individuale, utile a interrompere il circolo vizioso che porta a essere trattati come strumenti che rinforzano il suo potere politico ed economico quando, invece, non potrebbero più continuare a raccontare la favola ormai trentennale della scarsità delle risorse e quindi dell’obbligo e dovere civile all’austerità.

Questo velenoso racconto ha modificato la nostra stessa percezione della realtà, quella realtà nascosta dalla mistificazione della comunicazione televisiva e stampata, totalmente nelle loro mani, che ci parla di un’immensa ricchezza prodotta ma non distribuita al popolo sotto la soglia del benessere.

L’unica reazione che si registra in ampie fasce popolari è l’apatia, la passività che porta a disarmarsi intellettualmente e interiormente, cadendo in un oblio che li inibisce nella personalità e nella parola autonoma, e contemporaneamente capaci solo di produrre violenza inconsulta verso chi sta peggio di loro, cadendo in un masochismo sociale che li arruola come servitù dei loro carnefici al potere nelle istituzioni e nell’economia. Lo stato di prostrazione conseguente alle difficoltà in una società guidata, con le politiche economiche e con le guerre, verso la depressione con l’aumento delle diseguaglianze e delle ingiustizie sociali generano ansia, timori e bisogno di compensazione.

La stessa risposta emotiva individuale, seppur dentro spazi vissuti intimamente come “rifugio collettivo” determina indifferenza verso le proprie condizioni materiali, come fosse un destino. Viene meno la rabbia, si tende ad attutire i conflitti, in una logica di conforto predestinato all’offerta del bene a prescindere. Inconfutabile è il risultato della rinuncia allo spirito critico verso lo stato di cose presenti, all’irriverenza verso i poteri politici, divenuti anch’essi religiosi per la loro lontananza dai problemi reali.

Quanto sia preoccupante lo stato depressivo degli italiani lo appuriamo nel silenzio col quale accolgono lo smantellamento del diritto al bene primario, quella sorgente di vita e fonte di benessere psicofisico rappresentata dal Servizio Sanitario Nazionale. E certamente non possiamo giustificare questo silenzio con l’ignoranza, causa emarginazione dalle capacità di capire le decisioni politiche ed economiche sempre più lontane dai cittadini, perché la ribellione è istintiva di fronte al pericolo di salute e della stessa vita.

Ad oggi, spesso la risposta indotta dai messaggi della politica vincente è stata quella di prendersela con chi lavora. E’ pur vero che chi lavora in sanità, e in tutti servizi pubblici, non ha saputo reagire adeguatamente. Ma questo decennale accanirsi sul loro corpo, già debellato da scelte sbagliate del sindacato è delinquenza politica.

E’ tardi per ribellarsi e “arrestare” questi malfattori, prima che volontariamente chiediamo per noi un Trattamento Sanitario Obbligatorio con autodiagnosi di incapacità di intendere e di volere?
Non è mai troppo tardi!

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