“Per non dimenticare Sabra e Chatila”. Anche quest’anno la carovana di solidarietà

sabra-et-shatilafoto Alkemia“Per non dimenticare Sabra e Chatila – 2019”.
“Anche quest’anno facciamo appello all’opinione pubblica italiana, ai democratici, agli uomini e alle donne di cultura, alla galassia delle Ong, ai politici, ai semplici cittadini – si legge in una nota dell’associazione Per non dimenticare Sabra e Chatila – perché vengano in Libano, dove i nostri compagni di Beit Atfal Assomoud sono già impegnati nella programmazione dell’evento, insieme ad altre delegazioni di paesi europei e non, allo scopo di:

– stare accanto ai palestinesi durante le celebrazioni del 37° anniversario del massacro

– conoscere la realtà di un popolo rifugiato

– chiedere alle autorità e alle forze politiche libanesi, con le quali il nostro paese ha ottimi rapporti di cooperazione, che venga fatto ogni sforzo per consentire ai palestinesi di avere una vita dignitosa

– ricordare che il Diritto al Ritorno è sancito dalla legge internazionale ma disatteso

– chiedere la fine delle aggressioni contro le popolazioni di Gaza e Cisgiordania e la fine dell’occupazione militare della Palestina, per ripristinare i confini stabiliti nel ’67 dalle leggi internazionali e ridare a Gerusalemme lo status di città libera e multiconfessionale

– denunciare l’ebraicizzazione di Israele, l’espandersi delle colonie, le politiche di Trump e Netanyahu che segnano la fine dell’ipotesi “due popoli due Stati” e che rappresentano la punta più alta del programma neocoloniale del sionismo, eliminando il diritto al ritorno dei non ebrei, dei palestinesi nati in quelle terre.

Il viaggio avrà luogo dal 14 al 21 settembre 2019

Per partecipare è necessario:

1) contattare l’associazione “Per non dimenticare Sabra e Chatila ONLUS” (i recapiti sono indicati in fondo*) per chiedere di partecipare, fornendo queste indicazioni: nome, cognome, città, associazione di appartenenza (nel caso si partecipi per conto di un’associazione), recapito mail e contatto telefonico;

2) attendere la nostra conferma alla vostra richiesta di iscrizione (i posti sono limitati);

3) avuta la conferma, versare entro il 31 maggio la quota di partecipazione al viaggio di 150,00 euro (comprendente i mezzi di trasporto durante la settimana in Libano e un contributo per i servizi di traduzione) con bonifico sul conto corrente bancario che vi comunicheremo.

N.B. in caso di rinuncia al viaggio prima del 15 giugno la quota di partecipazione verrà restituita nella misura di 130,00 euro; per rinuncia dopo quella data la quota di partecipazione non verrà restituita;

4) l’associazione “Per non dimenticare Sabra e Chatila” NON si occuperà dell’acquisto dei biglietti aerei; ognuno provvederà autonomamente al proprio volo.

*Recapiti utili:

Alessia Leonello (347 7799884 – alessialeo@hotmail.com)

Marta Turilli (340 9254858 – martaturilli@yahoo.it)

Mirca Garuti (339 3758378 – mirca_garuti@yahoo.it)

Goretta Bonacorsi (349 2124576 – gorettina@libero.it)

3/5/2019

Il massacro di Sabra e Shatila[1] (in in araboمذبحة صبرا وشاتيلا‎, madhbaḥa Ṣabrā wa-Shātīlā) fu l’eccidio, compiuto dalle Falangi libanesi e l’Esercito del Libano del Sud, con la complicità dell’esercito israeliano, di un numero di civili compreso fra 762 e 3.500, prevalentemente palestinesi e sciiti libanesi. La strage avvenne fra le 6 del mattino del 16 e le 8 del mattino del 18 settembre 1982 nel quartiere di Sabra e nel campo profughi di Shatila, entrambi posti alla periferia ovest di Beirut.[2]

Indice

Antefatti

All’inizio di giugno del 1982 gli israeliani iniziarono l’assedio di Beirut e accerchiarono i 15.000 combattenti dell’OLP e dei suoi alleati libanesi e siriani all’interno della città. All’inizio di luglio, il presidente degli USA Ronald Reagan inviò Philip Habib, affiancato da Morris Draper (anch’egli in veste di inviato speciale per il Medio Oriente del Presidente Ronald Reagan nel corso della crisi del Libano[3]), con l’incarico di risolvere la crisi. Cominciarono lunghe ed estenuanti trattative rese assai difficili dal fatto che gli israeliani e gli statunitensi non vollero discutere direttamente con i palestinesi, e i palestinesi asserragliati nella città non vollero abbandonarla perché temevano ritorsioni dei soldati israeliani e dei loro alleati delle Falangi Libanesi.

Habib ottenne faticosamente dal Primo Ministro israeliano Begin l’assicurazione che i suoi soldati non sarebbero entrati a Beirut Ovest e non avrebbero attaccato i palestinesi nei campi profughi; ottenne l’assicurazione del futuro presidente libanese, Bashir Gemayel (Giumayyil, figlio di Pierre Gemayel, uno dei fondatori delle Falangi), che i falangisti non si sarebbero mossi, e infine ottenne l’assicurazione da parte del ministero della difesa degli USA che ci sarebbe stato un contingente militare USA a garantire gli impegni presi. L’accordo fu firmato il 19 agosto.

Il 20 agosto, alla vigilia dell’imbarco dei primi miliziani palestinesi, che cominciano ad evacuare la città, venne pubblicata negli USA la quarta clausola dell’accordo per la partenza dell’OLP, che così recita:

«I Palestinesi non combattenti, rispettosi della legge, che siano rimasti a Beirut, ivi comprese le famiglie di coloro che hanno abbandonato la città, saranno sottoposti alle leggi e alle norme libanesi. Il governo del Libano e gli Stati Uniti forniranno adeguate garanzie di sicurezza … Gli USA forniranno le loro garanzie in base alle assicurazioni ricevute dai gruppi libanesi con cui sono stati in contatto»
(American Foreign Policy, Current documents, 1982, Dipartimento di Stato, Washington D.C.)

Yasser Arafat, preoccupandosi lo stesso per la sorte dei profughi palestinesi, insistette sull’invio di una forza multinazionale che garantisse l’ordine. La richiesta ufficiale di intervento di una forza multinazionale di interposizione venne consegnata il 19 agosto 1982 dal ministro degli esteri libanese Fu’ad Butros agli ambasciatori di Stati UnitiItalia e Francia. Il piano, fatto accettare dal mediatore USA Philip Habib ai libanesi, palestinesi e israeliani prevedeva l’intervento di 800 soldati statunitensi, 800 francesi e 400 italiani per garantire l’ordine durante il ritiro delle forze dell’OLP da Beirut. Il mandato della forza multinazionale era di un mese, dal 21 agosto al 21 settembre, e avrebbe potuto essere rinnovato su richiesta dei libanesi in caso di necessità.

Tutti i combattenti palestinesi sarebbero dovuti partire entro il 4 settembre, e in seguito la forza multinazionale avrebbe collaborato con l’esercito libanese per portare una sicurezza durevole in tutta la zona delle operazioni. Il 21 agosto arrivò a Beirut il primo contingente internazionale mandato dai francesi e nel giro dei due giorni successivi anche i soldati italiani e americani presero posizione nella città. A questo punto, Arafat acconsentì ad abbandonare Beirut insieme ai suoi 15.000 guerriglieri.

La situazione precipita

Il primo giorno di settembre, l’evacuazione dell’OLP dal Libano fu dichiarata terminata. Due giorni dopo, le armate israeliane avanzarono e circondarono i campi-profughi palestinesi, venendo meno al patto siglato con gli eserciti cosiddetti “supervisori”, che però non fecero nulla per fermarle. Caspar Weinberger, segretario alla difesa americana, ordinò ai marines di abbandonare Beirut il 3 settembre.

Esattamente lo stesso giorno le milizie cristiano-falangiste, alleate degli israeliani, presero posizione nel quartiere di Bir Hassan, ai margini dei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila. La partenza degli statunitensi comportò automaticamente quella dei francesi e degli italiani. Il 10 settembre, gli ultimi soldati partirono da Beirut, 11 giorni prima di quanto sarebbe dovuto accadere. Il giorno dopo, l’allora Ministro della Difesa Ariel Sharon contestò la presenza di 2000 guerriglieri dell’OLP rimasti in territorio libanese; i palestinesi negarono il fatto.

Il premier israeliano Menachem Begin invitò il neo-presidente Gemayel a Nahariya per fargli firmare un trattato di pace con Israele, anche se alcune fonti[4][fonte non esaustiva]sostengono che Begin chiese a Gemayel di permettere la presenza delle truppe israeliane nel sud Libano, con a capo Sa’d Haddad, ex capo dell’Esercito del Sud-Libano; a Gemayel fu anche chiesto di dare la caccia ai 2000 guerriglieri palestinesi la cui presenza era stata denunciata da Sharon. Gemayel, anche a causa dei crescenti rapporti di alleanza con la Siria, rifiutò e non firmò il trattato.

Il 14 settembre 1982, Gemayel fu ucciso in un attentato al quartier generale della Falange nella zona cristiana di Beirut, insieme ad altri 26 dirigenti falangisti, organizzato dai servizi segreti siriani con l’aiuto dei palestinesi. Il giorno seguente le truppe israeliane invasero Beirut Ovest. Con quest’azione, Israele ruppe l’accordo con gli USA che prevedeva il divieto di entrare in Beirut Ovest, gli accordi di pace con le forze musulmane intervenute a Beirut e quelli con la Siria. Nei giorni successivi il premier Begin definì l’azione come una contromisura per “proteggere i rifugiati palestinesi da eventuali ritorsioni da parte dei gruppi cristiani”, mentre pochi giorni dopo Sharon affermò al parlamento che “l’attacco aveva lo scopo di distruggere l’infrastruttura stabilita in Libano dai terroristi”.

Il massacro

In cerca di vendetta per l’assassinio di Gemayel e coordinandosi con le forze israeliane dislocate a Beirut ovest[5], le milizie cristiano-falangiste di Elie Hobeika alle 18:00 circa del 16 settembre 1982, entrano nei campi profughi di Sabra e Shatila. Il giorno prima, l’esercito israeliano aveva chiuso ermeticamente i campi profughi e messo posti di osservazione sui tetti degli edifici vicini. Le milizie cristiane lasciarono i campi profughi solo il 18 settembre. Il numero esatto dei morti non è ancora chiaro. Il procuratore capo dell’esercito libanese in un’indagine condotta sul massacro, parlò di 460 morti, la stima dei servizi segreti israeliani parlava invece di circa 700-800 morti. Secondo il cronista Robert Fisk il massacro degli arrestati rinchiusi nello stadio Citè Sportive continuò anche nei giorni successivi, occultato nelle fosse comuni[6].

David Lamb scrive sul quotidiano Los Angeles Times del 23 settembre 1982:

«Alle 16 di venerdì il massacro durava ormai da 19 ore. Gli Israeliani, che stazionavano a meno di 100 metri di distanza, non avevano risposto al crepitìo costante degli spari né alla vista dei camion carichi di corpi che venivano portati via dai campi.»

Elaine Carey scrive sul quotidiano Daily Mail del 20 settembre 1982:

«Nella mattinata di sabato 18 settembre, tra i giornalisti esteri si sparse rapidamente una voce: massacro. Io guidai il gruppo verso il campo di Sabra. Nessun segno di vita, di movimento. Molto strano, dal momento che il campo, quattro giorni prima, era brulicante di persone. Quindi scoprimmo il motivo. L’odore traumatizzante della morte era dappertutto. Donne, bambini, vecchi e giovani giacevano sotto il sole cocente. La guerra israelo-palestinese aveva già portato come conseguenza migliaia di morti a Beirut. Ma, in qualche modo, l’uccisione a sangue freddo di questa gente sembrava di gran lunga peggiore»

Loren Jankins scrive sul quotidiano Washington Post del 20 settembre 1982:

«La scena nel campo di Shatila, quando gli osservatori stranieri vi entrarono il sabato mattina, era come un incubo. In un giardino, i corpi di due donne giacevano su delle macerie dalle quali spuntava la testa di un bambino. Accanto ad esse giaceva il corpo senza testa di un bambino. Oltre l’angolo, in un’altra strada, due ragazze, forse di 10 o 12 anni, giacevano sul dorso, con la testa forata e le gambe lanciate lontano. Pochi metri più avanti, otto uomini erano stati mitragliati contro una casa. Ogni viuzza sporca attraverso gli edifici vuoti – dove i palestinesi avevano vissuto dalla fuga dalla Palestina alla creazione dello Stato di Israele nel 1948 – raccontava la propria storia di orrori. In una di esse sedici uomini erano sovrapposti uno sull’altro, mummificati in posizioni contorte e grottesche.»

Testimonianza di Ellen Siegel, cittadina ebrea americana, infermiera volontaria:[7]

«In cima all’edificio soldati israeliani guardavano verso i campi con i binocoli. Miliziani libanesi arrivarono in una jeep e volevano portare via un’assistente sanitaria norvegese. Ci rivolgemmo a un soldato israeliano che disse ai miliziani di andare via. Infatti partirono. Alle 11.30 circa gli israeliani ci condussero a Beirut Ovest. Sedetti sul sedile anteriore di una jeep della IDF. L’autista mi disse: «Oggi è Rosh haShana. Vorrei essere a casa con la mia famiglia. Credete che mi piaccia andare porta a porta e vedere donne e bambini?» Gli chiesi quante persone avesse ucciso. Rispose che non era affar mio. Disse anche che l’esercito libanese era impotente, erano stati a Beirut per anni e non avevano fatto nulla, che Israele era dovuta arrivare per fare tutto il lavoro.»

Condanne del massacro

Il 16 dicembre 1982, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite condannò il massacro, definendolo “un atto di genocidio” (risoluzione 37/123, sezione D).[8] La definizione fu approvata con 123 voti favorevoli, 22 astenuti e nessun contrario.[9][10] Tuttavia, in sede di voto, i rappresentanti di Canada e Singapore espressero dubbi sull’utilizzo del termine “genocidio” rispetto al caso in specie.[10]

L’8 febbraio 1983, la Commissione Kahan giunse alla conclusione che i diretti responsabili dei massacri erano state le Falangi libanesi, sotto la guida di Elie Hobeika. La stessa Commissione ammise anche la “responsabilità indiretta” del Primo Ministro Menachem Begin (per aver sostanzialmente ignorato quanto stava accadendo e non aver esercitato la dovuta pressione sul Ministro della Difesa e sul Capo di Stato Maggiore affinché intervenissero a fermare il massacro), del Ministro della Difesa Ariel Sharon (per aver gravemente sottovalutato le conseguenze di un eventuale intervento falangista all’interno dei campi profughi e per non aver ordinato le adeguate misure per prevenire o ridimensionare il massacro), del Capo di Stato Maggiore Rafael Eitan (per non aver ordinato le adeguate misure per prevenire o ridimensionare il massacro) e di altri ufficiali. La Commissione suggerì inoltre le dimissioni di Sharon, la non riconferma del Direttore dei servizi segreti dell’esercito Yehoshua Saguy e la rimozione di tutti gli altri ufficiali.[11]

Nel giugno del 2001, 40 parenti delle vittime del massacro denunciarono Sharon in una corte belga per crimini di guerra.[12] Il caso portò a dure ripercussioni nelle relazioni fra Belgio e Israele e fu fra le ragioni che portò alla revisione della cosiddetta “legge sul genocidio” in senso restrittivo. Il 24 settembre 2003, la Corte di Cassazione del Belgio dichiarò il non luogo a procedere perché nessuno dei ricorrenti aveva la nazionalità belga (condizione richiesta dalla nuova versione della legge).[13]

Elie Hobeika non fu mai processato e lungo gli anni novanta fu più volte deputato e anche ministro in vari Governi libanesi, avvicinandosi sempre più alla Siria. Morì il 24 gennaio 2002 in un attentato, dopo essersi dichiarato disponibile a deporre nel processo belga a Sharon e a chiarire le proprie responsabilità nel massacro: “Per 19 anni ho portato il peso di accuse mai dimostrate senza aver l’opportunità di provare la mia innocenza”.[14]

Filmografia

Note

  1. ^ Talora questo secondo toponimo viene trascritto “alla francese” Chatila.
  2. ^ Malone, p. 374
  3. ^ il suo necrologio, pubblicato dal The Washington Post del 26 aprile del 2005.
  4. ^ Sharon’s war crimes in Lebanon: the record Archiviato il 28 ottobre 2004 in Internet Archive., dal sito World Socialist Web Site
  5. ^ First Lebanon War: The Kahan Commission of Inquiry, Jewish Virtual Library, 8 febbraio 1983. URL consultato il 7 aprile 2014.
  6. ^ Robert Fisk, Cronache mediorientali, 2ª ed., Il saggiatore, collana Saggi tascabili, 1180 pagine, copertina flessibile, 27 agosto 2009, ISBN 8856500493
  7. ^ Si veda “Sabra and Shatila: A somber anniversary”, accesso 12 gennaio 2014Archiviato il 13 gennaio 2014 in Internet Archive..
  8. ^ The situation in the Middle East – A/RES/37/123Assemblea generale delle Nazioni Unite, 16 dicembre 1982. URL consultato il 13 gennaio 2014.
  9. ^ Kuper, p. 37
  10. ^ Salta a:a b Schabas, p. 455
  11. ^ First Lebanon War: The Kahan Commission of InquiryJewish Virtual Library, 8 febbraio 1983. URL consultato il 13 gennaio 2014.
  12. ^ (ENJulie Flint, Vanished victims of Israelis return to accuse Sharon, in The Observer, 25 novembre 2001. URL consultato il 13 gennaio 2014.
  13. ^ (ENUniversal Jurisdiction Update (PDF), Redress, dicembre 2003. URL consultato il 13 gennaio 2014 (archiviato dall’url originale il 24 settembre 2015).
  14. ^ Medio Oriente. Assassinato capo delle milizie maronite. Senatore belga: era minacciato per rivelazioni su Sabra e Shatila, in RaiNews24, 24 gennaio 2002. URL consultato il 13 gennaio 2014 (archiviato dall’url originale il 13 gennaio 2014).

Bibliografia

Voci correlate

Collegamenti esterni

LA STORIA

Palestinesi (da “Palestina“, a sua volta dal greco Palaistine, in araboالفلسطينيون‎, al-filasīniyyūn) è un etnonimo per indicare un popolo arabofono, di origine araba e semitica, dell’area geografica definita come Palestina.[8][9][10][11][12][13][14][15][16] Nonostante l’esodo del 1948, circa metà dei palestinesi nel mondo continua a vivere negli stati di Palestina e Israele all’interno della Palestina storica,[1] dove i palestinesi costituiscono circa metà della popolazione (mentre l’altra metà è composta da ebrei).[17]

Indice

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Storia

Gli arabi residenti in Palestina cominciarono ad usare diffusamente il termine “palestinese” per indicare il concetto nazionalista di un popolo palestinese nel periodo precedente alla prima guerra mondiale.[13] Nei diciannove giornali fondati in Palestina tra il 1908 e il 1914, erano frequenti i riferimenti a una peculiare nazione palestinese (al-umma al-filistiniyya in arabo), tra l’altro in contrapposizione all’immigrazione sionista percepita come una minaccia all’identità di tale nazione. Elementi costitutivi di tale identità erano la provenienza dalla regione a ovest del fiume Giordano nota da secoli in arabo come Filastin e considerata dai musulmani terra santa(al-Ard al-Muqaddasa), l’attaccamento a un particolare villaggio e l’appartenenza a uno specifico clan familiare, l’uso di un particolare dialetto arabo (arabo palestinese), la religione (in maggioranza l’islam sunnita, ma con minoranze cristiane, sciite e druse) e gli usi locali. Al contempo, la nazione palestinese era sentita come parte del mondo arabo e del Bilad al-Sham (“Grande Siria”) in particolare.[18] Durante il periodo del mandato britannico della Palestina, il termine “palestinese”, sebbene fosse usato anche per riferirsi a ogni cittadino del mandato (inclusi gli ebrei; la brigata ebraica -composta esclusivamente da ebrei- che ha combattuto durante la II Guerra Mondiale a fianco degli alleati, inquadrata nell’esercito britannico, venne allora chiamata Brigata Palestinese[senza fonte]) diventerà poi riferito alla popolazione arabofona quando riferito a una specifica identità nazionale (anziché alla cittadinanza), e apparve frequentemente in libri, riviste e giornali arabi per tutto il periodo del mandato.[19] Nel dicembre 1920, gli arabi palestinesi in un congresso tenutosi a Haifa dichiararono che la Palestina era un’entità araba autonoma e rifiutarono le rivendicazioni ebraiche sulla Palestina.[20] Dopo l’esodo del 1948, e ancor più dopo la Guerra dei sei giorni nel 1967, il termine è venuto a significare non solo un luogo di origine, ma anche il senso di un comune passato e futuro da attuarsi in forma di uno Stato-nazione palestinese, lo Stato di Palestina, da situarsi su CisgiordaniaStriscia di Gaza e Gerusalemme Est.[20][21][22][23] Controversie sull’uso politico del termine sono sorte spesso, in base ad alcune dichiarazioni di leader palestinesi come Zuhayr Muhsin.[24]

Nel diritto internazionale

Il popolo palestinese è rappresentato davanti alla comunità internazionale dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina(OLP), nata nel 1964 e riconosciuta dall’ONU come rappresentante del popolo palestinese nel 1974[25]. Nel 2012, l’ONU ha anche riconosciuto lo Stato di Palestina proclamato dall’OLP nel 1988.[26] In seguito agli accordi di Oslo tra Israele e OLP è stato istituito un organismo di auto-governo palestinese ad interim su parte della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, detto Autorità Nazionale Palestinese. Essa ha organi legislativi con poteri sovrani, in particolare il Consiglio Legislativo Palestinese (o Parlamento palestinese) con sede a Ramallah, i cui membri sono eletti a suffragio universale dagli abitanti dei territori palestinesi.

Demografia

Il totale della popolazione palestinese in tutto il mondo era stimato dall’Ufficio Centrale di Statistica dello Stato di Palestina in 12,37 milioni di persone alla fine del 2015: 4,75 milioni nello Stato di Palestina (di cui 2,9 milioni in Cisgiordania e 1,85 milioni nella Striscia di Gaza), 1,47 milioni in Israele (dove sono detti cittadini arabi di Israele), 5,46 milioni in Paesi arabi (soprattutto in GiordaniaSiria e Libano) e 685.000 nel resto del mondo.[1] Al 1º gennaio 2015, 5.149.742 erano registrati dall’UNRWA come rifugiati palestinesi in GiordaniaSiriaLibanoCisgiordania e Striscia di Gaza; di questi molti risiedevano nei campi-profughi palestinesi.[27]

I palestinesi sono prevalentemente musulmani sunniti, anche se vi è una significativa minoranza sciita concentrata soprattutto nel sud del Libano. Gli appartenenti alla comunità cristiana sono localizzati principalmente nei distretti di Betlemme, Ramallah, Gerusalemme e nella regione della Galilea all’interno dello stato di Israele.

DA  https://it.wikipedia.org

 

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