Per un Servizio sanitario nazionale efficace, equo e sostenibile

sanità crepata

L’onda neo-liberista, generata dalle politiche di Reagan e Thatcher agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, non ha risparmiato i sistemi sanitari, che sono diventati terreno privilegiato per le scorribande del mercato (distruzione del settore pubblico, privatizzazioni, etc): dapprima nei paesi a basso e medio reddito (con il supporto determinante della Banca Mondiale) e in seguito (crisi finanziaria del 2008 e conseguenti politiche di austerità) nei paesi più ricchi dotati di servizi sanitari nazionali. In Grecia, com’è tristemente noto, gli effetti sono stati devastanti; ma sono stati coinvolti anche paesi con sistemi sanitari molto simili a quello italiano. In Spagna nel 2012 il sistema universalistico è stato sostituito con uno assicurativo, in Inghilterra, con una legge entrata in vigore nel 2013, è stata abolita la classica infrastruttura pubblica (equivalente alle nostre Asl) e privatizzata la produzione dei servizi.

In Italia gli effetti della crisi sulla sanità si sono fatti sentire a partire dal 2011. Il nostro paese entrava sotto il controllo della Bce che dettava le dure regole dell’austerità tra cui le “privatizzazioni su larga scala dei servizi pubblici locali” e la “riduzione significativa dei costi del pubblico impiego” [Lettera della Bce al Governo italiano del 5 agosto 2011]. Da allora, il sistema sanitario – per ammissione della Ragioneria dello Stato – è stato il settore pubblico maggiormente colpito dalle politiche di austerità, con una riduzione della spesa sanitaria dello 0,1% l’anno dal 2010 al 2016 (come certificato dalla stessa Ragioneria dello Stato). È impietoso e desolante notare come tutto ciò abbia fatto aumentare la distanza dagli altri paesi europei, come Germania, Francia e Regno Unito, nella disponibilità di risorse pubbliche per la sanità, come dimostra chiaramente la seguente figura:

Il definanziamento del Servizio sanitario nazionale (Ssn) è stato particolarmente selettivo e ha penalizzato principalmente il personale, attraverso il blocco del turnover e dei contratti dei dipendenti, la dilatazione del lavoro precario e l’esternalizzazione dei servizi. Di tutto ciò hanno sofferto – e soffrono sempre di più – la qualità e la pronta disponibilità dei servizi per i cittadini, ai quali oltretutto è richiesto il pagamento di un’odiosa e spesso salata tassa di accesso ai servizi, quale è diventata ormai il “ticket”. Con due ordini di conseguenze:

  1. La rinuncia a curarsi per milioni di cittadini a causa delle troppo lunghe liste di attesa, dei costi eccessivi, della distanza dal luogo di cura. Una rinuncia che ha colpito maggiormente (ma non solo) i gruppi più poveri della popolazione e le regioni meridionali.
  2. Il ricorso sempre più frequente dei pazienti al settore privato in diretta (e facile) competizione col settore pubblico sia sui tempi di attesa che sulle tariffe delle prestazioni.

A causa di ciò il Ssn negli ultimi anni ha progressivamente cambiato la sua natura e i suoi stessi obiettivi: garantire la tutela della salute fisica e psichica della popolazione “senza distinzione di condizioni individuali e sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio” (art.1, L. 833/78).

La nostra idea è che il cambiamento della natura del Ssn – complice la “crisi” (infatti “Quelli che si oppongono al welfare non sprecano mai una buona “crisi” – N. Klein) – sia stato decisamente voluto e scrupolosamente pianificato. Per ottenere il risultato si poteva intraprendere la strada legislativa, come in Spagna (assicurazioni) o in Inghilterra (privatizzazioni). Ma ciò richiedeva determinazione e coraggio politico. Si è invece preferita la strada del definanziamento, della progressiva distruzione del Ssn mediante asfissia, per generare la progressiva disaffezione dei cittadini nei confronti del sistema sanitario pubblico. Una ricetta non originale, teorizzata da N. Chomski con la seguente formula: “Tagli i fondi, assicurati che le cose non funzionino, fai arrabbiare le gente e consegnerai il sistema al settore privato”.

Intorno a questo disegno c’è stata una straordinaria e inedita convergenza d’interessi: dal mondo delle imprese sanitarie private for-profit (particolarmente florido in Lombardia e Lazio) a quello del cosiddetto terzo settore  (un tempo no-profit, ma con la nuova legge destinato a cambiare rapidamente pelle), dal mondo della cooperazione a quello assicurativo. Tutti accomunati da un’idea: come poter lucrare sull’inefficienza del servizio sanitario pubblico.

In questo fiorire del business della malattia (con iniziative tanto miserabili, quanto simboliche come quella della raccolta dei punti Coop per ottenere una visita medica)  spicca la questione assicurativa, ovvero la spinta verso la costruzione di un pilastro assicurativo privato. Prospettato nel 2008 da Maurizio Sacconi, ministro del governo Berlusconi, il pilastro assicurativo privato oggi riscuote entusiastiche adesioni bipartisan, con il sindacato a svolgere il ruolo di mosca cocchiera, con la diffusa pratica degli accordi integrativi aziendali.

Il mercato assicurativo di per se non è un male e – entro certi limiti – è compatibile con un servizio sanitario nazionale. Il problema nasce quando questo mercato sfrutta a proprio vantaggio l’inefficienza del Ssn e scommette sul suo fallimento, su una sua presunta ineluttabile insostenibilità, preparando con ciò un cambiamento radicale di sistema.

Per questi motivi noi ci opponiamo fermamente a questo disegno che ha come inevitabile conseguenza quella di creare un doppio binario assistenziale, ben noto in gran parte dei sistemi sanitari sudamericani: a) quello erogato dal sistema privato tramite il mercato assicurativo, per chi se lo può permettere, e b) quello fornito dal servizio pubblico, impoverito e inefficiente, per il resto della popolazione.

Noi chiediamo che si ponga fine al definanziamento “coatto” che ha condotto allo stremo il Ssn. Chiediamo quindi che al servizio sanitario pubblico siano garantite tutte le risorse umane, fisiche e tecnologiche necessarie al suo adeguato e appropriato funzionamento, allineando la spesa sanitaria pubblica nazionale alla media europea.

Chiediamo inoltre che il Governo non assecondi la tendenza dell’industria farmaceutica a ricavare il massimo profitto dai farmaci innovativi a danno dei pazienti com’è avvenuto nel recente caso dell’Epatite C e utilizzi tutti gli strumenti consentiti dalla normativa sui brevetti  (licenza obbligatoria e produzione statale di farmaci generici) per evitare che l’introduzione di nuovi farmaci non rappresenti un fattore di insostenibilità del sistema sanitario.

Chiediamo infine l’abolizione dell’odiosa tassa sulla malattia quale è diventato il ticket, restituendo ad esso la funzione originaria di deterrenza degli sprechi, attraverso un modesto contributo sulle prescrizioni farmaceutiche.

Battersi per il rispetto dell’Articolo 32 della Costituzione (“La salute come diritto fondamentale”) significa anche sostenere un’altra basilare funzione del Ssn, quella di rassicurazione della popolazione: in caso di malattia nessuno dovrà rinunciare alle cure a causa dei costi e nessuno dovrà andare in rovina a causa di una malattia. In questo senso il Ssn rappresenta un irrinunciabile strumento di coesione sociale e di lotta contro le diseguaglianze.

Fornire al servizio pubblico le risorse indispensabili per il suo funzionamento è la condizione necessaria per salvare il nostro Ssn, ma non è sufficiente.

Non è sufficiente perché l’attuale offerta dei servizi, e la loro organizzazione, non è adeguata, anzi è decisamente deficitaria, nei confronti dei bisogni reali della popolazione, così come sono stati ridisegnati negli ultimi decenni dalla transizione epidemiologica: aumento della longevità (ma anche degli anni trascorsi in non buona salute) e progressivo aumento della percentuale della popolazione affetta da malattie croniche, in primo luogo le patologie cardio-vascolari.  Oggi, com’è ampiamente noto, le malattie croniche assorbono circa l’80% dell’assistenza e delle prestazioni del Ssn. Ma si tratta di prestazioni in larga parte tardive, inappropriate e inefficaci (e per questo anche inutilmente costose) perché basate su interventi specialistici e ospedalieri e quasi mai integrati con l’intervento sociale. Prevale ancora un modello di cura tipico delle malattie acute, basato sull’attesa. Sull’attesa che si manifesti un episodio grave su cui intervenire – uno scompenso, una complicazione. È necessario un grande cambio culturale, prima ancora che organizzativo, che sostituisca l’approccio basato sull’attesa con uno basato sull’iniziativa, cioè sulla prevenzione.

Prevenzione “primaria” innanzitutto: intervenire perché le persone non si ammalino, agendo sui principali fattori di rischio delle malattie croniche, tra cui fumo, obesità, sedentarietà. Fattori di rischio comportamentali, legati si alle scelte individuali, ma fortemente condizionati dal contesto sociale e dalla condizione socio-economica. Così le malattie croniche sono diventate le specchio delle diseguaglianze sociali nella società: di malattie croniche si ammalano di più – e ne muoiono più precocemente – le fasce più svantaggiate della popolazione. Per questo il più efficace intervento di prevenzione delle malattie croniche è quello di ridurre le diseguaglianze socio-economiche, di lottare per la giustizia sociale e la tutela dell’ambiente (“la salute in tutte le politiche”).

Poi, altrettanto importanti sono la prevenzione “secondaria” e “terziaria“, ovvero: riconoscimento tempestivo delle patologie e della vulnerabilità, prevenzione degli scompensi e degli aggravamenti, il coordinamento e la continuità delle cure, la presa in carico sanitaria e sociale dei casi più complessi.

Tutto ciò è previsto nel modello assistenziale denominato “sanità d’iniziativa” che prevede la radicale riorganizzazione (e il potenziamento) delle cure primarie e dei servizi territoriali le cui principali caratteristiche sono le seguenti: a) il coinvolgimento delle comunità locali per la promozione di iniziative per la salute – es.: nel campo dell’attività fisica e della corretta alimentazione – e per la coesione sociale, vedi gruppi di auto-aiuto; b) una nuova organizzazione delle cure primarie basata sulla costituzione di team multiprofessionali e multidisciplinari, composti da medici di medicina genarale, infermieri, specialisti, fisioterapisti e assistenti stociali, per garantire un’assistenza “proattiva“, integrata e personalizzata; c) la centralità della persona è l’elemento basilare  del modello, che significa, tra l’altro, aiutare la persona a gestire la propria condizione e fare si che possa vivere “come se fosse sano” la sua malattia (o le sue malattie, dato che gran parte dei pazienti affetti da malattie croniche convive con due o più patologie – multimorbosita’). La sanità d’iniziativa – sperimentata da anni in diversi paesi e, parzialmente, in alcune regioni italiane, come la Toscana e l’Emilia Romagna – ha dimostrato di essere efficace, con la riduzione della mortalità e delle ospedalizzazioni, e per questo, anche in grado di ridurre i costi dell’assistenza.

Ciò che rende oggi eccessivamente costosa l’assistenza sanitaria è da una parte la multimorbosità da malattie croniche, dall’altra la maggiore condizione di vulnerabilità sociale, familiare e economica dei pazienti.

Per rendere il nostro Ssn equo e sostenibile è necessario dotarlo non solo di risorse adeguate, ma anche innovare le sue strategie e la sua organizzazione e lottare contro le diseguaglianze sociali che provocano diseguaglianze nella salute.

Questo documento è stato elaborato dal gruppo di lavoro di Libertà e Giustizia e Diritti a Sinistra di Firenze, in preparazione del convegno “Il servizio sanitario per tutti non è più sostenibile. FALSO”, con la partecipazione di Nerina Dirindin e Lorenza Carlassare, Istituto Stensen, Firenze, 9 Ottobre 2017

9/10/2017 www.saluteinternazionale.info

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