Per una critica dello smart working
Nel suo ultimo saggio “Contro lo smart working” (Editori Laterza, 2021) conduce una lucida analisi economica e sociale della legge che ha regolamentato il lavoro agile, cioè il c.d. smart working[1].
Ho definito questa analisi “economica e sociale” perché coglie appieno la riconfigurazione dei rapporti di forza tra lavoro e capitale che la normativa sul lavoro agile comporta. In questa breve recensione parlerò di “lavoro agile” anziché di “smart working”, perché a mio giudizio questa prima espressione rende maggiormente l’idea delle nuove potenzialità di sfruttamento del lavoro e di massimizzazione della produttività; inoltre, “smart working” costituisce un’espressione abusata dai media mainstream per conferire al lavoro agile una facciata accattivante, capace di occultare la violenta ristrutturazione neoliberista di cui questa tipologia lavorativa è frutto: l’Autore non manca di corrodere questo smalto ipocrita già dalle prime battute del libro.
La massimizzazione della produttività cui ho fatto cenno è tra le direttrici che animano la disciplina del lavoro agile: come l’Autore nota, restano fermi i limiti della durata massima dell’orario lavorativo giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge o dalla contrattazione collettiva; tuttavia, la prestazione lavorativa può essere eseguita senza vincoli di orario: ciò significa che la prestazione lavorativa, pur non potendo superare il monte ore stabilito per giorno e settimana, può essere spalmata nei momenti del giorno (e della notte!) individuati dal datore di lavoro. Viene così a configurarsi il mostro di una prestazione lavorativa frazionabile al minuto ed esigibile dal datore di lavoro quando a lui più aggrada e dunque nei momenti in cui l’organizzazione aziendale ha maggior bisogno di personale.
Rimuovere i vincoli di orario – chiosa l’Autore – espone al rischio di dover lavorare in regime di massima produttività e, a rigor di ferrea logica, al pericolo che la prestazione lavorativa venga valutata sulla base dei risultati raggiunti, a prescindere dal tempo impiegato (una simile valutazione della prestazione lavorativa è stata suggerita dal piano Colao), come se il lavoratore subordinato, alla stessa stregua di un cottimista, fosse tenuto a mettere a disposizione unità di prodotto lavorate anziché il proprio tempo.
Questo non è il solo male del lavoro agile: già porre il lavoratore in condizioni di isolamento lo induce più facilmente alla remissività e all’accondiscendenza verso il datore; senza contare poi il fatto che i dispositivi di cui il lavoratore si serve si prestano a un tracciamento invasivo e, correlativamente, la normativa in tema di lavoro agile non protegge il lavoratore da pratiche datoriali di controllo. Inoltre, seppure la legge prescriva l’adozione di misure necessarie per assicurare la disconnessione, non sono previste sanzioni per l’omissione di simili misure: il diritto alla disconnessione resta così lettera morta, anche considerato – come riporta l’Autore – che gli accordi tanto collettivi quanto individuali in materia di lavoro agile non assicurano l’effettività di questo diritto.
La condizione di isolamento del lavoratore in lavoro agile, unitamente all’incoercibilità del diritto di disconnessione e alla possibilità del controllo datoriale, rischia di aggravare il fenomeno degli straordinari non autorizzati ma richiesti in via di fatto e non retribuiti, che – come sottolinea l’Autore – genera pesanti conseguenze sul quadro macroeconomico della Nazione, anche a livello occupazionale.
Il lavoro agile consente al capitale di risparmiare sul costo del lavoro anche per altre ragioni, delle quali l’Autore dà ampio conto e fra le quali v’è la possibilità, laddove si faccia un’applicazione generalizzata o comunque massiccia di questa forma lavorativa, di fare a meno di una sede aziendale o di ridimensionarla; correlativamente, il datore di lavoro quasi non si sobbarca di alcun costo connesso ai dispositivi di cui si serve il lavoratore, essendo tenuto soltanto a garantirne la sicurezza e il buon funzionamento.
Insomma, come tutte le riforme della storia recente in materia di lavoro, anche l’introduzione del lavoro agile è una riforma di potere e persegue l’obiettivo, anziché di alimentare la divisione, comunque fisiologica, tra capitale e lavoro, di creare una spaccatura tra i lavoratori. Che il lavoro agile risponda agli interessi del capitale lo si intende bene anche dalla circostanza che il nostro ordinamento conosce già una forma di lavoro a distanza: si tratta del telelavoro, destinato ai lavoratori fragili o altrimenti impediti a recarsi sul luogo di lavoro e assistito da una serie di garanzie, di cui il lavoro agile è invece sprovvisto. Il telelavoro deve svolgersi in una sede fissa e preventivamente determinata, la quale diverrà la sede di lavoro del telelavoratore. Il datore di lavoro è obbligato ad adottare misure che evitino l’isolamento del telelavoratore rispetto ai suoi colleghi, nonché a tutelare la salute e la sicurezza professionale del telelavoratore. I dispositivi di cui si servono i telelavoratori sono forniti dal datore di lavoro, obbligato a curarne la manutenzione e a coprire i costi connessi al loro utilizzo.
Non si sottovaluti la circostanza che, a differenza di quanto avviene con il telelavoro, la sede di lavoro dei lavoratori agili resta la sede aziendale: ciò ha permesso a molte aziende, durante periodi in cui hanno applicato il lavoro agile in maniera generalizzata, di spostare la sede aziendale per poi dare ai lavoratori direttiva di tornare in sede senza dover corrispondere loro alcuna indennità di trasferimento.
Infine, va notato come il telelavoro informi integralmente la prestazione lavorativa: questa, in altri termini, viene sempre svolta a distanza; viceversa, il lavoro agile è per legge una modalità residuale di svolgimento della prestazione lavorativa, che deve cioè essere svolta solo in parte da remoto. A questa differenza è sottesa la logica di flessibilizzazione del lavoro, altra direttiva fondamentale – insieme alla citata massimizzazione della produttività – che informa il lavoro agile: oggi a casa, domani in azienda e domani di nuovo a casa, a gradimento del datore di lavoro.
Non posso che fare appello a tutti coloro che sono intenzionati a coltivare un’idea e una prassi di lavoro in linea con la Costituzione affinché si impossessino di “Contro lo smart working” di Savino Balzano.
Antonio Semproni
22/12/2022 https://www.lafionda.org
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