Per una grammatica della lingua afroitaliana

L’Italia viene spesso descritta «come monocolore, monoreligione, quasi monogender… Eppure gli italiani sono una costruzione tarda, risorgimentale, e prima di Alessandro Manzoni non esisteva nemmeno una lingua. Fa un po’ ridere sentir dire: ‘prima gli italiani’. Sì, ma quali italiani?». Igiaba Scego, scrittrice italosomala, ha curato un’antologia di racconti di donne afroitaliane, dal titolo Future, che è diventata un piccolo caso editoriale grazie a un passaparola entusiasta e a decine di presentazioni in giro per la penisola. I racconti di Future formano un’amalgama inedita, un prisma in grado di riflettere diversi toni emotivi e diverse prospettive – anche generazionali – su cosa vuol dire oggi essere afroitaliane, cioè italiane di origine africana. La redattrice di Jacobin Italia Gaia Benzi ha incontrato Igiaba Scego e insieme hanno discusso di razzismo, memoria storica, delle paure che si trasformano in lotta e di come la letteratura può diventare uno strumento per costruire il futuro.

Com’è nata l’idea di un’antologia di unidci autrici afroitaliane con questo titolo, Future? Ti aspettavi il successo e l’attenzione che sta riscontrando ?

Mesi fa sono stata contattata da effequ, la piccola casa editrice di Francesco Quatraro e Silvia Costantino, con la proposta di un’antologia sul futuro. All’inizio c’era solo il desiderio di lavorare insieme a loro, ma poi ho pensato di introdurre la nozione di femminismo nero nel dibattito attuale sui femminismi. Parlo di femminismo nero perché sono nera, ma qualcuno potrebbe dire femminismo dello Sri Lanka, o femminismo migrante. A me interessava proprio la questione della donna nera – che poi non è solo nera, ma anche araba. E leggendo quotidianamente tante ragazze, tante donne, che scrivono magari sui social, o hanno dei blog, o pubblicano articoli potenti, mi è venuta l’idea di dare voce alle donne afroitaliane.

Dico dare voce perché credo che l’editoria abbia smesso di pubblicare voci altre. C’è stato un grosso boom negli anni Novanta, come spiego nell’introduzione al volume, e in seguito ci sono state le scritture delle cosiddette seconde generazioni. Ma a un certo punto questo genere è scemato. Abbiamo avuto dei casi interessanti: la rivista Internazionale, ad esempio, ha avuto per due anni la rubrica Italieni, con la bandiera spezzata, che ha dato spazio a tante voci. Ma l’interesse dei giornali e delle piccole e medie case editrici non ha prodotto molte pubblicazioni.

Anche io non ho avuto vita facile, perché quando mi sono discostata dal tema dell’identità e ho abbracciato il romanzo storico mi sono accorta che le giovani, ma anche le mie coetanee, non trovavano più spazio in letteratura; soprattutto le donne nere e afro in generale. C’è stata Randa Ghazy, ma davvero poche altre voci. E quando parlo di voci intendo voci letterarie, narrative, non soltanto di testimonianza. Non che le storie di migranti non ci siano. Molte vengono raccontate da italiani da generazioni, in un processo di appropriazione, alcune volte anche importante, ma non mancano operazioni meramente strumentali, in cui c’è anche una sorta di pietismo, una visione comunque inferiorizzante dell’altro. Io volevo uno sguardo alla pari.

Quindi mi sono detta: mettiamo insieme undici voci, undici testimonianze narrative. I racconti sono molto diversi l’uno dall’altro, alcuni sull’attualità, sull’identità, altri sulla famiglia, ma tutti gettano uno sguardo sul futuro. Tutte le autrici sono preoccupate del momento storico che sta vivendo l’Italia, in cui il razzismo, che non è mai cessato dai tempi del colonialismo – spesso si pensa che il razzismo in Italia prima non c’era, ma c’è stato eccome: io che ho vissuto da piccola gli anni Ottanta in questo paese me lo ricordo –, è diventato ideologico. In questi racconti c’è una grande preoccupazione, ma anche una grande rabbia e voglia di combattere.

Il prodotto è molto curato, e io sono molto contenta di quello che sta succedendo, delle persone che ci chiamano entusiaste e non me lo aspettavo. Volevo far emergere alcune voci, ma ce ne sono tantissime altre. Ho scelto solo un segmento. In questo senso il mio consiglio alle case editrici è: andate a fare scouting, perché oggi ce n’è molto poco e solo sugli italiani bianchi. Oppure c’è la scuola di scrittura creativa; ma il figlio di migrante non ci arriva alla scuola di scrittura, e allora ti perdi un sacco di talenti.

Ti faccio un esempio. L’ultimo Booker Prize l’ha vinto Margaret Atwood ex aequo con Bernardine Evaristo: una donna che seguo da anni, dicendo alle case editrici «pubblicatela, che è brava!». È una donna nera il cui ultimo libro, Girl, Woman, Other, fa una storia della Gran Bretagna attraverso i corpi di dodici donne nere. Evaristo è una scrittrice potentissima, uscita fuori da un’Inghilterra che le ha saputo dare spazio. L’Italia non lo fa. In un momento di razzismo così forte non puoi non ascoltare queste persone, non puoi non dare loro spazio.

Fare questo libro è stato anche un modo di creare un network che vada oltre il libro stesso, qualcosa che dica «questa parte di società c’è, esiste».

Una questione che fa da sfondo a quasi tutti i racconti è quella della memoria: il recupero della memoria diventa essenziale per definire le identità ibride e in bilico dei protagonisti e delle protagoniste, rompere il «muro del presente» e recuperare una tridimensionalità spazio-temporale. Che rapporto pensi ci sia tra il recupero di una memoria collettiva (come il rimosso colonialismo italiano) e il recupero delle memorie particolari – individuali o familiari che siano?

Il recupero della memoria emerge soprattutto nel racconto di Angelica Pesarini, che tratta del passato coloniale italiano. Angelica è una sociologa; è l’unica docente nera che c’è in Italia, ed è comunque stipendiata dalla New York University. In Future ha fatto una cosa per lei inedita: la sua è una scrittura accademica, mentre io l’ho costretta a scrivere narrativa. E sono contenta che abbia introdotto il passato coloniale italiano. Non possiamo costruire un presente plurale se non affrontiamo il passato coloniale, se non affrontiamo quella storia e la decolonizziamo.

In questi racconti la memoria è sia storica sia familiare: è un mix, fatto di zie, nonne, madri, figure che ricordano qualcosa alle protagoniste da cui ripartire per ricostruire loro stesse. Tutte noi, e soprattutto chi è afro, siamo state private del nostro passato. Viviamo in un mondo assolutamente eurocentrico dove tutto quello che è più a sud viene criminalizzato. Bisogna fare un grosso sforzo per far riemergere quello che sei. Non a caso scrivo romanzi storici: penso che sia una sorta di pulsione globale, che ti porta a dire: «in questa nostra epoca bislacca, cosa posso lasciare ai posteri?». Posso lasciare la mia ricerca storica. È la chiave per capire il futuro, senza storia il futuro non lo costruisci.

Lo vediamo anche in politica. I politici sono proiettati verso un futuro senza gambe, perché gli manca il passato, una riflessione anche su quello che siamo, sull’identità del paese, che viene descritto come monocolore, monoreligione, quasi monogender… Eppure gli italiani sono una costruzione tarda, risorgimentale, e prima di Alessandro Manzoni non esisteva nemmeno una lingua. Fa un po’ ridere sentir dire: «prima gli italiani». Sì, ma quali italiani?

Uno strumento essenziale per recuperare la memoria è l’uso del linguaggio. La lingua dei padri che non si conosce, la lingua che si conosce ma non si vuole più usare, la lingua che nasconde nomi segreti, impronunciabili per gli europei e dunque nascosti, barattati con altri più facili «per non dare fastidio ai bianchi», come ne Il mio nome di Djarah Kan. In tutta l’antologia, la lingua emerge come potente moltiplicatore della realtà. La parola è un’arma di dominio ma anche di ribellione: è per questo che parli di «concordanza di lotta e letteratura», in «una scrittura […] che non poteva scindersi per forza di cose dalla lotta»?

La parola è quella delle radici, ma è anche la parola con cui definirti adesso. Noi usiamo molto l’inglese – postcolonialmixed raced – per definire qualcosa, e invece lo sforzo narrativo compiuto nel libro è dire a noi stesse, prima che agli altri, che abbiamo bisogno di un linguaggio per definirci e definire la nostra nuova essenza. A volte ci mancano le parole, e dobbiamo inventarle. Gli afroamericani, gli afrobritannici, le parole ce l’hanno; noi invece siamo ancora afoni, balbettiamo, come Calibano nella Tempesta, la commedia di William Shakespeare, il cui balbettìo è un balbettìo di resistenza. Mi ha sempre colpito questo personaggio, e secondo me rispecchia la fase in cui ci troviamo oggi.

Abbiamo l’urgenza di creare il nostro linguaggio, il nostro spazio, e lo dico anche da un punto di vista intergenerazionale: confrontandomi con le scrittrici più giovani mi arricchisco, e mi accorgo che sta nascendo una riflessione sul linguaggio collettiva, non solo per definire noi ma per definire il mondo, che è attraversato da linee di potere che escludono i nostri corpi. Anche quello è linguaggio: e se riprendi in mano il linguaggio, riprendi in mano il potere.

Per me la letteratura è sempre impegno. Se racconto una cosa lo faccio con un punto di vista sul mondo che è il mio, ed è un punto di vista di lotta, perché una donna afro non può non stare dentro la lotta. È il suo corpo che ce la fa stare. Sono i nostri corpi a farci stare nella lotta. Scrivere è una risposta alla paura di perdere te stesso, il tuo corpo.

Per un afrodiscendente la paura di perdere il proprio corpo, al di là del sesso, dell’orientamento sessuale o della condizione economica, è molto reale: se il tuo corpo viene letto male puoi morire, incorrere in violenze di ogni sorta, ed è una costante. Pensa ai neri a cui la polizia spara senza motivo negli Stati uniti o in Francia; pensa ai casi italiani in cui vai al pronto soccorso e non ti curano perché sei nero o nera. Lo dico sempre quando faccio le presentazioni: adesso vedete la scrittrice e mi ascoltate per un’ora. Ma quando vado a prendere l’autobus dopo la presentazione il mio corpo è già cambiato, non sono più la scrittrice, non ho più quel ruolo, divento un corpo che può vivere una situazione di pericolo. Ecco perché secondo me la scrittura è militante: perché nasce da un’esigenza reale, una paura che si trasforma in lotta. La tua paura nasce da una disuguaglianza sociale, e violenta, e quindi non puoi stare lì impalata: devi lottare. O lotti o muori.

Una paura che si trasforma in lotta, e una lotta che si trasforma in parole.

Sì, ricorda molto Malcom X quando studia il vocabolario e dice: ok, possiamo pure fare a pugni, ma se usiamo la dialettica, la parola, il pensiero, abbiamo più possibilità di rompere il muro di paura. Le storie hanno una grande potenza.

Nel racconto di Wii, Che ne sarà dei biscotti, la protagonista si definisce «mediterranea». Ci sarebbe tanto da dire su questa definizione, a partire dal noto «una faccia una razza» tra greci e italiani pensato, a seconda di chi lo pronuncia, come una lode o come un insulto. Ma recuperare la cultura mediterranea, in cui l’uomo e la navigazione hanno un tempo unito ciò che la geografia sembra voler dividere, può essere un percorso costruttivo? Pensi che possa aiutarci a distruggere il confine che il Mare Nostrum oggi rappresenta? E in un processo del genere, come potremmo ricucire la frattura coloniale che ha visto una sponda del Mediterraneo invadere e sfruttare l’altra?

C’è una canzone di Joan Manuel Serrat che s’intitola Mediterranea, in cui dice «seppellitemi senza dolore tra la spiaggia e il cielo». A me ha ricordato un cimitero della Tunisia, che è veramente sulla spiaggia ed è una cosa incredibile. Io ho sempre pensato che non tutti i cimiteri sono negativi, ma il nostro problema è che abbiamo reso il Mediterraneo una fossa comune. Magari fosse un cimitero come quello tunisino! Tutti noi abbiamo un corso, non viviamo per sempre. Ma il Mediterraneo è diventato una discarica di corpi. Per recuperare il Mediterraneo della canzone, in cui i cimiteri erano luoghi di riposo, dobbiamo lottare affinché i viaggi diventino legali. Gli stati hanno criminalizzato i viaggi e la gente si è incattivita. Forse la cosa migliore è ricreare empatia nelle persone. E secondo me l’empatia va creata attraverso storie meno pietistiche e più reali.

Tempo fa sono morti trentanove vietnamiti in un container, e io mi sono ricordata di un romanzo di Ghassan Kanafani, palestinese, intitolato Uomini sotto il sole, che parla di una vicenda simile. I libri già ci raccontano tante cose: e allora forse leggendo l’altra sponda del Mediterraneo, cercando di capire, attraverso le storie, forse possiamo restaurare questo scambio. Perché i corpi ci sono, ci sono famiglie divise dall’acqua, anche se teoricamente è lo stesso paese. Si parla tanto di Unione europea, ma il Mediterraneo è quasi un continente. Io non sono antieuropeista, però culturalmente gli italiani hanno molto più in comune con un tunisino che con un finlandese.

Tutte le nazioni sono fallite a modo loro, alcune hanno un aspetto più dignitoso, però guarda quello che sta succedendo in Gran Bretagna. Non parlo solo della Brexit: negli anni Ottanta questo paese era già stato massacrato dalla Thatcher, con la privatizzazione furiosa di tutto. Dovremmo iniziare a leggere le storie dell’altra sponda del Mediterraneo partendo dagli anni Ottanta: tutto ciò che sta succedendo adesso è conseguenza di un neoliberismo sfrenato in cui il mondo ha inseguito il profitto a discapito di ogni cosa.

In Eppure c’era odore di pioggia, Alesa Herero scrive che «a Roma non ci sono case. Non c’erano case per lei». Leggendolo mi sono subito venuti in mente i cartelli con su scritto «non si affitta ai terroni» dell’Italia del boom economico, il famoso «peccato originale di un nord che depreda il sud e mette in questione l’idea stessa di italianità» di cui parli anche tu. Secondo te che ruolo possono occupare memorie come queste nel contesto odierno? È possibile recuperarle e metterle in connessione con l’oggi? Pensi sia vero, come scriveva Luciano de Crescenzo, che «siamo tutti i meridionali di qualcuno»?

C’è una famosa poesia di Wole Soyinka in cui telefona per cercare casa, e a un certo punto dice: «sono nero». E dall’altra parte del telefono gli rispondono: «Nero come?». Come a dire: «Non è che sei troppo nero?». Il colore nero è connotato come inferiore, criminale. E la stessa cosa è successa con i meridionali. In Italia questo problema viene da lì, non è mai stato davvero superato. In questo senso siamo tutti meridionali di qualcuno, perché c’è sempre qualcuno che pensa di essere superiore a te.

Tutto il mondo è gerarchico. È così anche nelle società afro, in Nigeria e Somalia. In Somalia, ad esempio, si distinguono le persone col naso piccolo o col naso grande, c’è del razzismo, anche se siamo tutti neri c’è sempre una scala gerarchica: che sia di classe, di colore, di religione, di appartenenza geografica. Ci inventiamo delle differenze e su quelle costruiamo una gerarchia, dei muri invalicabili.

Secondo i dossier sulle migrazioni, i primi migranti economici sono proprio gli italiani. Viviamo dentro un paradosso, in cui tutti scappano da questo paese. Lo vedo dai tanti amici espatriati. Prima gli italiani… sì, a fuggire! Non vanno più col Transatlantico, sono vestiti meglio, magari hanno un dottorato, ma sempre migranti sono.

Il recupero del passato migrante non funziona perché di solito non si vuole vedere che si è stati male. Nella migrazione di adesso si parla di «cervelli in fuga», ma io ho visto partire anche gente senza titoli di studio. È un paese che fa la guerra ai giovani, alle giovani coppie, è difficile avere un figlio, per via dei soldi ma anche per un immaginario fermo al ventennio berlusconiano. È come se fosse successo qualcosa: a un certo punto si è iniziato a non credere più nel futuro. I vent’anni di Berlusconi non li abbiamo ancora digeriti – prima o poi qualcuno dovrebbe scriverne con accuratezza – e li stiamo ancora pagando. Non puoi far scappare via tutti i giovani, e fargli continuamente la guerra: ventenni, trentenni, quarantenni…

Questo è uno dei motivi da cui nasce questo libro, e non è un caso che due delle autrici già non stiano più in Italia. Non partono solo gli italiani da generazioni, partono anche i figli di migranti: partono i giovani! Anche tra le autrici non ancora partite, alcune hanno già in mente un piano migratorio. Perché il piano migratorio non nasce solo dalla mancanza di soldi, nasce anche dalla mancanza di opportunità sentimentali. Che significa? Significa stare bene e sentirsi al sicuro nel paese in cui sei, e qui non succede perché questo è un paese che il futuro lo distrugge. Per questo alcune delle nostre autrici sono doppiamente migranti: di origine, perché i loro genitori lo sono stati, e per scelta, perché hanno fatto la scelta di partire come tanti giovani italiani.

In vari racconti, ma soprattutto in Nassan Tenga di Leaticia Ouedraogo, viene messo a tema lo sguardo degli altri come motore dell’autocoscienza razzializzata: «Papà e io siamo nati in Burkina e in Italia abbiamo scoperto di essere neri». Se è vero che lo sguardo dell’altro crea e riproduce uno stigma, un pregiudizio, facendoci vedere cose di noi stessi a cui prima nemmeno pensavamo, cosa dice lo sguardo di queste scrittrici afroitaliane sui bianchi e le bianche euroitaliane? Quali zone cieche può aiutarci a sondare, e dunque a scoprire, modificare, cancellare o potenziare?

Nei racconti alcune hanno scelto la dimensione familiare, una visione d’insieme, altre hanno scritto un vero e proprio j’accuse contro il paese, ma anche contro l’Europa, contro il modo in cui fa vivere le persone.

La scoperta del proprio colore, che prima non era connotato, è uno shock. Vieni da una situazione in cui il tuo colore è un colore, uno dei tanti, mentre qui c’è lo stigma. L’Italia è ossessionata dal colore nero, perché anche le leggi sull’immigrazione sono costruite sui sudditi coloniali. Il nero era il nemico da sconfiggere o la persona da domare. L’Italia una delle prime cose che ha fatto dopo l’Unità è stato il colonialismo. L’Eritrea l’ha conquistata dalla metà dell’Ottocento. Ha avuto delle disfatte in Africa, come la sconfitta di Adua. Ed ha creato un corpus di leggi, un immaginario, tutto basato sui neri. C’è un libro che si chiama Femmina somala, del ‘34, che parla di questa donna come di qualcosa che  serviva quando avevano un bisogno carnale. Ci sono delle canzoni del Ventennio che a un certo punto parlando del nero dicono «se non ci ascolta lo faremo diventare bianco a furia di manganellate». Questa idea di far diventare bianco… è un’ossessione. E non è mai stata discussa dopo la Seconda guerra mondiale. C’è un’altra canzone, Topolino va in Abissinia, in cui c’è Micky Mouse che va volontario in Africa orientale come camicia nera, e dice che vuole ammazzare i mori – così li chiama – perché «mia madre ha bisogno della borsetta nuova, e mio papà ha bisogno della Balilla e mio zio fa il guantaio e ha bisogno di tanti guanti», e poi spiega il modo in cui li ammazzerà. Questa era una canzone per bambini! Questo immaginario non è mai stato discusso nel dopoguerra, e quindi è rimasto. L’antropologa Paola Tabet, sostiene che il razzismo in Italia è un motore fermo che può ripartire in ogni momento di crisi. Secondo me il razzismo di oggi è ideologico, e penso soprattutto al razzismo della politica che attinge direttamente da quel calderone di roba che è diventata sentire comune: spesso quando fai un complimento al nero, dentro il complimento c’è qualcosa di inferiorizzante. Odio gli uomini che dopo le presentazioni mi dicono: «Sei bella, ma si sa, voi somale siete belle, è una tradizione somala», e tu sai che la tradizione in realtà è Faccetta nera!

Leaticia ha colto perfettamente questo problema, perché effettivamente la scoperta di essere nere e di essere discriminate arriva da tante cose quotidiane. Io spero che questo libro vada nelle scuole. Se la scuola non fa un lavoro su questi temi non può aspettarsi che nasca spontaneamente.

Gran parte delle protagoniste e dei protagonisti sono perennemente in viaggio, alla ricerca della propria casa, della propria origine… Ma ce n’è davvero una? La stessa dicitura «seconda generazione» è probabilmente fuorviante: non siamo tutti una quarta, quinta, sesta, settima generazione di qualcosa?
Quando è uscito il termine seconda generazione, nel 2005, serviva ai ragazzi figli di migranti per dire «noi esistiamo». La gente non capiva, ci facevano i complimenti per come parlavamo bene italiano, anche se eravamo nati qui. È servito a far capire alla gente che noi eravamo una realtà. Ma è un termine come un altro. Anche su afroitaliano non tutti sono d’accordo, alcuni trovano che elimini la loro specificità maliana, ghanese… Ed è vero. Io l’ho usato perché volevo mettere insieme persone, alcune black alcune no, e la cosa che le univa era l’origine africana e l’italianità.

Gaia Benzi

Igiaba Scego

Igiaba Scego, scrittrice e fellow dell’International Center for Humanities and social change Ca’Foscari-Venice. Si occupa di colonialismo, migrazioni e storia in ottica interculturale. 

Gaia Benzi è attivista e ricercatrice di letteratura italiana. Ha scritto per Micromega, Dinamopress, CheFare e Nazione Indiana.

23/12/2019 jacobinitalia.it

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