Perché Ichino, “il Licenziatore”, non stupisce più.

Considerate le opportune proporzioni – soprattutto in ragione delle due età anagrafiche, significativamente diverse – confesso che il disincanto procuratomi dalla scoperta che sotto la folta barba bianca di Papà Natale si celasse, in realtà, il pur amorevole viso del mio babbo, si ripeté, in sostanza, quando appresi chi era stato, veramente, Voltaire.

Apprendere, attraverso il mio vecchio professore di stenografia – un ebreo fornito di una cultura enciclopedica e sopravvissuto “all’inferno in terra” di Auschwitz – che l’illustre rappresentante dell’Illuminismo era stato, in effetti, visceralmente anticristiano e profondamente antisemita, fu sconcertante.

Scoprire un filosofo che scriveva: “Si guardano gli ebrei con lo stesso occhio con cui guardiamo i negri, come una specie d’uomini inferiori” e, contemporaneamente, da razzista e sostenitore dello schiavismo, era azionista di una società di Nantes per la tratta dei “negri”, ebbe su di noi, giovani “sessantottini” di un Istituto Tecnico napoletano, un effetto pari a quello di un odierno tsunami.

La stessa, sconvolgente e attonita reazione che accoglierebbe la notizia di Pietro Ichino improvvisamente convertito alle “ragioni” dei lavoratori.

Parleremmo, nel caso, di un’azione “contro natura”!

Era, quindi, solo la vana ricerca di un’illusione che mi stimolava a leggere la sua “Storia segreta, articolo per articolo, del contratto a tutele crescenti”.

Con quel testo, Ichino, “il Licenziatore”, offre una scheda tecnica sui contenuti dei dodici articoli che compongono lo schema del primo decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il 24 dicembre 2014, in attuazione della delega di cui alla legge 10 dicembre 2014, n. 183.

Naturalmente (e non potrebbe essere diversamente) il suo è un commento “di parte” (datoriale), che non lascia alcun dubbio al lettore circa la “collocazione” politica dell’autore e gli interessi dei quali è realmente portatore.

Ci sono, però, almeno due questioni che vanno evidenziate affinché nessuno possa mai più dimenticare o, peggio, fare finta di non aver ancora capito, che “il Licenziatore” rappresenta, a tutti gli effetti, una “controparte” molto determinata.

La prima, tra l’altro, riguarda materie che non compaiono nel testo definitivo del decreto. Riguarda, infatti, due articoli – sui contratti a termine e su alcune tipologie contrattuali – che facevano originariamente parte della bozza di decreto predisposta dal ministero del lavoro e successivamente depennati.

Relativamente ai rapporti di lavoro a termine, era stata prevista la riduzione – da 36 a 24 – del periodo di durata massima.

Ebbene, anche di fronte a quello che sarebbe stato apprezzato come “un rigurgito di onestà intellettuale” del ministro Poletti – la riduzione della durata massima dei tempi determinati (già, ingiustamente, “acausali”), a fronte della soppressione delle garanzie di cui all’art. 18, per i nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti – non veniva meno quella che appare sempre più come una tenace, determinata e, soprattutto, gratuita astiosità del “Licenziatore” nei confronti dei lavoratori.

A suo giudizio, infatti, ciò avrebbe rappresentato un messaggio rovinoso agli investitori economici!

L’altro articolo, non più presente nel testo “licenziato” dal Consiglio dei Ministri, prevedeva – “niente meno” e “addirittura”, a parere del “Licenziatore” – il superamento dei contratti di associazione in partecipazione, di lavoro intermittente e di lavoro ripartito.

In sostanza, un piccolo deterrente all’attuale, dilagante, condizione di precarietà di centinaia di migliaia di lavoratori cui spetterebbe, piuttosto, la costituzione di un normale rapporto di lavoro subordinato.

Anche qui – “Per fortuna”, a giudizio di Ichino – è scattato il segnale dello scampato pericolo e nel testo del decreto non c’è più alcun riferimento alle suddette tipologie contrattuali.

Laddove, però, si assiste all’apoteosi della “missione” cui si sente investito “il Licenziatore”, è nell’illustrazione e commento di una seconda parte – successivamente soppressa – del terzo comma dell’art. 3 del decreto.

La norma in oggetto prevedeva l’onere della “reintegra” anche per il licenziamento intimato in costanza di malattia del lavoratore, prima della scadenza del c.d. “periodo di comporto”.

Ebbene, “il Licenziatore” si vanta di essere stato l’artefice della cancellazione della seconda parte del suddetto comma!

Quella che – a mio avviso – è però sconcertante, è la giustificazione addotta da Ichino. A suo parere, una volta operata la soppressione della reintegra – per il licenziamento di un lavoratore malato – “Resta dunque inalterato il regime attuale, per il quale l’efficacia del licenziamento intimato prima della scadenza del termine resta sospesa fino alla scadenza stessa; se poi il lavoratore torna al lavoro prima che il termine scada, il licenziamento subisce la sanzione propria del motivo insufficiente o inesistente (art. 3, comma 1), ma non quella propria del motivo illecito (art. 2) ”!

All’uopo è sufficiente l’illustrazione di un caso semplicissimo per evidenziare che le cose, in effetti, non stanno proprio così.

Fino a ieri, in virtù di quanto previsto dall’art. 2110, secondo comma del codice civile – secondo il quale: “Nei casi indicati nel comma precedente (infortunio, malattia, gravidanza o puerperio) l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’art. 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge” – un datore di lavoro non poteva licenziare un dipendente assente per malattia fino a quando questi non avesse superato il c.d. “periodo di comporto” previsto, nella durata massima, da ciascun Ccnl. Perciò, a meno che non volesse “far ridere i polli”, nessun datore di lavoro intimava un licenziamento individuale a un lavoratore in costanza malattia. Di conseguenza, il Sig. Rossi, la cui malattia fosse, ad esempio, durata dieci mesi – rispetto a un periodo di comporto contrattuale previsto in diciotto mesi – poteva tranquillamente rientrare senza nulla da temere. Naturalmente, un successivo licenziamento sarebbe stato sempre possibile; a fronte di una giusta causa, per giustificato motivo, ecc; ma non a causa della sua pur lunga malattia.

Da domani, invece, una volta soppressa la reintegra, Ichino è fiero di annunciare che, grazie al suo diretto intervento, un licenziamento comunicato a un lavoratore in costanza di malattia – dopo una settimana dall’inizio della stessa o dopo alcuni mesi, non cambia niente – sarà operativo sin dal suo rientro; anche in condizione di periodo di comporto non scaduto.

Non solo questo. ”Il Licenziatore” considera scontato che, qualora il giudice accertasse che non ricorrevano gli stremi del licenziamento, la sanzione prevista in questi casi debba essere esclusivamente riconducibile a quella adottata nei casi di motivi insufficienti o inesistenti (pagamento di un’indennità), non a quella del motivo illecito (reintegra).

Pertanto, un datore di lavoro potrà tranquillamente intimare un licenziamento individuale – se non “plurimo” – perché un lavoratore (o anche più d’uno) ha il “vizio” di ammalarsi, oppure perché assente dal proprio posto di lavoro per malattie o infermità più o meno durevoli

Anche se l’assenza per malattia dovesse protrarsi per un periodo inferiore a quello massimo “di comporto” previsto dal Ccnl applicato!

Tra l’altro, a questo punto, appare chiaro che il suddetto Sig. Rossi, sapendo che il rientro dopo i dieci mesi di malattia significherà la scadenza del termine di temporanea inefficacia del licenziamento – già intimatogli, in costanza di malattia – cercherà, comunque, in tutti i modi possibili, di prolungare l’assenza almeno fino alla definitiva scadenza dei termini di comporto!

Viene da chiedersi: se la logica da applicare al licenziamento intimato in costanza di malattia è quella della “temporanea inefficacia”, per renderlo quindi operativo – in applicazione dell’art. 3, comma 1, piuttosto che dell’art. 2 – all’esaurirsi dell’evento (lo stato di malattia), presto la scopriremo anche applicata ai casi d’infortunio, gravidanza e puerperio; sempre contrabbandata con motivazioni economiche?

La “chicca” più bella, però, è rappresentata dalla sostanziale “derubricazione” dei licenziamenti collettivi a licenziamenti individuali “plurimi” dei lavoratori assunti con il c.d. “Contratto a tutele crescenti”.

Infatti, contrariamente a quanto sostenuto dal “Licenziatore” – circa l’opportunità di applicare anche ai nuovi assunti le stesse regole procedurali e gli identici “criteri di scelta” che attualmente disciplinano i licenziamenti collettivi – in realtà, per gli assunti successivamente all’entrata in vigore del decreto in oggetto, la regolamentazione dei licenziamenti collettivi sarà ben più penalizzante.

E’ lo stesso Ichino che evidenzia – con palese soddisfazione – che in futuro, a questi lavoratori, in caso di violazione, da parte del datore di lavoro, delle procedure di mobilità o dei “criteri di scelta” (legali) previsti per l’individuazione dei soggetti da licenziare, sarà riconosciuta la semplice indennità risarcitoria (non più la reintegrazione).

Renato Fioretti

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

4/1/2015

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