Perché la violenza è un problema economico

Oggi, come in tutti gli altri giorni, è utile ricordare che la violenza contro le donne non si riassume in un gesto isolato, ma si compone di un insieme di azioni non necessariamente legate all’aggressione fisica.

Non sono solo le botte, i lividi, le ossa rotte a raccontare la violenza, ma anche gli insulti, il controllo, gli scatti di rabbia, le molestie, i ricatti.

Le associazioni di donne che si occupano di contrasto alla violenza ci raccontano di come questa possa essere di diversi tipi: psicologica, fisica, sessuale, ed economica. E di come ogni tipo di violenza non escluda l’altro, ma nemmeno lo implichi. 

Se la violenza può assumere diverse forme, alcune forme di violenza sono più indagate di altre. Quello economico è l’aspetto su cui abbiamo meno ricerca e meno dati, ma non per questo è l’aspetto meno diffuso. Anzi, il controllo economico è uno strumento di coercizione utilizzato spesso.

Cosa intendiamo quando parliamo di “violenza economica”? Esiste una definizione ufficiale data dalle Nazioni Unite: “l’insieme di atti di violenza finalizzati a mantenere la vittima in una condizione di subordinazione e dipendenza, impedendole l’accesso alle risorse economiche, sfruttandone la capacità di guadagno, limitandone l’accesso ai mezzi necessari per l’indipendenza, resistenza e fuga”.

La premessa necessaria quando parliamo di violenza è che viene agita nelle relazioni intime, ma non solo. La violenza informa il sistema di interazione tra i generi: dai “micromachismi” del quotidiano – ogni donna può sicuramente evocare una serie di episodi, anche solo sul trasporto pubblico, tra i casi più riportati – a una scala maggiore dove, se pensiamo alla violenza economica a livello sociale, le donne detengono meno ricchezza, sono meno occupate e quando lavorano guadagnano meno sia da occupate che da pensionate, e sono più precarie.

La violenza economica è quella di cui si parla meno, ma ha una relazione molto forte con la possibilità delle donne, percepita e reale, di uscire da una relazione violenta. La maggior parte delle violenze avvengono in famiglia e sono perpetuate da un uomo da cui le vittime sono o sono diventate economicamente dipendenti. Non avere risorse per mantenere sé stesse e, in molti casi, anche i propri figli, è uno dei fattori che ricacciano le donne sotto il dominio di un uomo violento.

Il controllo o la privazione delle risorse economiche rientra nei comportamenti di controllo agito dagli uomini violenti. Ma cosa significa nella pratica? L’Associazione Differenza Donna ha provato a codificare i comportamenti violenti e la loro gravità distinguendo quattro livelli per cui possiamo definire “ordinaria violenza economica” quella per cui per molte donne entrare in una relazione sentimentale con un uomo ha significato decidere di non entrare nel mercato del lavoro, non avere un conto corrente proprio, rimanere fuori dalle decisioni economiche che riguardano spese straordinarie o la gestione dei risparmi.

Parliamo invece di “violenza controllante” quando un uomo violento impedisce alla compagna di lavorare, chiede resoconti dettagliati delle spese, quando le donne non hanno accesso al conto corrente, non sanno di quante risorse dispone la famiglia o quando lavorano lo stipendio viene accreditato su un conto di cui non hanno il controllo.

Il terzo livello per gravità viene definito “limitante” e si riferisce ai casi in cui l’uomo stabilisce quante risorse devono essere spese dalla famiglia e per cosa, quando vengono negati i soldi per alcune spese fondamentali, quando le donne non possono usare bancomat o carta di credito, quando non possono usare per niente il denaro e tutte le spese vengono fatte dall’uomo.

Il livello più grave di violenza economica è quello “delinquenziale” che si dà quando l’uomo violento dilapida all’insaputa della donna il suo capitale o quello della sua famiglia, se è stata obbligata a firmare documenti senza spiegarne l’utilizzo (ipoteche, mutui, ecc.), se è stata fatta accedere a finanziamenti non spiegati, se è stato svuotato il conto corrente in previsione della separazione, se le sono stati presi soldi senza chiederglielo per utilizzo personale, se non ottiene il mantenimento stabilito con decreto del tribunale.

Esiste quindi un problema di violenza economica, che richiederebbe soluzioni specifiche, il reddito di libertà va in questa direzione così come i congedi per le donne in fuoriuscita dalla violenza e i programmi di alfabetizzazione finanziaria.

Parlando di violenza economica vale la pena parlare anche di quanto costa la violenza alla società

Lo facciamo partendo dal dato che nel solo 2020, secondo il resoconto di Istat pubblicato oggi, sono 15.387 le donne che, grazie al sostegno dei centri antiviolenza hanno intrapreso un percorso di fuoriuscita da una relazione violenta.

Le stime ci dicono che una donna su tre ha sperimentato una forma di violenza nel corso della propria vita, parliamo di stime perché la maggior parte dai dati è sommersa dal silenzio e dal consenso sociale che ancora c’è intorno alla violenza. Iniziando da questi numeri, c’è un esercizio che la società civile, le organizzazioni di ricerca e l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere provano a fare da qualche anno, ed è quello di cercare di capire quanto costa alla società la violenza contro le donne, quanto costa in termini di spesa in servizi antiviolenza, spesa giudiziaria, spesa per il lavoro perso, congedi presi, spesa sanitaria ma anche costi indiretti come, per esempio, i danni per i datori di lavoro, i mancati introiti fiscali, ecc.

Si tratta, appunto, di un esercizio. Per dare un’idea di quanto costa alla società la violenza che gli uomini agiscono sulle donne. La stima per l’Italia pubblicata meno di un mese fa è di 38.896.862.916 euro l’anno. Nel 2013 un’indagine Istat aveva provato a stimare il costo della violenza domestica per difetto, e la somma era di 16,7 miliardi di euro. I costi della violenza contro le donne rappresentano, quindi nello scenario più ottimista circa l’1% del Pil.

A fronte di questi numeri – che ci raccontano quanto sia endemica e pervasiva la violenza degli uomini contro le donne e del danno e dello spreco di risorse che crea per la società tutta – la spesa pubblica per il contrasto e la prevenzione della violenza contro le donne è poca e mal gestita.

Da anni, Action Aid monitora quanti sono i fondi, come vengono utilizzati e per cosa, i tempi di erogazione e l’effettivo utilizzo. Gli ultimi dati, pubblicati oggi, ci raccontano di una spesa pubblica ancora insufficiente e mal gestita, frammentata e discontinua. Ma quello che salta agli occhi è quanto poco si investe in prevenzione.

A quanto pare, per il momento, continueremo a pagare tutti. Ma saranno ancora le donne a pagare di più.

Barbara Leda Kenny

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Nel 2020 sono state 15.387 le donne che hanno chiesto aiuto e iniziato un percorso presso un centro antiviolenza. A dirlo è l’Istat che in occasione del 25 novembre 2021, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, comunica i risultati dell’indagine condotta per l’anno 2020 sui servizi offerti dai centri antiviolenza in Italia.

Le donne prese in carico hanno un’età compresa tra i 30 e i 49 anni nel 56 per cento dei casi e nell’89 per cento dei casi hanno subito violenza psicologica, nel 67 per cento violenza fisica, nel 49 per cento minacce, nel 12,7 per cento violenza sessuale, e nel 9 per cento dei casi stupro.

Le donne vittime di omicidio volontario nell’anno 2020 in Italia sono state 116, dice l’istituto, lo 0,38 per 100.000 donne. Nel 2019 erano state 111. Delle 116 donne uccise nel 2020, il 92,2% è stata uccisa da una persona conosciuta. Per oltre la metà dei casi le donne sono state uccise dal partner attuale, in particolare il 51,7% dei casi, corrispondente a 60 donne, il 6,0%, dal partner precedente, pari a 7 donne, nel 25,9% dei casi (30 donne) da un familiare (inclusi i figli e i genitori) e nel 8,6% dei casi da un’altra persona che conosceva (amici, colleghi, ecc.) (10 donne).

Leggi tutto il report di Istat

25/11/2021 https://www.ingenere.it

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