Perchè non c’è un’Agenzia pubblica del farmaco?

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di Loretta Mussi

La pandemia da Covid-19, nella quale siamo ancora immersi, ci ha insegnato, tra le altre cose, che non ci si può affidare completamente alle industrie farmaceutiche.
Come sappiamo, di fronte al forte rischio che i paesi poveri restassero esclusi dai trattamenti per Covid-19, il 2 ottobre 2020 India e Sudafrica avevano inviato all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) la richiesta di sospensione temporanea dei brevetti e di altri diritti di proprietà intellettuale riguardanti farmaci, vaccini, diagnostici, dispositivi di protezione personale e altre tecnologie medicali per tutta la durata della pandemia, fintantoché non fosse stata raggiunta l’immunità. Grazie a tale sospensione, sarebbe stato possibile condividere la conoscenza scientifica e collaborare per lo sviluppo vaccini e prodotti atti a combattere il virus in tutti i paesi, consentendo quindi una più rapida ed efficace risposta alla domanda di vaccini, farmaci, diagnostici e attrezzature, a costi inferiori, non escludendo i paesi poveri. Sulla proposta si sono svolti numerosi incontri in sede WTO ma sempre si è manifestata la ferma opposizione delle case farmaceutiche e dei governi occidentali finché, nell’incontro del 16 giugno 2022, la proposta è stata rigettata definitivamente.

“Il dogma della proprietà intellettuale non si doveva toccare”, ha scritto Nicoletta Dentico sull’Avvenire del 18 giugno, perché consente di accumulare imponenti profitti, anche se questo significa aprire una guerra contro il Sud del Mondo. E’ l’industria farmaceutica che fa da arbitro assoluto nella distribuzione dei vaccini, stabilendo priorità, prima i paesi più ricchi, e tempi di consegna che mandano in coda i paesi poveri. Contemporaneamente è fallito COVAX, il programma di cooperazione volontaria a favore dei paesi più poveri che su di 2 miliardi di dosi previste ne ha fatto arrivare solo un quarto, di fatto operando una vergognosa apartheid vaccinale a danno dei paesi più poveri.

Come per la pandemia da Covid-19 si è arrivati totalmente impreparati anche per la ricerca e produzione di vaccini, anche se poi le case farmaceutiche hanno prodotto celermente, grazie ai finanziamenti e al sostegno del pubblico, i vaccini necessari. Eppure non dovevamo essere impreparati. Gli scienziati, infatti, da diversi anni avevano proposto alle case farmaceutiche di investire sui vaccini per i Coronavirus, ma erano rimasti inascoltati. Tanto che la ricerca avviata per un vaccino per la SARS-COV-1, era stata interrotta nonostante fosse a buon punto, quando l’epidemia si era ridotta e localizzata. Se si fosse completato lo sviluppo del vaccino per la SARS-CoV-1, che è strettamente imparentata, all’80% uguale, alla SARS-CoV-2, si sarebbe accelerato lo sviluppo del vaccino per quest’ultima.

Perché allora non si è andati avanti con la ricerca e lo studio precedente? Una risposta parziale può venire dalle difficoltà della ricerca nel caso di RNA – Virus perché questi mutano spesso e per il rischio di gravi effetti collaterali. Ma non si è cercato nemmeno di sviluppare farmaci antivirali per contrastare l’evoluzione della malattia nella sua forma più severa, che richiede il ricovero fino alla terapia intensiva.

I veri motivi per cui si fa poca ricerca sui vaccini, vanno ricercati nelle priorità dell’industria farmaceutica, la quale preferisce investire nella ricerca e nella produzione di farmaci utilizzati in aree terapeutiche ad elevato mercato come nel caso delle patologie croniche. Non sono invece prioritarie le malattie infettive che danno luogo ad epidemie locali, spesso in aree a bassa capacità di spesa o che comunque una volta spenta l’infezione non assicurano un mercato interessante. Vi è inoltre, nella ricerca e sviluppo di vaccini, un tasso d’insuccesso più elevato, mentre il tempo che intercorre prima di arrivare alla produzione può essere anche superiore ai 10-12 anni. Questi sono, tra l’altro, alcuni dei motivi per cui le industrie farmaceutiche accampano l’esigenza di aver garantita una protezione brevettuale, anche fino a 20 anni.

Succede così che la ricerca farmacologica esplorativa è svolta prevalentemente da università e piccole start-up, con considerevoli finanziamenti pubblici, mentre le Big Pharma scendono in campo quando l’investimento garantisce un mercato ampio e crescente nel tempo. Le imprese inoltre vogliono avere mano libera sui prezzi, tanto che, al Congresso degli Stati Uniti è stato respinto un emendamento che cercava di porre un tetto e, addirittura, è stato inserito un dispositivo nella legge che impedisce al governo di porre limiti ai prezzi richiesti dalle imprese farmaceutiche che brevetteranno farmaci per il COVID-19.

Per contrastare tale andamento è molto importante la proposta di Massimo Florio, presentata recentemente nella sede di ISDE (Medici per l’ambiente) Italia, nella quale si propone di costituire una agenzia pubblica europea per la ricerca e la produzione del farmaco, che permetta di non soggiacere ai ricatti di Big Pharma e alla sua sete di profitto.
Di fronte alla contraddizione insanabile fra le priorità della scienza per la salute e della scienza per il profitto, Florio ed altri propongono la realizzazione di una grande infrastruttura pubblica europea, ad alta intensità di conoscenza che intervenga su tutto il ciclo del farmaco: ricerca, sviluppo, produzione e distribuzione. E fa l’esempio del CERN di Ginevra, che funziona sia come hub fisico per migliaia di ricercatori residenti che come hub virtuale per decine di migliaia di ricercatori e medici in tutto il mondo o in sedi periferiche. Tale struttura deciderà le proprie priorità in base alle indicazioni della comunità scientifica e dei servizi sanitari pubblici, si riserverà la proprietà intellettuale delle scoperte e potrà concedere la licenza per farmaci, vaccini, tecnologie a terzi purché i richiedenti non perseguano il profitto.

Il progetto, presentato come BIOMED EUROPA, sarebbe costituito a livello europeo tramite un trattato inter-governativo che dia luogo ad una istituzione sovranazionale e dovrebbe avere un bilancio annuo di circa 21 miliardi, corrispondente a circa il 0,10 e 0,20% per cento del PIL della UE.
Si propone una dimensione europea per due ragioni principali: le risorse da mettere in campo sono di notevoli dimensioni e maggiori di quelle che potrebbero permettersi i singoli stati; la sperimentazione attraverso clinical trials multicentrici e quindi la produzione e distribuzione dei farmaci richiede una infrastruttura a scala internazionale.

Secondo Florio potrebbe essere la più grande infrastruttura pubblica di ricerca biomedica del mondo ed al tempo stesso la più grande impresa del settore, così da fare concorrenza in modo trasparente alle imprese di Big Pharma (con la quale, tuttavia, non viene esclusa una futura collaborazione a condizioni eque).

La struttura potrebbe convenzionarsi con i Servizi sanitari nazionali per lo sviluppo dei clinical trials e per disporre di impianti industriali per la produzione dei farmaci, propri o in affitto. Per la distribuzione si potrebbe costruire una rete logistica con i sistemi postali pubblici nazionali o con gare aperte ai privati. Nel tempo BIOMED EUROPA potrebbe costruire un proprio ampio portafoglio di farmaci e vaccini, focalizzandosi su tutto ciò che il settore privato non fa o fa a prezzi eccessivi, superando così l’oligopolio farmaceutico oggi vigente.
Potrebbe infine realizzare un portafoglio di farmaci generici che, prodotti con standard di altissima qualità potrebbero sostituire i farmaci che resistono sul mercato nonostante la scarsa qualità.

Fattibilità e sostenibilità del progetto. Secondo Florio il progetto è fattibile sotto il profilo scientifico e tecnologico, ed è sostenibile finanziariamente attraverso tre meccanismi tra loro complementari: a) attingendo al bilancio degli stati membri (su modello CERN e dell’Agenzia Spaziale Europea) e concentrando su BIOMED EUROPA i numerosi rivoli di fondi pubblici nazionali di sussidio alla ricerca, che oggi vanno a finire direttamente o indirettamente dalle imprese private, a volte con la mediazione delle università, sempre più attratte dalla logica del “guadagno”; b) utilizzando parte dei ricavi derivanti dalle licenze di produzione e dalla distribuzione, a costo di produzione, di farmaci e tecnologie biomediche ai servizi sanitari nazionali, costituendo un portafoglio di generici di alta qualità certificata; c) infine, istituendo, previo accordo in sede UE, un’imposta straordinaria di scopo, ad esempio decennale, sulle vendite delle imprese farmaceutiche private in Europa. Le stesse potrebbero anche remunerare le collaborazioni con l’impresa pubblica.

Perché il progetto va sostenuto. Innanzitutto va sostenuto perché si tratta di un’iniziativa fondata sul diritto alla salute, che in campo farmacologico non è rispettato, e per contrastare lo strapotere delle multinazionali del farmaco che si stima riescano a realizzare oggi profitti anche doppi rispetto alle 500 maggiori imprese del mondo. La gente sta ormai comprendendo che nel mondo non ci sarebbero state decine di milioni di morti se fossero stati sospesi i brevetti delle multinazionali e se tutti i paesi, anche quelli poveri, avessero potuto attrezzarsi per tempo alla produzione del vaccino anti-Covid-19. Questi sono fattori che spingono a vedere con favore la realizzazione di una infrastruttura pubblica per la produzione di vaccini e farmaci e rompere così l’oligopolio farmaceutico. I vantaggi di poter disporre di una struttura pubblica sarebbero diversi, ma il maggiore sarebbe di tipo sociale, perché consentirebbe la produzione, a prezzi nulli o inferiori al costo medio, di farmaci e vaccini socialmente utili e prioritari, con un minore impatto economico rispetto alla patologie trattate e anche con una maggiore sicurezza sociale.
Inoltre, essendo i farmaci di provenienza pubblica, non si dovrebbero fare pagamenti alle aziende farmaceutiche più volte per ciascuna fase (ricerca e sviluppo, produzione e commercializzazione), facendo continuamente crescere i loro profitti.
Ad una o più aziende pubbliche italiane, si dovrebbe invece affidare la produzione di altri prodotti indispensabili, quali presidi medici, elettromedicali, strumenti diagnostici, dispositivi di protezione individuale e prodotti di sanificazione, tamponi, reagenti, cioè di tutto ciò la cui carenza assoluta ha causato tanti morti, soprattutto nella prima fase dell’epidemia, impedito l’attività di diagnosi e tracciamento e quindi anche il rallentamento dell’epidemia.
Infine, se l’UE fosse decisa nel sostenere questo progetto, potrebbe riabilitare la penosa immagine data durante la pandemia per aver ceduto completamente, nella stesura dei contratti, alle imposizioni e richieste delle case farmaceutiche che l’hanno fatta da padroni.
E’ necessaria però una forte spinta pubblica, altrimenti anche questo progetto rischia di non poter essere realizzato.

Loretta Mussi

Medico Sanità Pubblica. Collaboratrice di Lavoro e Salute

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