Perché sono contrario al salario minimo legale

 

Partecipanti alla manifestazione della Fiom, questo pomeriggio 16 ottobre 2010 in piazza San Giovanni a Roma. E' il rosso a dominare piazza San
Giovanni in Laterano a Roma dove stanno manifestando gli operai della Fiom. Tante le bandiere della sigla sindacale dei metalmeccanici, Cgil e Rifondazione comunista. Le uniche diverse sono quelle di colore bianco dell'Italia dei valori. La rete studentesca sta mostrando uno striscione con su scritto ''Gelmini dimettiti ricostruiamoci il futuro'' mentre alcune tute blu espongono cartelli con slogan: ''l'indifferenza uccide'', ''gli operai producono per tutti, rispettateli'', ''uniti contro il capitale''. Non mancano critiche al segretario della Cgil; su un cartello si legge ''Epifani con Cisl e Uil lascia stare. C'e' bisogno di lottare''. 
ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Tra gli esperti e gli “addetti ai lavori”, in materia di Legislazione e Mercato del lavoro, c’è chi sostiene che, in sostanza:” Il peggio è ormai alle nostre spalle”.

Nel senso che la condizione di difficoltà e oggettiva “soggezione”, nella quale versano attualmente i lavoratori italiani, nei confronti dei loro datori di lavoro, è di tale portata da far ritenere che si tratti solo di attendere tempo migliori perché la situazione, a partire dall’attuale, non potrà che migliorare.

In effetti, attraverso una pur breve analisi retrospettiva di quello che hanno prodotto i provvedimenti di legge che si sono succeduti negli ultimi 16/17 anni – dal primo Berlusconi al governo targato Renzi – si potrebbe anche essere d’accordo con un’ipotesi del genere.

A partire, infatti, dal rifiuto della Cgil, nel 2002, di sottoscrivere, insieme a governo e a Cisl e Uil, il famigerato “Patto per l’Italia” – del quale, successivamente. le altre due Confederazioni denunceranno la mancata realizzazione – si è concretizzato un susseguirsi di “Accordi separati” e di norme di legge che, grazie al determinante e, troppo spesso, acritico consenso di Cisl e Uil, tanti guasti hanno prodotto in quel complesso sistema legislativo che normava il lavoro nel nostro Paese.

Quindi, in sostanza, i sostenitori di questa ottimistica tesi, fidano in una vera e propria “inversione di marcia”.

Chi scrive, purtroppo, non riesce a condividere le speranze di un futuro migliore – nel breve/medio periodo – per i lavoratori italiani.

Fatto salvo, naturalmente, il caso in cui la tornata elettorale del prossimo 4 marzo dovesse assumere la forma di uno tsunami; tanto potente e travolgente da essere in grado di sradicare le scorie berlusconiane e strappare le ancora non consolidate radici del renzismo!

A essere sincero, io sono, invece, convinto che tutto quanto realizzato, da Berlusconi, Monti e Renzi, in tema di lavoro, rappresenti, purtroppo, solo un “antipasto”.

La pur corposa e abbondante prima parte di un disegno che, complessivamente, tende a rendere i lavoratori ancora più fragili, indifesi e “malleabili”.

Non a caso, negli ultimissimi anni, non contenti delle controriforme già realizzate – solo ed esclusivamente a sostegno delle “ragioni” (sempre discutibilissime) dei datori di lavoro – è stata periodicamente riproposta una serie di temi, in primis dai fratelli Ichino e da Tito Boeri, che sono parte determinante del disegno padronale; che ha, nel famigerato “Libro bianco”, dell’ottobre 2001, un costante riferimento!

Dal definitivo superamento dei c.d. “scatti biennali”, suggerito da Ichino junior – che, peraltro, ha già, sostanzialmente, trovato applicazione attraverso il rinnovo di diversi Ccnl – alla, scandalosa, proposta di Pietro Ichino di trasformare la giornata di riposo del primo maggio in un giorno di lavoro gratuito. E non solo questo!

Non a caso, a ulteriore conferma della (perdurante) nefasta influenza dei principi ispiratori del Libro bianco e della legge-delega 30/03 – solo parzialmente già concretizzati, dal Legislatore nazionale, attraverso le norme di cui al decreto legislativo 276/03 – è opportuno non dimenticare mai che anche altre importanti questioni, quali, ad esempio: “La trasformazione dei Ccnl di categoria in Accordi quadro” e “L’esigenza di arrivare alla determinazione di salari reali da rapportare alla produttività territoriale, con una più accentuata differenziazione tra nord e Sud del paese”, costituivano già altrettanti capitoli di quelle che, a parere di Sacconi e Biagi, coordinatori del gruppo di lavoro del 2001, rappresentavano, quale sotto-titolo, le “Proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità”.

Non sorprende, quindi, la recente idea di Renzi di un salario minimo legale, nella misura di 9/10 € per ciascuna ora di lavoro.

Lo stesso Walter Galbusera, già segretario Uil della Lombardia, in un articolo pubblicato lo scorso 10 gennaio, ha ritenuto opportuno dichiarare che l’idea di adottare un salario minimo legale, nel nostro paese, rappresenterebbe la possibilità di offrire maggiore protezione alle fasce più deboli dei lavoratori.

Naturalmente, anche rispetto a questa materia, è opportuno, prima di tutto, fare un minimo di chiarezza e mettersi d’accordo su quello di cui s’intende parlare.  Sono sin troppi, infatti, coloro che parlano, indifferentemente, di “salario minimo”, “reddito minimo”, salario o reddito “di cittadinanza”, “salario d’inserimento” e/o anche di “smic” (alla francese) o mindestlohn (alla tedesca).

Quindi, a scanso di equivoci, è necessario chiarire che, si parla di salario minimo “legale” quando – attraverso una specifica norma di legge – si stabilisce una soglia al di sotto della quale non può andare alcuna remunerazione lavorativa. E’, invece, di natura contrattuale, quando il suo ammontare è determinato dalla contrattazione collettiva. Naturalmente, l’importo previsto può fare riferimento a un qualsiasi arco temporale: orario, giornaliero, settimanale o mensile.  Nulla a che vedere, comunque, con il reddito di cittadinanza e quello d’inserimento.

Sull’argomento, rilanciato da Renzi nelle scorse settimane, si è riaperta una discussione che, allo stato, sembrava in “standbay”. Detta molto sinteticamente: l’ex premier ha proposto una norma di legge che preveda, per i lavoratori italiani, una retribuzione minima oraria pari almeno a 9 o 10 €.

Ora, se da un lato l’idea di ricorrere a tale strumento potrebbe essere considerata sia una delle tante “improvvisate” da campagna elettorale, sia una concreta ipotesi di lavoro, la successiva quantificazione del valore di ciascuna ora lavorativa, rappresenta, con assoluta certezza, una grande “bufala”!

Nelle pagine che seguono cercherò di dimostrare perché, personalmente – e mi è di grande conforto essere in numerosa e qualificata compagnia – sono contrario all’istituzione, nel nostro Paese, di un salario che abbia una natura diversa da quella del tipo contrattuale (tra le parti).

Prima di tutto, però, credo non vada sottaciuto che il “ritorno di fiamma”, nei confronti del salario minimo legale, è dettato – a mio parere – dalla sostanziale presa d’atto, anche da parte dell’ex Premier, del risultato fallimentare del Jobs Act!

Infatti, nonostante la legge sui “Contratti a tutele crescenti” – che di crescente hanno solo l’entità dell’indennizzo nel caso di licenziamento – fosse accompagnata da ingenti sgravi contributivi a favore dei datori di lavoro, per la “stabilizzazione” dei contratti di lavoro, la “buona occupazione” è ferma al palo.

Non a caso, se dai dati Istat, recentemente prodotti, si estrapola quello relativo all’occupazione – che risulta in aumento, ma non va oltre il vecchio valore del 2008 – emerge che, tanto Renzi quanto Gentiloni, abusano ampiamente dell’arte della propaganda governativa. In realtà il 90 per cento degli occupati dipendenti in più (347 mila su 387 mila) lo è a tempo determinato e ciò dimostra due cose: la prima dice che i paladini del suddetto contratto “a tutele crescenti” – in primis Pietro Ichino -vendevano, ancora una volta, solo “fumo” e l’unica conseguenza della riforma è stata la nascita di una nuova tipologia contrattuale; la seconda ribadisce che le condizioni di lavoro nel nostro paese si stabilizzano solo nel senso della maggiore precarietà.

Quando a questa realtà – del, comunque insoddisfacente, aumento degli occupati – si aggiunge il dato relativo al drastico ridimensionamento del numero delle ore lavorate pro/capite, verificatosi negli ultimi dieci anni (dai 460 milioni di ore del 2006 ai 428 del 2016), il quadro appare molto più realistico e ben poco roseo.

Anche a voler prescindere da un altro, drammatico, segnale: l’aumento esponenziale del numero dei poveri. È opportuno non dimenticare, infatti, che sono circa 14 milioni gli individui che, in Italia, vivono in condizioni di povertà relativa e assoluta. Ne fanno parte, indubbiamente, anche i c.s. “working poor” (lavoratori poveri), cioè quei soggetti il cui reddito da lavoro è costituito da salari da fame o contratti a intermittenza e di breve o brevissima durata.

Perché, dunque, il ricorso a un salario minimo legale?

Ipotizzato che non si tratti solo dell’ultimo spot elettorale, resta da verificare quanto utile potrebbero trarne la disastrata condizione del mercato del lavoro italiano e, con essa, i disoccupati e i lavoratori.

Un primo elemento è relativo al fatto che il salario minimo legale è già presente nella gran parte dei paesi dell’UE.

Non è previsto, oltre che in Italia, in Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia e Cipro; tutti paesi nei quali, come ampiamente risaputo, le condizioni dei lavoratori – a parte, naturalmente, che per gli italiani – sono più che soddisfacenti.

Appare, allora, già “forzato” e fuori luogo quel noto e ricorrente ritornello – sono sicuro che ci sarà presto riproposto – che, come all’epoca del superamento dell’art. 18 dello Statuto e, in particolare, della “giusta causa”, nei licenziamenti individuali, suonava, più o meno, così:” “Ce lo chiede l’Europa”, oppure, in alternativa, “Dobbiamo riallinearci all’ Europa”.

È significativo, ad esempio, che Renzi, dopo il suo ultimo incontro con la Merkel, abbia dichiarato di trovare “nel modello delle politiche del lavoro della Germania un punto di riferimento a fronte dei risultati raggiunti nei livelli di disoccupazione”.

A sostegno della bontà dell’operazione, inoltre, si richiamerà, quasi certamente, il fatto che anche la Germania, a partire dal 1 gennaio 2015, ha adottato il salario minimo legale.

Come dire: “Ciò che va bene di là del Reno, fa bene a Roma”.

A questo riguardo, può essere molto istruttivo approfondire un poco la situazione creatasi, nel corso degli ultimi anni, in Germania.

Tento di farlo ricorrendo al supporto di un articolo, di Oliver Cyran – apparso su “Le Monde Diplomatique”, nel settembre dello scorso anno – che difficilmente sarà pubblicizzato e diffuso in Italia.

Si tratta, in sostanza, del resoconto di un’approfondita indagine “Del modello sociale tedesco fondato sulle riforme Hartz, che hanno segnato il passaggio dal sistema di sicurezza sociale a tutela dei lavoratori a un modello di <inclusione> dove i disoccupati sono trasformati in una grande sacca di lavoratori poveri sottoposti a un regime di controlli rigidamente coercitivo.

L’operazione di acquisizione dati è stata condotta attraverso sopralluoghi, colloqui con i disoccupati e con coloro che, pur disponendo di un reddito – da pensione o da lavoro – fanno mestamente la fila davanti agli sportelli dei Jobcenter, per richiedere l’accesso a un contributo statale

La conclusione, cui sono pervenuti gli esperti, è che la famosa riforma Hartz – realizzata, tra il 2003 e il 2005, dalla coalizione tra il Partito Social Democratico e i Verdi del cancelliere Gerhard Schoder – ha compiuto un processo di deregolamentazione del mercato del lavoro, producendo precarietà, bassi salari, formazione di una generazione di lavoratori poveri schiacciata sui mini jobs (equivalenti ai nostri vecchi voucher).

Alcuni dati statistici, di là delle conseguenze sociali prodotte dal programma di riforme tedesche, denominato “Agenda 2010”, sono (tristemente) significativi.

Il lavoro interinale, ad esempio, passa dai circa 300 mila soggetti coinvolti nel 2000 a un milione del 2016, la percentuale di lavoratori poveri – con reddito inferiore ai 979 euro mensili – passa dal 18 al 22 per cento, mentre milioni sono coloro i quali sono precari e sottopagati.

Tutto questo si è verificato nonostante in Germania, così come in Italia, vigesse un sistema di relazioni industriali fondato, essenzialmente, su due livelli; con la stragrande maggioranza dei lavoratori subordinati coperti da un contratto collettivo di lavoro.

In sostanza, si è realizzata quella che, in economia, è conosciuta come la legge teorizzata da Thomas Gresham, mercante e banchiere inglese del XVI secolo: “La moneta cattiva scaccia quella buona”.

In questo senso, per analogia, in una economia di tipo capitalistico il proliferare delle tipologie contrattuali flessibili e della precarietà, produce inevitabilmente – nel medio/lungo periodo – la creazione di posti di lavoro precari; a basso o bassissimo salario e a carattere sempre temporaneo.

Il tutto, direi, in linea con il modello finale di contro/riforma del mercato del lavoro già parzialmente realizzato in Italia e che Macron tenta di applicare in Francia.

Per concludere con la reale situazione tedesca, è opportuno rilevare che, in definitiva, l’istituzione, a partire dal 1 gennaio 2015, del salario minimo legale avrebbe dovuto, evidentemente, risollevare le sorti di quei milioni di lavoratori che, ridotti nella condizione di working poor, percepivano meno o molto meno degli 8,50 euro previsti dalla legge (nell’aprile del 2014, in Germania, i lavoratori che guadagnavano meno di 8,50 euro lordi all’ora erano 5,5 milioni).

Quale senso avrebbe, quindi, in Italia, una legge che stabilisse un salario minimo orario?

Boeri e Garibaldi, ad esempio, ne teorizzano, da anni ormai, la realizzazione partendo dal presupposto che essa proteggerebbe le categorie di lavoratori a rischio di “emarginazione”, che, altrimenti, avrebbero come unica alternativa solo il “sommerso”. Contemporaneamente, sostengono:” Una norma di tale genere concorrerebbe a superare la compressione salariale”; quel fenomeno dovuto alla pratica giurisprudenziale che, nel definire il salario” equo”, farebbe unicamente riferimento ai livelli minimi salariali previsti dai diversi Ccnl.

Una volta adottato, il salario minimo legale, in misura inferiore ai minimi contrattuali” – è la loro conclusione – “esso diventerebbe il nuovo punto di riferimento (obbligato) per la giurisprudenza”.

Un punto importante, tra le considerazioni di Boeri e Garibaldi è rappresentato dalla c. d. “compressione salariale” sistematicamente adottata, a loro parere, dalla pratica giurisprudenziale. In effetti, ciò non è vero. Di norma i giudici, in particolare nelle regioni meridionali, nel quantificare un salario “sufficiente” (ai sensi dell’art. 36 della Carta Costituzionale) adottano parametri al ribasso, nell’ordine del 25/30 per cento, rispetto ai minimi previsti dai Ccnl. Ciò avviene perché il valore di riferimento dei giudici è già legato al c. d. “costo della vita”, che, mediamente, nelle regioni del Sud è più basso di quelle del nord. Evidentemente, quello che, in sostanza, si cerca di affermare – perché non tutti hanno il coraggio civile di farlo e in modo esplicito – è che i giudici dovrebbero, piuttosto, rifarsi ai famigerati indici di produttività territoriale!

D’altra parte, perché meravigliarsi?

Già il Libro bianco auspicava che, in futuro, i salari reali dei lavoratori italiani rispecchiassero una più accentuata differenziazione tra Nord e Sud; in rapporto alla produttività territoriale. La macabra riproposizione, in sostanza, delle famigerate “gabbie salariali”, abolite negli anni ’60, che prevedevano salari differenziati tra lavoratori residenti al Nord piuttosto che al Sud.

Anche Galbusera insiste sull’effetto benefico che il salario minimo legale svolgerebbe a protezione delle fasce più deboli.

A ulteriore sostegno dell’opportunità che anche la legislazione italiana realizzi la presenza di un salario minimo, si cita la numerosa compagnia di Stati europei ed extraeuropei – dagli Usa alla Corea del sud – che hanno deciso in tal senso; con importi orari che variano dai 7,5 $ (€ 6,03) a livello confederale negli Usa, agli 8,84 euro della Germania, 9,10 del Belgio, 9,15 dell’Irlanda, 9,23 del Regno Unito, 9,36 dell’Olanda, 9,67 della Francia e fino agli 11,12 del Lussemburgo.

Bene evidenziare che si tratta, per tutti i paesi indicati, di salario orario lordo.

Ciò nonostante, sono tra coloro che ritengono l’eventuale adozione, anche in Italia, di un salario minimo legale, una vera iattura.

Al riguardo, rilevo due o tre elementi di massima che, credo, imporrebbero un’approfondita valutazione a tutti coloro che, spesso con eccessiva faciloneria, disquisiscono sul tema.

In Italia esiste, purtroppo, un fenomeno degenerativo al quale pare impossibile porre freno: un’ingente evasione fiscale e contributiva; la più alta, in assoluto, tra tutti i paesi dell’UE. In questo quadro, tutte le innumerevoli misure adottate – dai diversi governi che si sono, fino ad oggi, succeduti alla guida del paese – per favorire l’emersione dal lavoro “nero” e “grigio” si sono rilevate assolutamente inefficaci a ridurre le dimensioni dell’economia sommersa.

Auspicare che l’istituzione del salario minimo legale possa, quindi, offrire un incentivo in più per uscire dal sommerso, pare rappresentare esclusivamente una pia illusione!

Soprattutto quando, dalle chiacchiere, si passa, come doveroso, ad affrontare le questioni di merito del provvedimento.

Per cui, ad esempio, quando ci si chiede a quale livello fissare, in Italia, la retribuzione oraria di un eventuale salario minimo, occorre fare alcune ineludibili considerazioni circa il fatto che una retribuzione oraria fissata, per legge, ad un livello alto – superiore, quindi, ai minimi tabellari medi presenti nei Ccnl, attualmente pari a circa 7 euro – non avrebbe senso e finirebbe per produrre altro sommerso.

Analogamente, un livello troppo basso della retribuzione oraria legale – viene ammesso dagli stessi sostenitori della riforma – rappresenterebbe una potenziale base per l’abbassamento delle attuali retribuzioni.

Di qui, l’esigenza di fissare il salario minimo (orario) legale compatibile con un altro importante indice: il livello del salario minimo legale espresso come percentuale del salario mediano presente nel paese di riferimento.

Ebbene, al riguardo, è interessante rilevare che, in Europa e nel resto del mondo, la maggior parte dei salari minimi fissati per legge oscilla tra il 40 e il 60 per cento del salario mediano presente nel paese.

Rilevato che nel nostro paese il salario mediano è pari a 11,50 euro l’ora: un salario minimo legale al 40 per cento corrisponderebbe a circa 5 euro l’ora; fissato al 60 per cento di quello mediano, sarebbe invece pari a circa 7 euro l’ora.

Fatti i conti e, soprattutto, valutata la nostra realtà nazionale, è facile immaginare, a mio avviso, che, nel nostro paese nulla cambierebbe; anzi, anche l’istituzione di un salario minimo legale al massimo livello possibile – corrispondente, come evidenziato, alla stragrande maggioranza dei livelli minimi contrattuali attualmente vigenti – oltre che non apportare alcun beneficio allo status dei lavoratori “a nero” e/o “grigi”, che continuerebbero ad essere “sommersi”, porrebbe le basi per una sostanziale rincorsa “al ribasso” delle retribuzioni orarie.

Con conseguenze addirittura peggiorative per tutti quei lavoratori che si troveranno   nella condizione di subire una decurtazione della paga oraria, in conseguenza dell’opera di “riallineamento” – da parte dei loro datori di lavoro – delle loro ex retribuzioni orarie alla nuova retribuzione (più bassa) prevista dalla legge!

Ipotesi, questa, tutt’altro che apocalittica; anzi, coerente con il più recente passato.

Un passato nel corso del quale, troppo frequentemente, una notevole parte dei datori di lavoro italiani, piuttosto che mostrare di appartenere a una classe imprenditoriale che si fa “gruppo dirigente” del paese, ha dato la sensazione di appartenere a una rara specie di parassiti “a due teste”; attraverso le quali, con la prima succhiano agevolazioni, sgravi e contributi pubblici e con la seconda estraggono energie “a basso costo” dai lavoratori!

Per concludere, credo appaia a tutti sufficientemente chiaro che Renzi tenta di propinare agli italiani l’ennesima “bufala” – pari solo al famigerato “milione di posti di lavoro in più” di Berlusconi –  quando afferma di voler fissare il salario minimo legale a 9 – 10 euro l’ora che, come visto, sarebbe più vicino a quello del Lussemburgo che a quello della stessa Germania; che pure suscita in lui tanti entusiasmi. Basti pensare che quel minimo supererebbe del 25/30 i minimi previsti dalla maggioranza dei contratti di lavoro vigenti e rappresenterebbe quasi l’80 per cento del salario mediano italiano; un record assoluto e imbattibile, in Europa e nel mondo!

In definitiva, se i 9/10 € di salario minimo orario rappresentassero veramente la volontà di Renzi – i suoi trascorsi, però, relativi ai nefasti provvedimenti adottati dal suo recente governo, in materia di sostegno e aiuto ai lavoratori, lo smentiscono – arriveremmo ad    essere, tra i Paesi dell’UE, quelli con il salario minimo legale secondo solo a quello del Lussemburgo; in nettissima contraddizione con tutte le motivazioni cui si ricorre, in Italia, al fine di farne ricorso.

Renato Fioretti

Esperto di Diritti del lavoro. Collaboratore di Lavoro e Salute

28/1/2018

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