PILLOLE DI STORIA OPERAIA
Premessa
Il titolo di questo capitolo iniziale potrà sembrare troppo “assertivo” al nostro lettore, ma quanto segue non è solo un ragionamento, ma una “storia” vera, di uomini e donne di carne e sangue, che dimostra esattamente le conseguenze dello sfruttamento – malattie, sofferenze, morti – ma anche l’idea che vi sta dietro. E questa idea è che nella nostra società tutto è merce, l’uomo lavoratore in primo luogo e, come ogni merce, egli è fatto soprattutto per essere consumato fino alle estreme conseguenze purché questo porti benefici (che si chiamano profitti) all’uomo imprenditore. Sfruttamento è un termine che può sembrare a molti ottocentesco: purtroppo la nostra storia, come quella di moltissimi altri, è invece una storia tremendamente attuale e moderna, una storia che l’uomo imprenditore continua a perpetuare, ma in cui l’uomo lavoratore si ribella e si organizza per non essere più merce da buttare. Quello che leggerete è la storia – e soprattutto il “sapere” derivato dall’esperienza di lotta – del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio di Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia, la città delle grandi fabbriche, Comitato costituito da lavoratori che per anni hanno lavorato in queste grandi fabbriche e ne portano le cicatrici.
Sfruttamento, “monetizzazione della salute” e delega
Le lotte per migliorare le condizioni di vita e gli ambienti di lavoro degli operai e dei lavoratori, quelle contro la riduzione dei salari, contro la nocività e per il miglioramento degli ambienti di lavoro insalubri sono un patrimonio della lotta più generale della classe operaia. Da sempre gli operai, insieme con la lotta sindacale, lottano anche per cambiare leggi ingiuste che legittimano il sistema sociale fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Le lotte per la salute cominciano con l’avvento del capitalismo e i lavoratori hanno imparato a loro spese che i morti sul lavoro non sono mai una fatalità, ma il costo pagato dagli operai alla realizzazione del profitto. I morti sul lavoro sono parte della brutalità e della violenza del sistema capitalista. Protetti da leggi che tutelano la proprietà privata dei mezzi di produzione, lo sfruttamento e il profitto, i capitalisti anche nel ventunesimo secolo continuano a godere dell’impunità e della licenza di uccidere. La maggior parte degli infortuni sul lavoro, i morti sul lavoro e di lavoro causati dalle sostanze cancerogene impiegate nei processi di produzione spesso sono imputati alla disattenzione degli operai. La realtà è che datori di lavoro senza scrupoli, pur di risparmiare pochi centesimi, non esitano a far lavorare operai e lavoratori senza fornire adeguati dispositivi individuali e collettivi di protezione e molti infortuni gravi o mortali non dipendono dal “destino crudele” ma dalle sete di guadagno. Noi operai nel sistema capitalista non siamo altro che forza-lavoro: carne da macello; ma non possiamo accettare di essere delle semplici merci in balia del padrone di turno, non possiamo accettare che sia il mercato a decidere quando e come dobbiamo lavorare costringendoci a salari da fame, alla disoccupazione o a pensioni miserabili dopo una vita di lavoro in cui abbiamo arricchito dei parassiti. La morte di tanti nostri compagni di lavoro “colpevoli” solo di aver usato sostanze cancerogene nei luoghi di produzione senza essere a conoscenza dei rischi e dei pericoli che correvano ci ha portato alla consapevolezza e alla voglia di giustizia. Noi continuiamo a lottare contro tutte le morti “innaturali”, anche se siamo coscienti che, solo abolendo lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la classe operaia può liberarsi completamente dallo sfruttamento.
Anche nelle fabbriche italiane le lotte hanno origini lontane nel tempo e sono state provocate dalla brutalità delle condizioni di lavoro, causa continua di malattie, infortuni, invalidità, morte.
In Italia gli anni che vanno dal 1965 al 1970 hanno visto gli operai protagonisti di dure lotte che mettevano in discussione – tra le altre cose – anche gli ambienti di lavoro insalubri e ponevano con forza la necessità e l’urgenza di sottrarre il lavoratore al lento massacro cui era sottoposto. In quegli anni scioperi, fermate improvvise e spontanee di operai e di gruppi di lavoratori costretti a lavorare in ambienti angusti e nocivi, nelle fonderie, nelle forge e in ambienti a caldo, nei cantieri e nelle campagne, soprattutto nei mesi estivi quando la temperatura sul posto di lavoro diventa intollerabile, erano la prima forma di difesa e di ribellione. Nelle piattaforme – insieme al salario – si rivendicavano obiettivi che riguardavano l’organizzazione e l’ambiente di lavoro. Tuttavia, in ogni occasione, alla conclusione della lotta era evidente lo scollamento che si manifestava tra quello che gli operai rivendicavano e i risultati raggiunti dai “loro” rappresentanti sindacali che, pur di non ostacolare la produzione, si accontentavano di “difendere” i lavoratori monetizzando la salute. La crescente combattività operaia era smorzata dal sindacato che cercava di controllare la lotta operaia e che spesso era incapace o non voleva dare continuità e organizzazione a questa combattività. La linea ufficiale delle organizzazioni sindacali per anni è stata quella della monetizzazione della salute. Il sindacato e i partiti politici che lo controllavano, sotto la pressione e le lotte spontanee contro la nocività dei lavoratori, sono quindi stati costretti a interessarsi della salute assumendosene la “delega”, anche se nessuno l’aveva loro concessa, nel tentativo di togliere il protagonismo ai lavoratori.
Nello scontro col padronato i lavoratori sono stati costretti a sperimentare nuove forme di lotta. I lavoratori sanno che dalla loro parte hanno il numero, sono tanti, e comprendono che nell’unità c’è la loro forza d’urto, ma anche che nella fabbrica, per battere il dominio incontrastato del padrone, bisogna sviluppare una propria, autonoma e indipendente capacità critica della complessiva organizzazione capitalistica del lavoro. Le lotte che iniziavano con il suono improvviso dei campanacci, dei fischietti o delle sirene che davano il segnale dell’inizio dello sciopero o della ripresa del lavoro, secondo le decisioni preventivamente concordate, erano anche momenti di discussioni collettive sul contratto, sulla brutalità delle condizioni di lavoro nella fabbrica, sul complessivo sfruttamento cui è sottoposto il lavoratore.
Per il padrone e gli istituti da lui chiamati a controllare la salubrità degli ambienti di lavoro la concentrazione di polvere, gas e fumi, il calore, la rumorosità, la luminosità, i ritmi e la fatica del lavoro, la situazione è sempre normale; per i lavoratori la situazione invece è molto diversa e sentivano, e tuttora spesso sentono, che questi istituti apparentemente neutri ma pagati del padrone, li imbrogliavano e continuano a imbrogliarli.
L’indagine operaia e l’organizzazione capitalistica del lavoro
L’indagine operaia nel corso del suo procedere si rivela sempre molto più ricca di significati e implicazioni politiche di quanto non fosse nelle nostre previsioni. Se inizialmente la maggioranza di noi riteneva che la salute del lavoratore potesse essere tutelata attraverso l’adozione di strumenti protettivi (aspiratori, maschere, tute, ecc.) capaci di preservarci dalle nocività così come s’intende normalmente (calore, rumore, polveri ecc.), nel corso dell’indagine verificavamo come tutta l’organizzazione del lavoro nella fabbrica fosse essa stessa nocività. In altre parole cottimo, ritmi, orario di lavoro, organici, qualifiche, dislocazione e tipo del macchinario, costituivano insieme con il rumore, il calore, le polveri, quel tutto unico che significa sfruttamento del lavoratore.
Medicina preventiva, rapporto medico-lavoratore
Le visite periodiche, da parte dei medici di fabbrica si svolgevano in questo modo: «Si va all’infermeria, si viene pesati, viene fatto firmare un documento senza che nessuno spieghi cosa vi sia scritto. Il medico interroga il lavoratore sulle malattie subite nel recente passato, ausculta i polmoni, prova la pressione del sangue: la durata media della visita non supera i 6-7 minuti. Molte volte non c’è neppure fatta togliere la giacca». Il lavoratore si reca alla visita per pura formalità: non conoscerà l’esito reale della visita, sa che quella “visita” non c’entra nulla con la tutela della sua salute, essa fa parte di un rapporto privato tra il medico e la Direzione volto ad accertare unicamente l’efficienza produttiva del lavoratore. Col medico di fabbrica ci si confida il meno possibile per il timore di essere dichiarati inidonei al proprio attuale lavoro e di essere spostati in un altro reparto, subendo una decurtazione di salario. Nel frequente caso di disturbi e malattie ci si rivolge con fiducia al proprio medico curante, ma questi, per la cultura professionale che gli è stata generalmente impartita all’università, non conosce minimamente le condizioni di lavoro cui è sottoposto il suo paziente e quindi, non essendo in grado di stabilire un rapporto tra disturbi denunciati e ambiente di lavoro, non ha, in linea di principio, la possibilità di formulare una diagnosi corretta. Il medico si trova di fronte a malattie di cui non è in grado di controllare le cause e quindi la sua sfera d’intervento è limitata ad alleviare il dolore del paziente con dei farmaci. Questo vale per il passato, quando pensiamo all’Italia delle grandi fabbriche diffuse su tutto il territorio, con le centinaia di migliaia di operai che ci lavoravano, ma purtroppo anche per il presente.
E’ quindi necessario istituire un’efficiente medicina preventiva che, ricercando scientificamente il rapporto di causalità tra malattie tipiche della società industriale (disturbi cardiaci, reumatismi, bronchiti, tumori, ecc.) e ambiente di lavoro, intervenga sull’ambiente di lavoro per rimuovere le vere cause delle malattie.
Al tecnico della salute vanno quindi messi a disposizione tutti i dati sull’ambiente di lavoro: dati che scaturiscono dalle osservazioni sistematiche dei gruppi omogenei di lavoratori e dati rilevati con strumenti tecnici adeguati. Sulla base della nostra esperienza noi riteniamo necessario un nuovo rapporto fra medico e lavoratore, un rapporto dialettico di reciproco arricchimento di cognizioni, un rapporto che li deve vedere entrambi necessari protagonisti di una medicina a favore dell’uomo che lavora.
Controversie legali e prestazione sanitaria, registro esposti amianto
Gli ex lavoratori esposti all’amianto costretti a lavorare in fabbriche e reparti lager, come altri lavoratori e cittadini sottoposti alle fibre killer, hanno un’aspettativa di vita minore di circa 10 anni rispetto al resto della popolazione. Per questo, dopo dure lotte dei lavoratori, fu approvata nel 1992 la legge 257 che metteva al bando l’amianto, stabiliva la sorveglianza sanitaria e risarciva i lavoratori concedendo loro alcune agevolazioni in materia pensionistica poiché morivano prima. La legge fu approvata grazie alla mobilitazione dei lavoratori che manifestarono giorni e notti davanti al Parlamento che doveva approvare la legge. Allora i finanziamenti previsti dalla legge non riguardavano tutti i lavoratori esposti all’amianto, ma solo i lavoratori addetti alle miniere e fabbriche di cui si prevedeva la chiusura (circa 4.500 unità) e la legge era intesa come un ammortizzatore sociale. Le lotte dei lavoratori esposti all’amianto che rivendicavano lo stesso diritto allargò ulteriormente la platea, che nel 1993 si valutava in 50.000 unità.
Anche il registro dei lavoratori esposti o ex esposti amianto era limitato. Esso riguardava solo i lavoratori residenti nei territori, comuni e città, dove avevano sede le fabbriche, ma ignorava completamente i luoghi dove, invece, i lavoratori di queste aziende vivevano.
Ad esempio, la maggioranza dei lavoratori delle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni, Ansaldo, Breda, Falck, Marelli, Pirelli, non abitavano a Sesto San Giovanni ma in città e paesi delle provincie di Bergamo, Brescia, Milano, Varese, Piacenza, Pavia, oppure nei comuni limitrofi come Cinisello Balsamo, Cologno Monzese, Bresso, Segrate, Monza.
A tutt’oggi i pochi studi epidemiologici fatti sono falsati perché non tengono conto di dove era situata la fabbrica in cui lavoravano, ma solo del territorio dove abitavano.
Con cavilli burocratici di ogni genere, l’INAIL e l’INPS (gli enti preposti istituzionalmente a certificare l’esposizione ed erogare la pensione corrispondente) continuano a non applicare la legge, negando quella certificazione che permetterebbe ai malati e ai lavoratori ex esposti all’amianto di andare prima in pensione, nonostante la loro esposizione sia certificata dai documenti del datore di lavoro e dall’ASL.
L’INAIL in molti casi si comporta peggio di un’assicurazione privata. Per far valere i loro diritti, i lavoratori e i cittadini sono così costretti a lottare e sostenere lunghe e costose cause in tribunale – con i loro scarsi mezzi – contro l’atteggiamento dell‘INAIL lesivo della dignità, della salute, e dei diritti dei lavoratori.
Invece di indennizzare gli infortunati e le malattie professionali aumentando le rendite, l’INAIL risparmia i soldi (dei lavoratori) sulla loro pelle, usandoli per scopi non certo nobili come la speculazione finanziaria, nel più totale e complice silenzio di partiti e sindacati e istituzioni. Questo ente ha accumulato un “tesoretto” di 25 miliardi di euro, e invece di usarli per le vittime, per i lavoratori infortunati e malati aumentando le quote previste per risarcire gli infortuni e le malattie professionali, li usa per altri scopi.
L’INAIL è anche un ente in palese conflitto d’interessi, essendo quello che deve riconoscere l’esposizione all’amianto e le malattie professionali ma anche quello che deve indennizzarle.
Per far riconoscere i diritti delle vittime e stanchi delle lungaggini burocratiche, il nostro Comitato e altre associazioni più volte hanno portato la loro rabbia e la loro protesta direttamente dentro e fuori dei palazzi del “potere” e i lavoratori e le lavoratrici, insieme coi famigliari delle vittime, “armati” di fischietti, coperchi di pentole, campanacci e sirene hanno “esposto” con forza le loro ragioni, perché il tempo non gioca a favore dei malati, e delle vittime e questi enti lo sanno molto bene.
Le proteste e le lotte sono servite per fare riaprire trattative interrotte con l’INAIL e anche far sentire e vedere ai giudici nei Tribunali la voglia di giustizia delle vittime.
L’esperienza – nostra e d’innumerevoli altri comitati e associazioni di vittime presenti su tutto il territorio nazionale – ha dimostrato che la partecipazione alle lotte dei diretti interessati che partecipano in prima persona senza delegare è l’aspetto vincente e che LA LOTTA PAGA!
Prevenzione primaria e sanzioni
In mancanza di serie e certe sanzioni, molti datori di lavoro, che si arricchiscono attraverso lo sfruttamento degli esseri umani, quando accadono infortuni mortali parlano dei morti sul lavoro come di “tragedie imprevedibili”. Le chiamano “morti bianche”, come se i lavoratori assassinati fossero morti per caso, senza responsabilità di alcuno, arrivando in alcuni casi a sostenere che la colpa degli infortuni sarebbe causata della disattenzione degli operai stessi.
In Italia ci sono più di 800 mila invalidi del lavoro e 130 mila sono le vedove e gli orfani “del lavoro”.
I datori di lavoro responsabili di questi assassini, da buoni “filantropi”, hanno istituito la “Giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro” per ricordare alle potenziali vittime (i lavoratori) di stare più attenti, e mentre piangono lacrime di coccodrillo, continuano a fare profitti risparmiando sulla sicurezza. La vita e l’umanità di certi industriali non sono dettate dai battiti del cuore, ma dalla velocità con cui il capitale si accumula – sfruttando i lavoratori – e riempie il loro portafoglio. Per alcuni la perdita di vite umane nel processo produttivo è considerata fisiologica, al massimo un aumento dei costi dell’assicurazione INAIL. A questi signori, quello che interessa non è eliminare questa mattanza, ma contenere il “fenomeno degli incidenti” sul lavoro, che si traduce per loro in una perdita economica.
Secondo l’ILO (l’International Labour Office), ogni giorno muoiono nel mondo più di seimila persone per infortuni e malattie professionali. Nonostante le campagne pubblicitarie, a livello mondiale il numero dei lavoratori morti per infortuni sul lavoro e malattie professionali sono sempre da bollettino di guerra. Le malattie professionali diluiscono invece le morti nel tempo: per esposizione o contatto con sostanze nocive e cancerogene nel processo di produzione l’ILO stima che ogni anno perdano la vita circa 438.000 lavoratori, cifra senz’altro in difetto rispetto alla realtà. L’amianto, in particolare, è responsabile della morte di oltre 100.000 persone l’anno (più di 4.000 nella sola Italia), mentre la silicosi continua a colpire milioni di lavoratori e pensionati nel mondo.
Esiste una guerra non dichiarata fra sfruttati e sfruttatori in cui i morti, i feriti e gli invalidi si contano da una parte sola: quella degli operai e dei lavoratori che producono la ricchezza da cui sono esclusi. Così scriveva Giovanni Berlinguer (Medicina del lavoro in La salute nella fabbrica, edizioni Italia – URSS, Roma 1972, pag, 32): “Nel ventennio1946–1966 si sono verificati in Italia 22.860.964 casi di infortunio e di malattia professionale, con 82.557 morti e con 966.880 invalidi. Quasi un milione di invalidi, il doppio di quelli causati in Italia dalle due guerre mondiali, che furono circa mezzo milione. Mentre la media degli infortuni e malattie professionali nel ventennio 1946– 1966 è stata lievemente superiore ad 1 milione di casi annui, negli anni dal 1967 al 1969 la cifra è salita ad oltre 1,5 milioni di casi e nel 1970 ad 1.650.000 di casi”. Sono passati più di 40 anni da questo studio, ma la condizione della classe operaia italiana è in continuo peggioramento.
Nella crisi si riducono i posti di lavoro, ci sono meno lavoratori occupati, diminuiscono lievemente i morti, ma in percentuale aumentano sia i morti sia gli infortuni. L’Eurispes ha calcolato che dall’aprile 2003 all’aprile 2007 i militari della coalizione che hanno perso la vita in Iraq sono stati 3.520, mentre dal 2003 al 2006 in Italia i morti sul lavoro sono stati ben 5.252 e l’età media di chi perde la vita è intorno ai 37 anni. Gli incidenti sul lavoro in Italia hanno fatto più morti fra i lavoratori che fra i soldati del patto occidentale nella 2° guerra del Golfo.
Secondo dati Eurostat (del 2005) ogni anno 5.700 persone muoiono a causa di incidenti sul lavoro. L’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) stima che altri 159.500 lavoratori perdano la vita a causa di malattie professionali. Sommando i dati si stima che nell’Unione Europea ci sia un decesso per cause legate all’attività lavorativa ogni 3 minuti e mezzo Anche le malattie professionali non tabellate sono in aumento: nel 2002 erano il 71%, nel 2006 sono arrivate all’83%, mentre l’istituto calcola in 200mila gli incidenti sommersi e non denunciati.
Di lavoro si continua a morire
Questi dati ci dicono che avremmo bisogno di prevenire gli “incidenti” con leggi, sanzioni e una medicina preventiva in grado di rintracciare le cause che producono malattie e morte e di eliminarle. Questo non succede perché non è l’interesse della società del profitto. In questa società gli esseri umani sono trattati come merce, come cose, e la natura ridotta a qualcosa da saccheggiare selvaggiamente; da qui la causa delle “catastrofi naturali” – siano terremoti, crolli, inondazioni – che di naturale non hanno proprio niente. Una società che ha il suo fondamento nella Costituzione Repubblicana, Costituzione che nell’art. 32 recita “La Repubblica Italiana tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e della collettività”, arrivando a dichiarare che la stessa iniziativa privata – pur essendo libera – “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41 II comma cost.) richiederebbe norme e leggi, un sistema sociale e una medicina veramente al servizio degli esseri umani per prevenire questi “disastri”, cosa che non avviene.
L’amianto e tutte le sostanze cancerogene provocano danni che sono all’origine di numerosi tumori. Ormai il mondo scientifico è in grandissima maggioranza ben cosciente che non esistono soglie di sicurezza o di tolleranza alle sostanze cancerogene. Sebbene sia necessario, non basta predisporre dispositivi di protezione individuali o collettivi per la riduzione del rischio, ma bisogna adoperarsi affinché il pericolo sia ridotto a zero. L’esposizione alle fibre di amianto o di altre sostanze cancerogene riduce l’aspettativa di vita di chi è stato esposto facendo vivere lui e la sua famiglia nel terrore di ammalarsi. L’esposizione alle sostanze cancerogene nei luoghi di lavoro e nella società colpisce generalmente gli strati sociali più sfruttati. Infatti, sono i più poveri che non possono pagarsi il grande clinico che rassicura e toglie almeno l’ansia di ammalarsi. Il movimento operaio e popolare si deve battere per il “rischio zero”. Deve lottare per imporlo alle associazioni padronali e allo stato. Non possiamo accettare, sotto il ricatto del posto di lavoro, di rimetterci la salute e la vita, e di ipotecare il futuro per le nuove generazioni inquinando senza più rimedio il pianeta.
Le lotte del movimento operaio, dei lavoratori e dei cittadini organizzati in Comitati e Associazioni, hanno contribuito a rompere il muro di omertà e complicità con i responsabili di questi assassinii, facendo pressione sulle istituzioni, “costringendole” in molti casi a perseguire i responsabili. In questi anni abbiamo visto una giustizia che, spesso, difendeva solo una parte dei cittadini: quella degli industriali.
Di solito, vediamo governi e istituzioni (di qualsiasi colore politico) che – mentre proclamano di essere al di sopra delle parti – riconoscono come legittimo il profitto e legalizzano lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dimostrando di essere in realtà dei “comitati d’affari”, arrivando nella migliore delle ipotesi a punire con una semplice ammenda gli omicidi e i morti sul lavoro e di lavoro.
Nel nostro paese i diritti sanciti nella Costituzione sono tuttora subordinati ai poteri forti e sono applicati solo se compatibili con essi.
Non si può subordinare la salute e la vita umana alla logica del profitto, ai costi economici aziendali o ai bilanci dello stato. Una società che mercifica tutto, e che trasforma in profitto la malattia, la vita e la morte, senza rispetto per la vita umana, è una società barbara, in cui gli operai e i lavoratori continueranno a morire sul lavoro e di lavoro e le sostanze cancerogene presenti in fabbrica e sul territorio, se non si eliminano, continueranno ad uccidere gli esseri umani e la natura.
“Libertà, legalità, giustizia per tutti” rimangono parole astratte, principi vuoti di significato se le classi sottomesse non hanno i mezzi economici e politici per farli rispettare.
Anche se le leggi e la Costituzione Repubblicana affermano che l’operaio e il padrone sono uguali e hanno gli stessi diritti, la condizione di completa subordinazione economica fa si che la “libertà” e l’”uguaglianza” dei cittadini sia solo formale.
Tutela della salute
I limiti “ammessi” imposti per legge alle sostanze cancerogene non danno nessuna garanzia alla tutela della salute. La salute è continuamente esposta a rischi. Lo vediamo con il continuo aumento dell’inquinamento per polveri sottili e altre sostanze nelle nostre città e con il continuo superamento delle soglie. Anni fa, in alcuni paesi della Lombardia, la soglia di atrazina nelle falde acquifere da cui si estraeva l’acqua potabile era di molto superiore ai limiti legali imposti dalla legge europea. Dato che non si poteva (o non si voleva) riportarla sotto la soglia di sicurezza e nei limiti previsti da tale legge, il legislatore ha pensato bene di risolvere il problema alzando i limiti di legge previsti, “legalizzando” così l’inquinamento, facendo diventare legale l’acqua inquinata.
La lotta per pretendere e imporre condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro e nella società riguarda tutti. Lottare per ambienti salubri e un mondo pulito significa lottare contro chi – pur di fare soldi sulla pelle dei lavoratori e cittadini – condanna a morte migliaia di esseri umani, anteponendo i suoi interessi privati a quelli collettivi della società come succede in ogni regione del nostro paese, dal Nord al Sud. In una società civile la salute viene prima di tutto.
Sorveglianza sanitaria
La sorveglianza sanitaria prevista dalla legge 257/92 per i lavoratori esposti o ex esposti amianto in molte regioni italiane non è ancora applicata. In Lombardia abbiamo dovuto lottare per anni contro la Regione Lombardia e l’Asl per far valere questo diritto previsto dalla legge. Dopo anni di lotte, manifestazioni davanti alle sedi Asl e alla Regione, chiedendo l’applicazione della legge, siamo riusciti a farla applicare. E’ stata un’importante vittoria, perché insieme con quella dei lavoratori abbiamo ottenuto la sorveglianza sanitaria anche per i familiari degli esposti all’amianto. Grazie alle lotte dei lavoratori, dei comitati e delle associazioni, la Regione Lombardia già nel 2007 aveva previsto la sorveglianza sanitaria anche per il coniuge della persona esposta. “Prevenzione” è sempre stata la parola d’ordine del Comitato e – insieme alla prevenzione primaria che riguarda le bonifiche dell’amianto in tutto il territorio nazionale, e non solo – ci siamo posti anche l’obiettivo della sorveglianza sanitaria per i familiari degli esposti all’amianto. Noi abbiamo voluto partire dalle mogli, quelle più a contatto con l’amianto portato in casa dai mariti, estendendo anche a loro i controlli sanitari ed è motivo di orgoglio per tutti noi aver raggiunto anche questo risultato. E’ cominciata così la sorveglianza sanitaria anche per le donne che non hanno mai indossato una tuta blu, ma hanno lavato per anni quelle dei mariti, come è successo a Carmela Maganuco, moglie di un operaio della Breda, scomparsa a 53 anni nel novembre del 2009 per un carcinoma esteso a entrambi i polmoni. In un incontro alla Clinica del Lavoro di Milano organizzato dal Comitato, i medici, prima delle visite, hanno spiegato quali rischi correvano i familiari degli ex esposti all’amianto e le modalità con cui venivano effettuati i controlli, spiegazioni a cui seguiva un dibattito. Ancora una volta, la lotta e la partecipazione massiccia degli associati del Comitato hanno dimostrato che risultati importanti si possono raggiungere se esistono consapevolezza e chiarezza sugli obiettivi da raggiungere.
La nostra storia per molti aspetti è simile a quella dei lavoratori di moltissime altre fabbriche. E’ simile nelle responsabilità dei vertici aziendali, che sapevano in anticipo della pericolosità dell’amianto, dei rischi che correvano i lavoratori degli omicidi annunciati e dei crimini ambientali provocati dall’amianto alla Breda Fucine e nelle fabbriche di Sesto San Giovanni (Mi), ma nulla hanno fatto per impedirli. Sono diverse le sostanze cancerogene usate nei processi di produzione, ma ovunque è simile il ruolo che governo, istituzioni, magistratura, l’INAIL e l’INPS hanno finora avuto in queste vicende.
Nascita del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio Lotte operaie, verità storica e verità giuridica
Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia è stata, e continua a essere, una delle città più inquinate d’Europa. Anche oggi che i 42.000 posti di lavoro delle sue fabbriche sono stati eliminati, continuano a persistere gravi problemi ambientali con danni alla salute dei lavoratori e alla popolazione. Già nel 1978 lo S.M.A.L. (Servizio di Medicina Preventiva per gli Ambienti di Lavoro) di Sesto denunciava – in vari rapporti inviati all’Assessorato alla Sanità, all’Ufficiale Sanitario, all’Ispettorato del Lavoro, ai sindacati (CGIL/CISL/UIL) – la pericolosità delle lavorazioni effettuate nei reparti della Breda: lavorazioni e scorie nocive (amianto, cromo, nickel, piombo, ecc.) che, oltre agli operai, avvelenavano tutta la popolazione. L’azienda, piuttosto che interrompere o rallentare la produzione per le necessarie bonifiche all’ambiente di lavoro, preferiva pagare le multe – irrisorie – e tirare avanti. Nel 1992 – a conclusione di un’inchiesta operaia indipendente, alcuni operai che in seguito furono tra i fondatori del Comitato, riuscirono a collegare le lavorazioni effettuate in fabbrica con l’insorgere di molti tumori fra i lavoratori della Breda Fucine di Sesto San Giovanni, e nel 1997 è nato formalmente il Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio che, da allora, si sta battendo per ottenere giustizia per i lavoratori morti, i loro familiari, i malati e quanti si ammaleranno, purtroppo, nel futuro. Negli anni il Comitato si è allargato ai lavoratori delle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni che avevano produzioni similari e ai cittadini che a Sesto vivono.
Noi lavoratori siamo stati per anni confinati in reparti “mattatoi”, costretti a respirare i fumi e le polveri, esposti alle sostanze nocive e cancerogene, alle radiazioni delle saldature con protezioni “antinfortunistiche” fatte di coperte e lenzuola d’amianto che si frantumavano, disperdendosi nell’aria e poi entrando nei polmoni dei lavoratori.
Più volte, insieme coi nostri compagni di lavoro, abbiamo protestato per la mancanza d’aspiratori e delle condizioni di sicurezza, denunciando che – mentre tutti parlavano di robotica o di fabbrica automatizzata – in fabbrica ci si ammalava e si moriva. Ogni volta, davanti alle proteste, la direzione aziendale minacciava la chiusura della fabbrica e i sindacati si appellavano al senso di responsabilità dei lavoratori affinché la produzione e l’estrazione del profitto non fossero interrotte. I “sacrifici” non hanno evitato lo smembramento della fabbrica, la cassa integrazione e la chiusura della Breda.
Lo stesso processo è avvenuto nelle altre fabbriche sestesi, con la chiusura della Falck, dell’Ercole Marelli, della Magneti Marelli, dell’Ansaldo, della Pirelli e di tutte le altre grandi fabbriche. Molti lavoratori, oltre a quelli della Breda, hanno avuto la salute rovinata, hanno perso la vita. Ogni anno muoiono nel mondo per cause legate all’attività lavorativa 2 milioni di persone, mentre gli infortuni totali sono 270 milioni.
Nella” civile” Italia gli infortuni sul lavoro sono un milione (molti infortuni di lavoratori in nero non sono conteggiati dalle statistiche) e circa 1000 i morti (forse anche di più considerati quelli in itinere che muoiono sulle strade e la cui morte spesso non è riconosciuta come infortunio mortale, e viene riconosciuta solo dopo lunghi processi). A questi dati agghiaccianti vanno aggiunti i morti per malattie asbesto-correlate che ogni anno uccidono più di 4000 esseri umani.
E’ in questa situazione che si colloca la nostra lotta.
Per anni nella nostra ricerca della verità siamo stati ostacolati, derisi, repressi, in fabbrica dal padrone e dal sindacato e nella società dalle istituzioni che ci facevano passare in un primo tempo per pazzi e in seguito per terroristi, dicendo che ci inventavamo tutto, che ingigantivamo i rischi derivanti dall’esposizione delle fibre d’amianto e di altre sostanze cancerogene e che per questo spaventavamo la popolazione. Dopo anni di battaglie, 19 denunce archiviate e 84 lavoratori uccisi dal killer amianto, in un primo processo che siamo riusciti a far istruire, terminato il 12 febbraio 2003, i dirigenti Breda furono assolti perché “ il fatto non sussiste ” come se le 84 morti fino a quel momento accertati dal nostro Comitato non fossero mai esistiti. Le testimonianze degli operai nel corso del processo invece avevano accertato altri fatti: l’amianto c’era, era utilizzato in modo massiccio, l’azienda era informata (dal Servizio di Medicina del lavoro, nei rapporti che questo fece nel corso di una decina di anni) dei rischi mortali che gli operai correvano (rischi puntualmente verificatisi), ma l’economia aziendale e i profitti venivano prima.
Questa è la verità storica emersa dalle testimonianze, ma ancora una volta la “verità giuridica” ha continuato per anni ad affermare il contrario, perché riconoscere questi fatti, avrebbe significato mettere sotto accusa un intero sistema industriale basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo perché fondato sulla logica del profitto.
Nel settembre 2003 abbiamo portato sul banco degli imputati altri 12 dirigenti della Breda Ferroviaria/Ansaldo per rispondere dell’omicidio colposo di un operaio morto di mesotelioma della pleura. L’accusa al termine del processo chiese la condanna a 18 mesi di reclusione per 9 dei 12 dirigenti processati. Il 5 gennaio 2005, il giudice, pur riconoscendo valide le nostre tesi e la colpa di 9 dei 12 dirigenti (tre sono stati assolti), concedendo “le attenuanti generiche, perché, incensurati, e anziani, avanti negli anni” sentenziò il “non doversi procedere per intervenuta prescrizione”. Così pur essendo stati riconosciuti colpevoli di questa morte, nessuno di loro ha mai pagato perché è intervenuta la prescrizione, anche se in seguito (nel 2006) riuscimmo a costringere la Breda/Ansaldo a risarcire la famiglia pochi giorni prima che fosse votato dal parlamento (in modo bipartisan dal centrosinistra e centrodestra), su proposta del governo Prodi, l’indulto che graziava le pene fino a tre anni e metteva fra i reati indultati l’omicidio colposo dei datori di lavoro che avevano mandato consapevolmente a morte i lavoratori. Per anni un muro di omertà e di complicità da parte di Confindustria, Istituzioni, governi, partiti e sindacati ha ignorato il dolore dei lavoratori ammalati, dei loro famigliari, degli operai che nelle fabbriche e nel territorio si battevano perché la salute non fosse considerata una merce e non fosse fonte di profitto, soffocando la loro voglia di giustizia, anche se alla fine, nel nostro caso, i lavoratori non si sono arresi.
In questi anni migliaia di lavoratori italiani, i loro familiari e intere famiglie sono state sterminate dal pericoloso e silenzioso killer (amianto) e molti aspettano invano da molto tempo giustizia. In molti casi le cause si trascinano per anni, e per i processi penali questo significa prescrizione e quindi impunità per i datori di lavoro e i dirigenti responsabili della morte di centinaia di lavoratori, a parte pochi episodi in cui sono stati riconosciuti colpevoli.
L’unico diritto riconosciuto è quello di fare profitti, a questo sono subordinati tutti gli altri “diritti umani”. Le leggi, le norme, una giustizia che protegge in ogni modo i padroni, un intero sistema economico, politico e sociale fa sì che la salute e la vita umana, davanti ai profitti, passino in secondo piano.
Da anni combattiamo il killer che per noi si chiama amianto. Ma in altri luoghi si chiama PVC, si chiama diossina, si chiama disastro ferroviaviario (strage di Viareggio) e ha tanti altri nomi ancora, veleni delle Terre dei fuochi“ in Campania, TAV in Val di Susa, ecc. Tuttavia, anche se le situazioni sono diverse, la causa principale è una sola: il sistema capitalista dove la logica del profitto prevale su tutto. Il diritto alla salute è disatteso e va peggiorando sempre di più, sia nei luoghi di lavoro che in generale nella società perché, con la scusa della crisi, i primi tagli che vengono fatti sono quelli legati alla sicurezza sui luoghi di lavoro e del territorio. Lo stesso avviene a livello sociale: stanno privatizzando tutto, in primo luogo la sanità.
La verità è che oggi non esiste una Costituzione che tuteli i lavoratori, esiste una Costituzione che sancisce il diritto al lavoro, il diritto allo studio, alla salute, il ripudio della guerra, come l’art. 11, che però viene smentita ogni giorno nella pratica da chi santifica e difende il profitto, da padroni, governi e istituzioni, da chi chiude fabbriche trasferendole all’estero, licenzia, taglia scuole e ospedali e questi interessi privati o di casta vengono prima di tutti gli altri diritti.
Fino al 1992 l‘amianto non era fuorilegge (è stato messo fuorilegge nel 1992, dopo dure lotte) e ai padroni conveniva pagare una multa – irrisoria – invece che bonificare i reparti, le fabbriche e i luoghi di lavoro. Quindi padroni e dirigenti sapevano di mandare a morte i lavoratori, ma il problema della competitività aziendale, il problema della logica del profitto, veniva prima della pelle dei lavoratori. Quando noi lavoratori abbiamo scoperto che di questo erano complici tutti – perché c’era un sistema sociale, economico, politico, giuridico, che legittimava lo sfruttamento degli esseri umani e metteva in conto che noi dovevamo morire per ingrassare i padroni ecco che, allora, la paura è diventata prima rabbia e poi coscienza e organizzazione. Quando si scopre che tutti sapevano e non hanno fatto niente per impedire queste morti annunciate, allora chiunque capisce che se sono tutti d’accordo è perché tutti hanno i loro vantaggi dallo sfruttamento dei lavoratori ed è a questo sistema che bisogna opporsi. La nostra lotta ci ha fatto comprendere che non esistono istituzioni neutrali. Ha dimostrato a molti lavoratori che la frase, scritta nelle aule dei tribunali italiani “la legge è uguale per tutti” non corrisponde a verità. In questa società chi non ha soldi difficilmente può far valere le sue ragioni.
Noi comunque non ci arrendiamo. Anche se molti tribunali hanno emesso sentenze assolutorie verso i padroni, sostenendo che “uccidere i lavoratori in nome del profitto non è reato”, continueremo a lottare, fuori e dentro le aule dei tribunali, perché vogliamo e pretendiamo giustizia. Per noi la verità storica è ormai stata accertata dai fatti: per quella giuridica continueremo a batterci.
La lotta per ottenere giustizia contro lo Stato Italiano e l’INAIL, che hanno permesso che migliaia di operai subissero gravi malattie a causa del lavoro, tutelando in nome del profitto la produzione di morte, è stata oggetto anche di una causa presentata alla Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo dalle associazioni (fra cui la nostra) che da anni si battono per la difesa della salute e della vita umana, per ottenere giustizia per tutte le vittime dell’amianto per tutelare la salute quale fondamentale diritto dell’individuo, per il diritto alla vita, perché crediamo che ogni persona abbia diritto a un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole.
Cause lunghissime di anni, che spesso terminano per la sopraggiunta morte dei lavoratori già minati nel fisico. Processi penali che durano decenni e che, anche in casi di condanna dei datori di lavoro per omicidio colposo, con la prescrizione concedono l’impunità ai responsabili della morte di centinaia di migliaia di lavoratori. La nostra esperienza ci ha però insegnato che non basta avere ragione. Bisogna avere la forza e i numeri per farla valere. Quando in questi anni la magistratura ci archiviava continuamente i processi, abbiamo continuato a lottare, aprendo nuovi fronti.
Il fronte politico-sindacale, cercando di dimostrare che la lotta dei lavoratori della Breda Fucine e delle altre fabbriche contro l’amianto e le sostanze nocive faceva parte della lotta del movimento dei lavoratori per la difesa della salute e che interessava tutti quelli che vivevano e vivono condizioni simili alla nostra. Il fronte sociale, raccogliendo dati che dimostravano che l’amianto e le altre sostanze nocive uscendo dalle fabbriche si disperdevano nell’aria, nelle falde acquifere, avvelenando tutto il territorio, e traducendoli in lotta che riguardava tutta la società. Abbiamo così stabilito relazioni e costruito momenti di dibattito e di lotta con molti comitati che si muovevano su problemi simili ai nostri, riuscendo a coinvolgere il quartiere e la città intorno alla fabbrica e ottenendo il sostegno degli abitanti, costringendo l’amministrazione comunale di Sesto San Giovanni a costituirsi parte civile nel processo contro i dirigenti della fabbrica Breda Fucine. Il fronte giudiziario, inviando lettere di protesta con centinaia di firme ai magistrati che archiviavano i processi, organizzando assemblee e picchettaggi in tribunale con cartelli e striscioni, inviando migliaia di cartoline alla Procura della Repubblica di Milano con sopra scritto: “La morte sul lavoro non è mai una fatalità! La magistratura non deve archiviare i morti in Breda”, arrivando a occupare per oltre un’ora l’aula del tribunale il giorno in cui il giudice ha assolto i 2 dirigenti della Breda imputati della morte di 6 lavoratori e lesioni gravissime di un settimo. Il fronte contro l’INAIL. Per anni quest’istituto si è comportato peggio di qualsiasi assicurazione privata. Non solo non ha riconosciuto ai lavoratori ex esposti all’amianto, i cosiddetti “benefici pensionistici” accampando pretestuose motivazioni, ma è arrivato a negare molte volte il riconoscimento di malattia professionale previsto dalla legge anche a quelli con placche pleuriche diagnosticate dalla Clinica del Lavoro di Milano. Solo negli ultimi anni grazie alle lotte e alle sentenze vinte dai lavoratori esposti ed ex esposti all’amianto, siamo riusciti a far valere le nostre ragioni e ad avere un briciolo di giustizia, anche se, per molti, tardiva.
Delega e auto-organizzazione
Noi ci siamo autorganizzati, non abbiamo delegato a nessuno la difesa dei nostri diritti. Abbiamo fondato il Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio proprio perché noi siamo le vittime che vogliono e pretendono giustizia e vogliono impedire che episodi simili continuino a ripetersi in altri posti. Non permettiamo a nessuno di parlare in nome e per conto nostro. Noi interloquiamo con chiunque, ma siamo indipendenti dal punto di vista teorico, politico, sindacale, organizzativo ed economico da tutti. Non abbiamo mai chiesto soldi a Comuni, Provincia, Regione, come fanno molte associazioni, per un semplice fatto: perché abbiamo capito che, fossimo stati dipendenti economicamente, politicamente o altro, nella misura in cui fossimo entrati in contraddizione, saremmo stati ricattabili. In questi anni abbiamo assistito impotenti alla morte di tanti compagni, versato lacrime di dolore senza poter far nulla per aiutarli, se non stargli vicino fino alla fine con la nostra presenza, ma questo ha aumentato la nostra rabbia, e la voglia di giustizia. Siamo cresciuti nella lotta , perché è cresciuta la determinazione di chi lottava. La lotta per la giustizia si è scontrata sempre con tutte le istituzioni e questo ha fatto comprendere a molti che il problema non era dovuto solo all’amianto, ma che questo era il problema di una società che trasforma la salute e la vita umana in una fonte di profitto, che privatizza tutto compreso la salute. Una privatizzazione della sanità dove solo chi ha i soldi può permettersi cure adeguate.
Il profitto prima di tutto Per questo sistema sociale è normale che gli operai muoiano in nome del profitto, l’unico problema è che il numero dei morti ogni anno sia contenuto. Da due anni Confindustria, INAIL, governi, il Capo dello Stato gridano vittoria perché gli infortuni sono scesi sotto il milione e i morti sul lavoro sono passati da 1.200 a poco meno di 1.000, dimenticando spesso di dire che nel frattempo oltre 3 milioni di persone sono stati espulsi dai posti di lavoro, licenziati o cassintegrati. Per i padroni e le istituzioni che i morti sul lavoro stiano sotto quota mille è un limite accettabile, è tollerabile. Per noi non è tollerabile neanche un morto sul lavoro, perché lo consideriamo un crimine contro l’umanità, per questo chiediamo che sui morti sul lavoro e sui morti di lavoro o da lavoro, venga abolita la prescrizione. Oggi per questi crimini la legislazione prevede, per l’omicidio colposo, un massimo di pena di tre anni. Non si è mai visto un padrone andare in galera in Italia, al limite lo mettono agli arresti domiciliari, come padron Riva, ma agli arresti domiciliari nelle loro ville che sono grandi come una cittadina, per cui pensate un po’ che fatica che fanno a scontare la pena. Il nostro Comitato da sempre si batte per ottenere giustizia per i lavoratori morti e ammalati: per questo nei processi in cui si presenta parte civile, chiede un euro di risarcimento (1 euro). Pur comprendendo che i famigliari delle parti offese possano accettare un risarcimento economico per il danno subito, noi consideriamo molto grave che le istituzioni (Inail, Asl, Regione, sindacati) accettino transazioni economiche mercanteggiando sulle malattie e sulla vita umana come si fosse al mercato delle vacche. I cavilli legali e le trattative private fra istituzioni e padroni responsabili degli assassini di lavoratori servono solo ad avvicinare la prescrizione garantendo l’impunità ai colpevoli. Per noi la salute e la vita umana non sono in vendita e non hanno prezzo. Gli assassini devono subire condanne e sanzioni esemplari che servano da monito a chi non rispetta le norme di sicurezza, perché sulla salute e la vita non si tratta. Noi siamo da sempre contro la monetizzazione della salute e della nocività. Per noi la salute non si paga, ma si tutela e la nocività e le sostanze cancerogene si eliminano dalle fabbriche, dai luoghi di lavoro e dalla società. Noi non vogliamo solo giustizia per i lavoratori e i cittadini morti e malati, ma vogliamo una società civile, dove la salute e la vita umana e l’ambiente siano salvaguardati mettendoli prima del profitto. Se i lavoratori e i cittadini vogliono affermare e difendere il loro diritto alla salute, alla giustizia, alla tutela dell’ambiente e della natura, non devono più delegare a nessuno la difesa dei loro interessi. Dobbiamo lavorare per costruire un grande movimento che unifichi tutte le lotte operaie e popolari, nella battaglia contro lo sfruttamento, per la difesa della salute e della vita umana. Bisogna lottare per imporre condizioni di sicurezza sui posti di lavoro e nel territorio, perchè altri non debbano subire e patire quello che hanno subito i nostri compagni e i loro familiari.
Michele Michelino e Daniela Trollio
Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio Via Magenta 88 – 20099 Sesto San Giovanni (Mi), telefax 02.26224099
Mail: cip.mi@tiscali.it
Sito Internet del Comitato: http://comitatodifesasalutessg.jimdo.com
Nota: Alcuni spunti del presente scritto sono inseriti nel libro “Operai, carne da macello” di Michelino – Trollio e nel libro “1970 – 1983 la lotta di classe nelle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni” di Michele Michelino e sono reperibili gratuitamente in internet.
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