Più italiani all’estero che immigrati in Italia.
Negli ultimi dieci anni, più o meno un milione e mezzo di cittadini italiani sono emigrati all’estero. Si è passati infatti dai 3.106.251 iscritti all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) del 2006 ai 4.636.647 del 2015, registrando una crescita del +49,3%.
Emblematico di questo boom di partenze sono i luoghi di origine. Non si parte più o non solo dalle città impoverite del Meridione ma anche dalle più prospere (o ex tali) città del nord. C’è quindi un cambiamento della composizione sociale della emigrazione italiana che va compreso a fondo, sia per le sue ripercussioni sul paese sia sulle politiche europee di spoliazione delle risorse dei paesi più deboli (Grecia, Spagna, Portogallo e Italia soprattutto) che sui paesi in cui viene concentrato il capitale umano più qualificato reso disponibile dalla disoccupazione e dalla mancanza di prospettive nei paesi più deboli. Non è un mistero che siano Germania e Gran Bretagna a fare da padroni in questo processo di concentrazione delle migliori risorse umane disponibili nell’Unione Europea e nel suo cortile di casa (vedi la politica tedesca sui profughi siriani).
Ad accentuare questa fuga di capitale umano dall’Italia – scarsamente rimpiazzata dall’arrivo di immigrati dai paesi del sud del mondo – è stata indubbiamente la crisi e poi la recessione che ha portato ad una disoccupazione di massa, alla chiusura di fabbriche e alle ridottissime possibilità di lavoro vero messe a disposizione dei giovani laureati e diplomati.
Lo scorso anno, ad esempio, da gennaio a dicembre 2014, hanno trasferito la loro residenza all’estero per espatrio 101.297 cittadini italiani, in prevalenza uomini (56,0%), celibi (59,1%), tra i 18-34 anni (35,8%), partiti dal Nord Italia (con ogni probabilità dalla Lombardia) per trasferirsi, soprattutto in Europa (probabilmente in Germania o Regno Unito). Ad esaminare questi dati – e a fornire un quadro desolante ma significativo sul rapporto tra emigrazione e sviluppo – è il Rapporto Migrantes 2015, curato dalla Cei. Si tratta di dati reali che rendono risibili, ridicole e amene le sparate demagogiche di Salvini ma che inchiodano al muro anche la demagogia di Renzi sul paese che va bene.
La crescita della fuga di capitale umano dall’Italia, in valore assoluto, è di tutte le classi di età. In particolare dei 101mila cittadini italiani emigrati all’estero nel 2014, 62.797 sono giovani in età lavorativa avendo tra i 18 e i 49 anni; i minori sono 20.145 e di questi il 12,8% ha meno di 10 anni. Ci sono poi i pensionati che hanno verificato come quelle che sono pensioni da fame in Italia consentono magari esistenze più dignitose in paesi con il costo della vita è più basso. Nel 2014 sono emigrate 7.205 persone sopra i 65 anni, di cui 685 hanno più di 85 anni.
Ovviamente è stata la Germania, con 14.270 trasferiti, la meta preferita di questa fuga di capitale umano. A seguire il Regno Unito (13.425) – primo paese lo scorso anno – seguita dalla Svizzera (11.092) e dalla Francia (9.020).
Anche per il 2015, si conferma che la recente mobilità italiana è soprattutto dalle regioni settentrionali. La Lombardia, con 18.425 partenze, è, infatti, per il secondo anno consecutivo, la prima regione seguita da una importante novità ovvero il balzo in avanti della Sicilia che dalla quarta posizione del 2014 arriva, nel 2015, alla seconda. Sono ben 110 le province da cui sono partiti gli italiani nel corso del 2014. Milano, con 6.386 persone, guida la classifica e ha superato, rispetto allo scorso anno, Roma (5.974 partenze). Gli aumenti più consistenti tra le prime 10 province per numero di partenze si sono registrati a Udine (86,1%) e Varese (46,2%).
Ma quale tipo di capitale umano sta svuotando il nostro paese da risorse indispensabili per il suo sviluppo? Ci sono sicuramente migliaia di giovani e meno giovani competenti nelle nicchie di eccellenza del made in Italy (la ristorazione o le rifiniture edilizie per esempio), ma la migrazione di capitale umano qualificato è cresciuta in modo inquietante, incentivata sia dalla destrutturazione del sistema di istruzione pubblico a livello di scuola e università, sia da operazioni come quelle di Hartz in Germania concepite proprio per rastrellare capitale umano qualificato dagli altri paesi europei.
Il fenomeno dell’emigrazione per ragioni lavorative, tra i laureati, è tendenzialmente in crescita negli ultimi anni. L’ultimo rapporto AlmaLaurea conferma infatti un quadro occupazionale tuttora difficoltoso in Italia, pur rilevando, con esclusivo riferimento ai laureati ad un anno dal titolo, qualche timido segnale di ripresa: il tasso di disoccupazione figura infatti in leggera contrazione e le retribuzioni risultano in lieve aumento. In particolare, le differenze più consistenti tra i laureati impiegati all’estero e quelli occupati in Italia riguardano le prospettive di guadagno (7,4 in media contro 6,2 su una scala 1-10) e di carriera (7,4 contro 6,3), la flessibilità dell’orario di lavoro (7,7 contro 6,9) e il prestigio che si riceve dal lavoro (7,6 contro 6,8).
La rilevazione effettuata ad hoc da Alma Laurea mette in evidenza che la gran parte (82%) degli intervistati ha trovato occupazione in Europa e un ulteriore 10% è invece oltreoceano, nel continente americano (sia nel nord che nel sud); marginali le quote di chi si trova in altre aree.
Il Regno Unito (16,5%), la Francia (14,5%), la Germania (12%) e la Svizzera (12%) risultano essere i paesi europei più attrattivi per motivi di lavoro. I laureati di secondo livello dichiarano di essersi trasferiti all’estero principalmente per mancanza di opportunità di lavoro in Italia (38%) e, in subordine, per aver ricevuto un’offerta interessante (in termini di retribuzione, prospettive di carriera e competenze tecniche o trasversali meglio valorizzate) da un’azienda o un ente estero (24%).
Che il fenomeno della fuga di capitale umano sia tutt’altro che momentaneo, emerge poi dalle risposte di chi è andato a lavorare all’estero. La prospettiva di rientro in Italia, nel medio termine (cinque anni), risulta infatti assai modesta: il 42% dichiara che è molto improbabile a causa della grande incertezza rispetto al mercato del lavoro italiano. All’opposto, solo 1 su 9 è decisamente ottimista, ritenendo il rientro molto probabile; i restanti si dividono tra chi lo ritiene poco probabile (28%) e chi non è in grado di sbilanciarsi (18,5%).
Il processo di spoliazione del nostro paese di capitale umano qualificato, diventa ancora più pesante nel caso di coloro che dopo la laurea hanno fatto un dottorato di ricerca. I dottori di ricerca che lavorano all’estero ad un anno dal titolo sono infatti prevalentemente, uomini, più giovani e provengono da contesti familiari più favoriti. Decidono di trasferirsi all’estero soprattutto i dottori di ricerca in Scienze di base (18%) e Ingegneria (11%); per le altre macroaree i valori sono inferiori al 9%, addirittura si riducono al 6% nell’area in Scienze economico-giuridico-sociali.
Il ramo di attività economica in istruzione e ricerca, coerentemente con gli studi dottorali compiuti, è il prevalente; resta pur sempre vero che all’estero è assorbito da tale settore il 55% dei dottori, 12 punti percentuali in più rispetto a quanto osservato in Italia. Ciò è vero in particolare per i dottori di ricerca di Scienze di base e di Ingegneria. Ad un anno dal dottorato il 52% dei dottori risulta occupato all’estero come ricercatore o docente universitario, senza particolari differenze per macroarea, contro il solo 21% rilevato in Italia.
Ma se un paese lascia andare le sue risorse umane più qualificate (e uno o più paesi forti le rastrellano sistematicamente nei paesi europei periferici), quale sarà la sua possibilità di sviluppo? L’Unione Europea si conferma così come lo schermo delle opportunità che nasconde la realtà di una crescente disuguaglianza, una ipoteca che nei prossimi anni peserà ancora di più di quanto fatto nei ventitre anni passati dall’introduzione del Trattato di Maastricht, in pratica l’inizio dell’apocalisse sociale e politica del nostro paese e dei paesi Pigs.
Lorenzo Bedin
14/11/2015 www.contropiano.org
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