Piuttosto, esplodiamo

«Come stai?» Quante volte ci si è chiuso lo stomaco di fronte a questa domanda negli ultimi mesi? Quante volte abbiamo risposto in maniera evasiva, con un superficiale «tutto bene», o con un più sincero «una merda»? D’altronde è evidente che non va tutto bene.

Un anno fa abbiamo iniziato a capire quanto sia doloroso restare lontani un metro. L’abbiamo fatto lo stesso perché ci trovavamo, privə di strumenti, di fronte a un’emergenza inedita. Adesso, nel pieno della terza ondata pandemica, l’emergenza è diventata una nuova normalità. Prendiamo sempre la mascherina uscendo di casa senza doverci pensare, sanificare le mani con il gel è diventato un gesto automatico, così come ritrarsi istintivamente quando ci si avvicina qualcuno.

Anche altri gesti sono ormai diventati “normali”: deglutire farmaci per calmare l’ansia o per dormire, tentare di far entrare l’aria nei polmoni durante un attacco di panico, scattare di rabbia per motivi di poco conto, sentire lo stomaco che si contrae di fronte a una spesa imprevista, alla notizia di una nuova impennata di contagi, al pensiero del futuro.

Foto di Ketut Subiyanto da Pexels

UNA GENERAZIONE SULL’ORLO DELL’IMPLOSIONE

La salute mentale della popolazione, e in particolare delle generazioni più giovani, era già in progressivo deterioramento prima della pandemia. Tra gli adolescenti, su scala globale, il suicidio è la terza causa di morte, e questo fenomeno è in aumento rispetto a dieci anni fa. Nel 2018 in Italia 1,1 milioni di persone soffrivano di disturbi psichiatrici gravi. A questi numeri vanno aggiuntə tuttə coloro che presentano malesseri psicologici più o meno pesanti, che sono difficilmente tracciabili ma riguardano una fascia immensa della popolazione.

Questa era la situazione nel mondo di “prima”. Ora, a un anno dall’inizio dell’emergenza sanitaria, la nostra vita psichica è ai limiti dell’implosione. Trovandoci nel bel mezzo della pandemia e dovendo affrontare quotidianamente le conseguenze di questo fenomeno è difficile compiere un’operazione lucida di auto-analisi. Ma quello che possiamo dire con certezza, per ora, parlando da persone giovani, è che ci troviamo asfissiatə dalla precarietà che ci portiamo addosso da tutta la vita, da una rabbia profonda a cui non riusciamo a dare sfogo in modo creativo, ma anche da una solitudine che ci consuma e annichilisce. Tuttavia il paradosso è che in realtà non siamo da solə. Siamo isolatə, sì, ma non siamo da solə. Chi più, chi meno, in misure e modalità diverse, ci troviamo in moltissimə a condividere tale situazione. E forse è proprio questa dimensione comune della nostra condizione che può salvarci dall’implosione.

Invece di implodere, perchè non esplodere? Perchè non riconoscerci reciprocamente nel nostro dolore e nella nostra rabbia e indirizzarli verso l’esterno?

Non dovevamo per forza arrivare fino a questo punto. Siamo giuntə fin qui, sull’orlo del baratro, a causa di responsabili precisi, che hanno volti, nomi e cognomi, i quali devono essere ricordati, ripetuti, scritti sui muri, urlati per le strade e nelle piazze. Portano il nome di Jeff Bezos (Amazon), Oscar Pierre (Glovo), Albert Bourla (Pfizer) e tutti quei miliardari che stanno moltiplicando le loro ricchezze in questi mesi, mentre una fetta sempre più grande di popolazione mondiale sprofonda nella povertà. Portano il nome di Andrea Agnelli, Carlo Bonomi e Confindustria tutta, che ha imposto la prosecuzione della maggioranza delle attività produttive nel momento di massima emergenza, condannando letteralmente a morte migliaia di lavoratori e lavoratrici. Portano il nome di Giuseppe Conte, Mario Draghi e tutti i ministri dei loro governi, incapaci, nel corso di un anno, da una parte di pensare strategie lungimiranti per contenere i contagi in modo efficace e duraturo, dall’altra di supportare adeguatamente chi sta subendo le conseguenze più pesanti della pandemia. Ci sono infine i nomi de “La Repubblica”, il “Corriere della Sera”, Sky e tutti gli altri “professionisti dell’informazione” mainstream, responsabili della diffusione di notizie caotiche e sensazionalistiche e di una narrazione tutta improntata alla colpevolizzazione dei comportamenti individuali.

Foto di Artem Podrez da Pexels

VACCINI, UNA STORIA SBAGLIATA

L’anno appena trascorso è stato durissimo, ma si vedeva una via d’uscita: il vaccino. Abbiamo accettato di stravolgere la nostra quotidianità e di convivere con l’ansia sapendo che si trattava di una condizione temporanea, la quale, grazie ai progressi della ricerca scientifica, in breve si sarebbe risolta. Adesso la ricetta è stata trovata, i vaccini sono pronti, ma rispetto alle speranze di un anno fa le cose stanno andando diversamente.

La ricerca sui vaccini è stata finanziata con ingenti quantità di soldi pubblici, destinati alle case farmaceutiche private. A fronte di ciò, però, non è stato posto loro alcun limite rispetto alla produzione e distribuzione esclusiva delle dosi. Questo è dovuto all’istituzione del brevetto: i vaccini possono essere prodotti e distribuiti solo dalle aziende che lo detengono. Non si tratta di un dato inevitabile, ma di una decisione politica che ha due conseguenze speculari: da una parte c’è la garanzia di margini di profitto immensi per le case farmaceutiche; dall’altra c’è la scarsità dei vaccini, problema che occupa un ruolo di primo piano nelle agende politiche a livello globale, continentale e nazionale.

Con queste premesse era inevitabile la corsa all’accaparramento delle dosi, che si sta dando puntualmente a tutti i livelli.

Su scala globale osserviamo che attualmente il 77% dei vaccini sono stati distribuiti ai 10 Paesi che rappresentano il 60% del PIL globale, lasciando indietro i Paesi più poveri. Questo non solo ci mette di fronte a uno scandalo etico di proporzioni gigantesche, ma è anche sintomo di una strategia di lotta alla pandemia destinata a fallire: come si può pensare di sconfiggere un virus che si propaga in tutto il mondo vaccinando solo le popolazioni più ricche?

Troviamo lo stesso corto circuito all’interno delle istituzioni europee, le quali, come denunciato anche in alcune sedute del Parlamento di Strasburgo, hanno dimostrato immensa debolezza e assoluta mancanza di trasparenza nel corso delle trattative con le aziende farmaceutiche. Con il risultato che, da una parte, la distribuzione delle dosi è arbitraria (quante volte ancora dovremo sentire, impotenti, che Pfizer, Moderna o AstraZeneca non riescono a rispettare gli accordi di forniture?) e, dall’altra, i singoli Stati hanno iniziato una corsa per comprare più vaccini possibile, conducendo trattative separate con le aziende farmaceutiche.

Il problema della scarsità dei vaccini si ripercuote anche in Italia, dove stiamo assistendo a dibattiti infiniti su quale sia la categoria di cittadini da vaccinare per prima, senza peraltro contare tutte le persone migranti, ancora prive di documenti, che non stanno ricevendo alcuna dose. Il tutto accompagnato da un piano vaccinale insufficiente e confusionario, ben lontano dalle 500.000 vaccinazioni al giorno promesse dal generale Figliuolo.

PIUTTOSTO, ESPLODIAMO

Perché dobbiamo rassegnarci all’idea che non ci sono abbastanza vaccini? La scarsità delle dosi deriva da scelte politiche precise che, come abbiamo visto, hanno preferito mettere al primo posto i profitti di poche aziende rispetto alla salute fisica e mentale dell’intera popolazione. Scelte politiche che possono e devono essere contestate, richiedendo con tutti i mezzi e in ogni sede la sospensione del brevetto, soluzione che in passato, a fronte di altre emergenze sanitarie, è già stata adottata e che anche l’OMS ha indicato come necessaria. Nei prossimi mesi diverse città italiane ospiteranno vertici internazionali di preparazione al G20, che si terrà a Roma in ottobre. Il primo di questi sarà il Global Health Summit, che si svolgerà il 21 maggio nella capitale. Queste saranno delle occasioni in cui mettere i governanti della Terra di fronte a un’alternativa che, in fondo, è semplice: o si difende il diritto al brevetto e al profitto, o si difende la salute delle persone.

La corsa all’accaparramento dei vaccini è strettamente collegata all’angoscia collettiva che sta dilagando in questi mesi: c’è la paura di non riuscire a vaccinarsi e da qui nasce la competizione tra singoli individui e categorie, che innesca a sua volta un meccanismo di diffidenza reciproca che si auto-alimenta. A questo va sommata l’incertezza sul futuro, che già sperimentavamo come esito esistenziale della precarietà economica e della crisi climatica, fenomeni che pesano da sempre sulle spalle della nostra generazione: non ne siamo i principali responsabili ma più di tutti ne viviamo e ne vivremo le conseguenze.

Tutto questo rischia di portarci all’implosione. Ma possiamo ancora scrivere quel futuro che adesso ci sembra non esistere.

Possiamo farlo indirizzando la nostra rabbia verso chi ci ha portato fino a questo punto. Possiamo farlo imponendo programmi politici che abbiano al loro centro la salute fisica e mentale delle persone, condizioni economiche dignitose per tuttə, così come una seria presa in considerazione della crisi climatica. Possiamo farlo e per riuscirci è meglio non implodere. Piuttosto, esplodiamo.

7/4/2021 https://www.dinamopress.it

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