Politica e ideologia di Hamas
(seconda parte)
Prima parte https://transform-italia.it/politica-e-ideologia-di-hamas-prima-parte/
Nel 2006 si tennero le elezioni legislative dell’Autorità nazionale palestinese, le prime dopo la morte di Arafat, guida storica di Fatah e dell’OLP, la cui politica aveva portato agli accordi di Oslo. Hamas aveva boicottato le elezioni precedenti, nel 1996, e poi le presidenziali del 2005, in quanto frutto di un’Autorità nata da un’intesa che Hamas respingeva.
La scelta di partecipare al voto indicava quanto meno una correzione rispetto alla politica precedente in quanto accettava la disponibilità a muoversi all’interno del quadro istituzionale creato dagli accordi di Oslo. Hamas elaborò un programma che dava ampio spazio al tema della lotta alla corruzione, tuttora presente e diffusa all’interno dell’Autorità e che l’ha resa fortemente impopolare.
Qualche mese prima del voto Sharon decise il ritiro delle truppe di occupazione israeliane a Gaza con lo smantellamento forzato degli insediamenti coloniali ebraici nella striscia. Questa decisione, largamente motivata dalla volontà di concentrare l’azione israeliana sulla West Bank (Cisgiordania occupata) forniva ad Hamas un indubbio elemento di propaganda. Come dichiarò un suo dirigente, Mohammed Deif, quattro anni di resistenza avevano ottenuto di più che dieci anni di trattative.
Il programma elettorale dei Hamas nel 2006
Nel programma elettorale il Movimento aveva in gran parte cancellato quegli elementi ideologici abbondantemente presenti nella Carta del 1998, fornendo un profilo più moderato. Niente islamismo radicale, sovranità sui territori occupati nel 1967 e nessuna rivendicazione alla liberazione dell’intero territorio palestinese. Si trattativa certamente di aggiustamenti tattici finalizzati a conquistare un consenso più ampio in settori di popolazione insoddisfatti sia dell’esito degli accordi di Oslo che del modo col quale l’Autorità palestinese li gestiva nella vita quotidiana degli abitanti dei territori, ma anche del segnale della volontà di cercare nuovi spazi di iniziativa politica realisticamente adattati al contesto possibile.
Benché la differenza quantitativa in termini di voti a favore di Hamas non fosse tanto rilevante, l’adozione di un sistema parzialmente maggioritario diede al Movimento la maggioranza assoluta e una schiacciante superiorità in termini di seggi: 76 contro i 43 di Al Fatah. Le elezioni vennero giudicate dagli osservatori come genuinamente democratiche.
L’Unione Europea dichiarò che, nel rispetto dell’esito democratico delle elezioni, avrebbe continuato a sostenere l’Autorità palestinese. Un impegno smentito solo tre mesi dopo quando, a fronte della nascita del governo guidato da Hamas, l’UE congelò i fondi dati all’Autorità, continuando a finanziare progetti che aggiravano il governo e a sostenere l’apparato di Fatah.
Mentre da diversi paesi arabi veniva la richiesta di mettere Hamas alla prova del governo, contando che questa inevitabilmente avrebbe rafforzato le tendenze più moderate, il cosiddetto Quartetto formato da Stati Uniti, Russia (allora Putin era ancora un beniamino dell’Occidente), Unione Europea e Nazioni Unite, ripropose le solite condizioni pregiudiziali: rinuncio alla resistenza armata, riconoscimento di Israele e accettazione dei precedenti accordi israelo-palestinesi. Condizioni che Hamas rifiutò, pur affermando che avrebbe potuto accettare uno stato nei confini del 1967 e una tregua di almeno dieci anni. Il Quartetto sancì il blocco di tutti gli aiuti internazionali ai territori palestinesi.
Questa decisione favorì la radicalizzazione dello scontro tra Hamas e Fatah che avrebbe poi portato alla divisione dei territori palestinesi occupati. Contemporaneamente, nel giugno del 2006, durante un fuoco di artiglieria israeliano su Gaza, restavano uccisi otto civili palestinesi su una spiaggia. Hamas decideva l’interruzione della tregua unilaterale che era durata 16 mesi e lanciava un attacco di razzi da Gaza su Israele.
All’inizio del 2007 ci fu il tentativo sponsorizzato dall’Arabia Saudita di arrivare ad un accordo tra Hamas e Fatah che si concluse con successo dato che venne sottoscritto l’Accordo della Mecca, sulla base del quale veniva formato un governo di unità nazionale. Si trattò solo di una tregua di breve durata perché nel giugno successivo scoppiò il conflitto tra le due maggiori organizzazioni politiche palestinesi che causò la morte di 600 persone, tra militanti e civili. Fatah venne di fatto cacciata da Gaza e Hamas costretta alla clandestinità nella West Bank. Un duro colpo alla capacità del movimento di liberazione palestinese nel suo insieme di perseguire qualsiasi possibile strategia per raggiungere il proprio obbiettivo storico, la costituzione di uno stato indipendente.
Il governo di Gaza tra accerchiamento e bombardamenti
Da allora, Hamas ha governato Gaza in condizioni rese estremamente difficili dal blocco che Israele, con l’appoggio dell’Egitto, ha stretto attorno alla striscia. Fra fasi di scontro e momenti di tregua, un punto di svolta si registra alla fine del 2008, con l’operazione militare “Piombo fuso”. L’azione militare israeliana, che inizia il 27 dicembre e finisce, con un cessate-il-fuoco unilaterale il 17 gennaio 2009. Alcune centinaia i morti tra combattenti e militanti di Hamas e civili palestinesi.
Il conflitto resterà latente fino al 2014 quando ci sarà una nuova offensiva militare israeliana denominata “margine di protezione”. Nel frattempo però si registrano segnali diversi che sembrano aprire nuovamente una diversa prospettiva politica per Hamas. Il 16 agosto del 2009, Khaled Meshal dichiarava che l’organizzazione era pronta ad aprire il dialogo con la nuova Amministrazione Usa nella quale Obama era succeduto a Bush. La condizione era che questa possibile cooperazione si traducesse nella fine dell’occupazione. I temi che Meshal poneva sul tappeto di una ipotetica trattativa: l’istituzione di uno Stato palestinese dotato di una effettiva sovranità, nei confini del 1967, con capitale Gerusalemme est e con il diritto al ritorno riconosciuto per i profughi palestinesi. Il futuro dei rapporti con Israele sarebbe stato deciso successivamente e democraticamente da tutti i palestinesi.
Hamas si trovava anche a fronteggiare gli effetti delle “primavere arabe”. Se la caduta di Mubaraq in Egitto e l’accesso al potere dei Fratelli Musulmani attraverso le elezioni poteva rappresentare una nuova possibilità di contare su un paese amico, la sollevazione in Siria collocava Hamas in posizione critica con quel regime. Questa scelta, era probabilmente inevitabile dato che la branca siriana della Fratellanza Musulmana era da tempo attiva contro Assad ed era stata per questo duramente repressa. Di conseguenza l’organizzazione si trovò a dover rapidamente spostare il suo quartiere generale da Damasco al Qatar, dove si trova tutt’ora. Sia sulla vicenda siriana che sul conflitto yemenita Hamas ha preso posizioni, non indolori, in contrasto con le politiche iraniane, il che rende poco credibili le analisi che ne vorrebbero fare un mero strumento di Teheran.
La nuova operazione militare israeliana del 2014 fu molto più aggressiva di “Piombo Fuso” e durò 7 settimane con intensi bombardamenti. Il bilancio complessivo fu pesante, anche se non paragonabile a quello della guerra in corso. Vi furono nel conflitto complessivamente 2.200 morti, di questi 7 erano civili israeliani e 64 i soldati con la stella di Davide. In contropartita vennero uccisi dall’azione militare israeliana 2.100 palestinesi dei quali almeno 1.460 erano civili.
L’azione militare israeliana non metteva in discussione il potere di Hamas a Gaza. La politica israeliana ha cercato di impedire che il Movimento acquisisse un’eccessiva capacità di azione militare, con periodici azioni di bombardamento delle installazioni militari e civili, ma ha sempre preferito che si mantenesse la divisione all’interno del movimento nazionale palestinese. Hamas chiusa nel grande ghetto di Gaza e l’Autorità nazionale palestinese totalmente incapace ad arginare la quotidiana sopraffazione israeliana nei confronti degli abitanti della West Bank. Per la stessa ragione Israele ha sempre cercato di non trovarsi con un solo interlocutore politico possibile da parte palestinese al fine di poter giustificare di non fare ciò che comunque non voleva fare, riaprire la trattativa per arrivare alla formazione dello stato palestinese.
Nel 2018 e 2019 è stata lanciata a Gaza la “grande marcia per il ritorno” consistente in manifestazioni al confine tra Gaza e il sud di Israele. La reazione israeliana a questa forma di protesta fu l’uccisione mirata dei protestanti tramite i cecchini militari appostati al confine. Il risultato si è tradotto in 183 palestinesi uccisi. Nel maggio 2021, a seguito delle tensioni crescenti a Gerusalemme per le provocazioni dei suprematisti ebraici e i continui tentativi israeliani di cacciare famiglie palestinesi dalle loro case ci furono una decina di giorni di scontri a gaza il cui costo umano si tradusse in 243 palestinesi e 12 israeliani uccisi.
Prima di affrontare il tema dell’azione militare del 7 ottobre e la successiva invasione israeliana di Gaza conviene richiamare alcuni elementi della politica di Hamas che si è trovata a partire dal 2007 ad essere la forza di governo della striscia di Gaza, un territorio di piccole dimensioni ma con una popolazione di oltre 2 milioni di persone, sul quale Israele ha mantenuto un sostanziale controllo di fatto anche dopo il ritiro dell’esercito.
Hamas vuole “distruggere Israele”?
Sulla questione fondamentale che ogni forza politica palestinese deve affrontare, la possibile soluzione del conflitto con Israele e la natura dell’auspicato stato palestinese, Hamas, contrariamente alla propaganda israeliana, non è affatto rimasto fermo alla tesi della “distruzione” dello stato ebraico come obbiettivo finale. Soprattutto nel momento nel quale Hamas si è posto l’obbiettivo di partecipare alle istituzioni politiche dell’Autorità palestinese e alle relative elezioni legislative, i dirigenti di Hamas hanno espresso in più occasioni il riconoscimento di fatto dell’idea dello Stato palestinese nei confini ridotti dei territori occupati da Israele nel 1967.
Riferimenti in tal senso erano contenuti nel “documento dei prigionieri palestinesi” del 2006 e nello stesso programma elettorale di Hamas formulato nello stesso anno. Il testo sosteneva che la questione del riconoscimento di Israele non poteva essere affidata alla decisione di una fazione, né del governo, ma doveva essere affidata al popolo palestinese. La posizione del movimento era così sintetizzata da Moussa Abu Marzuk, nel 2007: “Io posso riconoscere la presenza di Israele come fatto compiuto o, come dicono i francesi, come riconoscimento de facto, ma questo non significa che io riconosca Israele come Stato”.
Il significato della carta fondativa del 1988 veniva ridimensionato ad espressione storica del pensiero dei vecchi esponenti del movimento da cui Hamas era nato senza però attribuirvi più valore pratico. Un nuovo testo verrà approvato nel 2017.
La posizione del Movimento resta in equilibrio tra la rivendicazione di principio di uno Stato palestinese su tutto il territorio del Mandato britannico e l’accettazione di fatto più volte ripetuta della costituzione di uno Stato palestinese a fianco di Israele. Questa relativa ambiguità è il frutto di due esigenze. Da un lato di tener conto degli umori e delle aspirazioni ancora diffuse in una parte significativa della base di Hamas che vede nella presenza di Israele una violazione dei diritti del popolo palestinese e dall’altra dalla consapevolezza che il riconoscimento preventivo di Israele deciso dall’OLP sotto la guida di Arafat non ha affatto portato alla creazione di uno Stato palestinese sovrano.
Per questo motivo, sulla base del fallimento del percorso progressivo deciso a Oslo, il movimento islamico non riteneva di poter rinunciare definitivamente all’uso della violenza come mezzo realizzare le aspirazioni nazionali palestinesi.
Il risultato di tutto ciò è che si è determinata una situazione di impasse in cui da un lato Israele e il fronte dei paesi occidentale che lo sostiene richiede il riconoscimento preventivo di Israele quale stato ebraico e la rinuncia a qualsiasi forma di violenza per riconoscere un’organizzazione palestinese come ipotetico interlocutore di trattative che, per altro non esistono più da anni.
Dall’altro Hamas risponde, e in questo trova consenso in una parte significativa del popolo palestinese, che tutto ciò può solo avvenire dopo e non prima del ritiro israeliano dai territori occupati. Come è avvenuto con l’esperienza compiuta dall’Autorità palestinese dopo gli accordi di Oslo, a fronte di queste due concessioni si è solo ottenuto un rafforzamento della politica di occupazione da parte di Israele e un abbandono del problema palestinese da parte dei governi che la sostengono (in particolare Stati Uniti).
Il “diluvio di Al-Aqsa”
L’operazione militare messa in atto da Hamas il 7 ottobre scorso ha rappresentato certamente un fatto inedito rispetto al comportamento tenuto da questa organizzazione a partire dalla sua fondazione. Le azioni militari, sia quelle che si rivolgevano ad obbiettivi ritenuti “legittimi” (militari di occupazione e coloni armati), sia quelle che utilizzavano il terrorismo colpendo indiscriminatamente dei civili, erano sempre riconducibili ad una qualche forme di reazione al comportamento israeliano.
Col 7 ottobre, Hamas ha dichiarato di avere risposto ad una serie di azioni messe in atto nei territori occupati, dalle provocazioni sui luoghi sacri musulmani ai veri e propri pogrom antipalestinesi dei coloni ebrei con la connivenza dell’esercito. Sicuramente ha influito nella decisione dei dirigenti di Hamas anche la valutazione degli effetti che avrebbe avuto per la causa palestinese il processo di avvicinamento tra Israele e diversi paesi arabi, con il sedicente “patto di Abramo”. Una strategia messa in atto da Trump, in cui l’aperto sostegno ad Israele è strettamente legato al sostegno dei cosiddetti “sionisti cristiani”, che rappresentano ormai la corrente più numerosa del sionismo a livello mondiale, e che è stata proseguita da Biden. Il quale anzi ha cercato di renderla ancora più rilevante con l’inclusione dell’Arabia saudita nella trattativa. Lo stratega della sicurezza di Biden, Jake Sullivan (che già ha avuto un qualche ruolo nel creare le condizioni della guerra in Ucraina durate l’Amministrazione Obama) scriveva soddisfatto pochi giorni prima del 7 ottobre: tutto va bene sul fronte mediorientale.
La normalizzazione dei rapporti tra Israele e mondo arabo, almeno la parte che mantiene buoni rapporti con l’Occidente, avrebbe rappresentato un’ulteriore pietra tombale sul destino dei palestinesi. Non si può escludere che nel calcolo di Hamas abbia influito anche la crescente difficoltà a gestire la situazione di Gaza, senza poter proporre alcuna via di uscita dalla condizione di povertà e di mancanza di prospettive per i milioni di palestinesi che vi abitano. Non è chiaro quale fosse l’effettivo livello di consenso di cui poteva godere Hamas dentro Gaza prima del 7 ottobre, anche se un sondaggio diffuso qualche giorno dopo ma realizzato poco tempo prima, indicava un calo del sostegno all’organizzazione islamista.
L’azione militare messa in campo il 7 ottobre non è riducibile a “terrorismo”, a differenza delle operazioni suicide degli anni ’90, perché non è stata solo un’aggressione indiscriminata nei confronti di civili, ma anche un attacco a postazioni militari dell’esercito israeliano che ha causato la morte (secondo i dati forniti da Haaretz) di 332 soldati e 59 poliziotti, su un totale finora registrato di 1.175 vittime.
Anche se come sempre accade si registrano ricostruzioni difformi dello stesso evento e dichiarazioni di esponenti di Hamas che giustificano l’assassinio di civili israeliani con “errori” o frutto degli scontri con i militari israeliani intervenuti (in ritardo) per riprendere il controllo delle zone prese dai suoi combattenti, le informazioni disponibili indicano che l’uccisione non giustificata di civili c’è stata e certamente in numero considerevole.
Si può parlare pertanto di “crimini di guerra” commessi da Hamas (così come certamente il sequestro di persone non combattenti ed il loro trasferimento a Gaza), una categoria che ha fondamento nel diritto internazionale, a differenza di quella di “terrorismo”, e che consente di equiparare lo stesso tipo di crimine quando è commesso da un soggetto statale e da un soggetto non statale o semi-statale di fatto, come sono da un lato Israele e dall’altro Hamas.
Quale prospettiva per il movimento di liberazione nazionale palestinese?
Resta il problema di fondo degli effetti politici dell’azione di Hamas. Difficile che non venisse messa in conto l’entità della risposta israeliana che si è sempre mossa nella logica della moltiplicazione delle vittime dell’avversario e della punizione collettiva dei civili. In queste ore l’esercito israeliano ha preso possesso di Gaza, ma questo in realtà significa poco. Sul piano militare la sproporzione è enorme tra Israele e Hamas, 300.000 uomini mobilitati da un lato (più di quelli messi in campo dai russi in Ucraina) dotati di aviazione, carri armati e tutto quanto di meglio offra la tecnologia militare, dall’altra qualche migliaio di uomini che dispongono di fucili mitragliatori e lanciarazzi portati a spalla. Quindi il vero momento critico non è lo scontro militare in sé, ma come Israele uscirà dalla guerra e se e come Hamas riuscirà a sopravvivere in qualche modo all’invasione.
Nel corso del tempo il movimento islamista ha subito gli effetti devastanti della repressione israeliana che però non ha mai cercato di distruggerlo completamente per le motivazioni politiche dette sopra. Ha avuto decine di leader assassinati, centinaia di militanti uccisi, altre centinaia imprigionati, ciò nonostante è sempre rimasto in campo e in una certa misura ha rafforzato il suo consenso e la sua credibilità agli occhi dei palestinesi. Ora la sfida è certamente molto più difficile e il costo umano subito dalla popolazione di Gaza molto superiore a quello dei conflitti precedenti.
Una parte del governo di Israele punta ad una nuova, grande operazione di pulizia etnica dei palestinesi per risolvere definitivamente il problema e arrivare all’occupazione definitiva dell’intera Palestina e chiudere per sempre la partita. Ma ancora le condizioni esterne per raggiungere questo obbiettivo non esistono. Meno chiaro quale sia la strategia dell’altra parte del governo anche se l’obbiettivo, mantenere ed estendere il controllo di Israele sui territori occupati in modo da renderlo irreversibile, è simile.
Che prospettive si aprono ora per la resistenza palestinese all’occupazione? Il quadro purtroppo resta molto complicato. Se la strategia perseguita dall’Autorità nazionale palestinese si è dimostrata incapace non solo di giungere alla costituzione di uno Stato palestinese ma anche di difendere le condizioni di vita quotidiana degli abitanti dei territori, l’alternativa proposta da Hamas, di continuare ad usare la resistenza armata, soprattutto quando questa colpisce indiscriminatamente i civili ricompattando gli israeliani attorno alle posizioni estremiste, come accaduto dopo il 7 ottobre, non ha finora dimostrato di costituire una valida alternativa.
Certamente la Palestina è tornata al centro dell’attenzione internazionale e si è esteso un vasto moto di solidarietà, ma tutto questo rischia di svanire velocemente se e quando il momento più acuto dell’aggressione israeliana a Gaza avrà lasciato le prime pagine dei giornali. Sembra più che mai necessaria una ridefinizione della strategia del movimento di liberazione palestinese oltre che una sua ricostruzione unitaria e al momento né Fatah, né Hamas sembrano in grado di delinearla.
Franco Ferrari
15/11/2023 https://transform-italia.it/
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