Politiche della disabilitazione, legge quadro e nuovo welfare
Gli studi sociali sulla disabilità di Michael Oliver
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di Luca Mozzachiodi
Da poco è uscita in Italia, con il titolo Politiche della disabilitazione, la traduzione di un importante libro di Michael Oliver, pioniere dei Disability studies anglosassoni. Il curatore Enrico Valtellina insiste a ragione sull’importanza del lavoro quale manifesto del «modello sociale della disabilità» ma bisogna dire che i termini del dibattito, che spesso assume caratteristiche teoriche e accademiche soprattutto nei meno felici interpreti di questi studi, sfuggono al lettore comune nella generale disattenzione alla disabilità che caratterizza la nostra società, al disabile naturalmente sono spesso invece chiari grazie alla sua concreta esperienza di una società abilista.
In poche parole cerchiamo dunque di capire di cosa si tratta: secondo il modello sociale la disabilità è socialmente costruita e interpretata, rappresenta cioè non un dato individuale, qualcosa di inscritto nella storia e nella biologia o fisiologia di una persona, ma nella relazione che i disabili hanno con la società e nei modi in cui questa li raffigura e assegna loro ruoli sociali e produttivi, diritti e possibilità.
Il modello, teorizzato, sulla scia di studi sociologici anche con una chiara matrice politica (Gramsci, il movimento operaio, i movimenti attivisti disabili degli anni Sessanta-Ottanta, la scuola di Birmingham) si contrappone al modello medicalizzante della disabilità che è a tutt’oggi operante in maniera prevalente presso la OMS così come presso i governi nazionali, gli enti locali, le associazioni che si occupano disabilità e in definitiva la maggioranza della popolazione (molti disabili inclusi).
Secondo questo modello la disabilità è essenzialmente la conseguenza di un problema di salute che allontana un soggetto dal raggiungimento di uno standard normale di vita (che Oliver tuttavia dimostra essere a volte irrealistico: ad esempio il modello di riabilitazione motoria di un settantenne sul passo di un trentenne), essendo un problema medico sono principalmente medici ad occuparsene e a definirlo: la legge infatti prevede che sia una commissione medica ad accertare se un dato individuo è disabile. Deve essere rimosso o minimizzato essenzialmente attraverso pratiche mediche e, cosa più importante, è un problema, una difformità, una anomalia dell’individuo, è quello che il modello sociale definisce il paradigma della «tragedia personale».
L’interesse del volume non è tanto, a mio avviso, nel dimostrare che culturalmente esistano diversi modi di socializzare la disabilità, ad esempio senza che questo implichi una segregazione, un allontanamento dalle attività lavorative o uno stigma, oppure addirittura possa determinare un elevamento di status, come nel caso di anziani, guerrieri feriti, o disabili divinizzati, quanto nell’indicare come la formazione di una società capitalistica coincida con la privatizzazione della disabilità come “tragedia individuale” ma anche, progressivamente, con la formazione di uno welfare dedicato alla disabilità e tuttavia estremamente contraddittorio, discriminante e oppressivo nei confronti dei disabili e di come, per ragioni ideologiche, discriminazione e oppressione appaiano quali fatti, naturali, inevitabili, o addirittura positivi nei confronti dei disabili.
L’esempio di un questionario dell’ufficio demostatistico britannico in appoggio ai servizi (Non alle SS, ma di agenzie che si occupano di fornire sostegno ai disabili) è istruttivo più di lunghe spiegazioni:
Può dirmi cosa c’è che non va in lei?
Le sue difficoltà nel capire le persone sono dovute principalmente a un problema di udito?
Il suo problema di salute/disabilità le rende difficile viaggiare in autobus?
Il suo problema di salute/ disabilità influisce in qualche modo sul suo lavoro al momento? Ecc.
Domande che potrebbero essere invece volte in maniera non individualistica nel modello sociale:
Può dirmi cosa c’è di sbagliato nella società?
Le sue difficoltà nel capire le persone sono dovute principalmente alla scarsa diffusione della lingua dei segni?
Gli autobus mal progettati rendono difficile l’uso da parte di chi abbia il suo problema di salute/disabilità?
Ha problemi sul lavoro a causa dell’ambiente o degli atteggiamenti degli altri?
Anche la nostra legge quadro sulla disabilità, la 104/1992 non è esente da un’impostazione abilista e da una privatizzazione della disabilità, soprattutto però quando si passa alla sua messa in opera.
Non a caso la prevenzione e la riabilitazione compaiono subito dopo i principi fondamentali e gli interventi non sul disabile, ma sulla società compaiono sporadicamente, in maniera generica (nella selva di decentralizzazioni che rimandano alle regioni, ai comuni e alle associazioni l’attuazione di misure per garantire diritti e servizi che la legge riconosce) oppure rimangono lettera morta come ad esempio la norma che impone la dichiarazione di inagibilità (con salatissime multe) per gli edifici pubblici o privati aperti al pubblico che non rispettino le norme sull’accessibilità.
Per capire quale sia la realtà di una decentralizzazione e di una sussidiarietà con il mondo del terzo settore e del volontariato che non sia accompagnata però da un reale paradigma sociale della disabilità si può pensare a quanto accade nell’esperienza quotidiana di migliaia di disabili, istituzionalizzati o assistiti, ai quali viene imposto un modello di dipendenza dalle esigenze organizzative di realtà di “professionisti dell’assistenza” tutt’altro che senza scopo di lucro e in cui spesso servizi e orari sono standardizzati: terapia, pasti, trasporti, tipologia di attività riconosciute come necessarie per il disabile, igiene. Non bisogna del resto dimenticare che, se spesso i disabili sono esclusi dal mondo del lavoro (e la “tragedia personale” del disabile nel capitalismo è soprattutto il suo non potersi vendere come forza lavoro), tuttavia l’economia intorno alla gestione della disabilità ha un indotto milionario e procura moltissimi posti di lavoro, di ciò sono ben consapevoli i governi quando, ad esempio nelle ricorrenti riforme dei sussidi che, come a breve pare accadrà, coinvolgeranno anche l’Italia, sostituiscono al denaro la scelta fra pacchetti assistenziali preorganizzati.
Se del resto la legge quadro è estremamente dettagliata e recentemente rimaneggiata in estremo dettaglio per quanto riguarda l’istruzione (istituzione dei Gruppi di Lavoro Territoriale, della formazione per i docenti ecc.) è estremamente generica, oltreché spesso derogata, per quanto riguarda il lavoro, che è evidentemente e molto più dell’istruzione la porta d’accesso all’integrazione sociale e alla possibilità di azione politica (spiace dirlo ma gran parte dell’attenzione sull’inclusione scolastica, ovviamente sacrosanta, viene utilizzata per produrre l’idea di una società profondamente egualitaria anche per i disabili e nascondere l’abbandono che questi subiscono non appena fuori dalle aule). Il modello sociale è dunque anche un elemento essenziale nel sottolineare la sottorappresentazione dei disabili nella gestione della disabilità contemporanea: sono a tutti gli effetti inferiorizzati e ridotti allo stato di fardello sociale o (in un imperante modello liberale) di consumatori di servizi.
La stessa concezione di un modello di indipendenza legato allo sguardo del normodotato sul disabile (svolgere certe attività “da soli” senza sostegno o ausilio) è implicitamente lo standard a cui uniformarsi richiesto dalla società al disabile mentre una concezione non abilista e realistica di autonomia è per il disabile piuttosto poter personalmente controllare e progettare il sostegno di cui ha bisogno nella sua vita e che esso non sia invece diretto da altri (chi scrive ad esempio pur avendo avuto a che fare con istituzioni che si occupano di disabili a tutti i livelli non ha mai visto, in nessuna di esse, lavorare un disabile), e anche qui occorre ricordare che i disabili non risultano fra i soggetti che la legge quadro prevede come convocati alle conferenze triennali e che essi non sono rappresentati per legge nelle commissioni locali di regioni, enti e comuni, che amministrano bilanci e vagliano progetti. I disabili esprimono, spesso ai gradini più bassi, esigenze o richieste, sulle forme o sul merito delle quali si esprimono tecnici, ma più spesso semplici amministratori e impiegati, non disabili.
Ci sono però alcune cautele e alcuni rischi a mio avviso presenti in una cattiva interpretazione del modello sociale: anzitutto il ritenere che il rifiuto della medicalizzazione implichi un rifiuto della medicina mentre essa è invece ovviamente essenziale e, anzi, troverebbe giovamento e completamento dall’inserimento in una azione sulla società (la riabilitazione sarebbe più mirata, l’uso di farmaci o chirurgia meno legato, ad esempio, all’esigenza di separare il paziente dal suo ambiente).
Questa consapevolezza va di pari passo con una sottolineatura, che Oliver nelle sue ricerche fa, ma che viene spesso dimenticata nella fretta di ritrovare una cornice politica a queste istanze secondo i modelli teorici oggi dominanti: mentre l’oppressione razziale e sessuale si giustificano su basi «interamente ideologiche», la menomazione che porta alla disabilità è «reale» e sebbene sia assolutamente giusto rifiutare un’identità disabile imposta dall’esterno bisognerebbe anche ricordare che la disabilità come condizione materiale va combattuta, rimossa e evitata, tra l’altro con una politica di sicurezza sul lavoro e di pacifismo: non le malattie congenite (altro abbaglio ideologico del paradigma della tragedia personale), ma la guerra e la fame sono oggi le principali cause di disabilità, questo andrebbe sempre tenuto presente: nel momento in cui, a prescindere da ogni struttura culturale, valoriale, ideologica e religiosa, una società produce o vende un’arma (progettata per ferire, mutilare, menomare) essa ha una visione negativa e discriminante della disabilità, sa che è un male da infliggere a un avversario, per quanto si sgoli a presentarla come un dono o una semplice diversità.
Insomma certo esiste una base culturale e sociale di costruzione della disabilità, ma ne esiste anche una materiale. Che bellicismo e abilismo vadano a braccetto lo dimostra il trattamento relativamente privilegiato che le politiche di inserimento lavorativo riservano agli invalidi di guerra rispetto agli invalidi civili, creando discriminazioni interne e meritocrazie storicamente ideologicamente solide ma, dal punto di vista dei reali interessi dei disabili come gruppo, estremamente dannose.
Infine bisogna essere estremamente chiari sulla differenza tra indipendenza e autorappresentazione da un lato e retorica dell’autosufficienza e dell’empowerment: quest’ultima (il libro di Oliver si ferma al 1990) è stata ed è ampiamente utilizzata come strategia di privatizzazione e smembramento per censo delle conquiste del welfare degli anni Sessanta-Ottanta.
L’esempio tipico consiste ad esempio nel mostrare sondaggi che indicano una progressiva maggiore integrazione dei disabili (giocoforza di una ristretta parte disponibile e adattabile) mentre si conduce lontano dai riflettori una politica di sistematica riduzione dei sussidi: si dimostra solo che le persone hanno bisogno di denaro per sopravvivere!
La triade etnia-genere-disabilità a volte invocata, ma non così spesso (mi pare) dai disabili, se si fonda sulla parziale giustezza del riconoscimento di un marginalità indotta e di una identità particolare (nel terzo caso però materialmente non desiderabile) lascia spesso in ombra il fatto che la decentralizzazione dell’assistenza (con la giungla di una burocrazia e di istituzioni e associazioni che spesso hanno il fine di riprodursi economicamente) trova in questa identità particolare un utile vessillo simbolico: a ciascuno il suo servizio (oneroso), a ciascuno secondo il suo ambiente, il che, dato che gli enti che secondo la legge quadro sono responsabili dei servizi sono le regioni e i comuni, in attesa dei LEP ora che l’autonomia regionale è legge, non può che significare balcanizzazione dei diritti e fine di una, peraltro già largamente insufficiente, attività di controllo centrale, mentre dovrebbe continuare a essere chiaro che certo i disabili sono diversi, ma anche l’uguaglianza è una costruzione sociale, precisamente quella che ci manca e che le leggi dovrebbero invece cercare di realizzare.
Luca Mozzazchiodi
Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
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