Come declinare le parole della rivoluzione
Ho letto in questi giorni la dichiarazione di intenti proposta dall’ex-Opg di Napoli, che è anche una ipotesi di programma politico-elettorale sul quale si invita alla discussione in vista della lista antiliberista per le elezioni politiche della primavera 2018; e ho avuto modo di partecipare ad alcune delle assemblee da loro convocate. Pur sottolineando che la cosa migliore da dire, in una campagna elettorale, non possa essere l’immediato “superamento del capitalismo” – e che di conseguenza, accanto a dichiarazioni di principio che è giusto enunciare esplicitamente, occorrerà comunque procedere con un elenco di più realistiche rivendicazioni -, dico subito che sono rimasto molto positivamente colpito da come agiscono questi compagni e compagne. E ciò per una ragione di ordine propriamente culturale. Da un lato, le parole che utilizzano esplicitano la meta cui tendiamo con naturalità e comprensibilità estrema, quasi avessero avvertito, nel loro medesimo suono, l’eco del giudizio (che era in verità anche una messa in guardia e una raccomandazione) espresso da Bertolt Brecht a proposito del comunismo: il comunismo è la semplicità difficile a farsi, diceva il poeta. Ed in effetti, il comunismo è stato anche, nel corso del Novecento, e ancor più oggi, la semplicità difficile a dirsi. Ma soprattutto, dall’altro lato, queste parole chiare tendono a declinarsi in modo molto diverso dalla tradizione novecentesca.
Provo a spiegarmi. Se invece di costruire i capoversi del discorso con “noi crediamo che…”, e poi “noi vogliamo che…”, che è il loro modo di parlare e scrivere, i compagni e le compagne dell’ex-Opg utilizzassero le locuzioni “il comunismo (o “il partito dei comunisti“, o “i comunisti”, il che è lo stesso) crede che…”, e poi “il comunismo vuole che…”, ebbene, essi non dovrebbero cambiare, per il resto del ragionamento, nessuna altra parola. Il discorso avrebbe, per quanto concerne specificamente i contenuti, lo stesso, identico significato. E però io ritengo che sia non soltanto più efficace, ma proprio “più veritiera”, più in sintonia col senso attuale delle cose – più in sintonia con “lo spirito dei tempi”, avrebbero dichiarato i filosofi dell’Ottocento –, proprio la forma con la quale essi tendono ad esprimersi.
In sostanza, al di là delle suggestioni discorsive – recuperate, forse, dalla ricca e complessa esperienza novecentesca delle “Pantere nere” -, quelli dell’ex-Opg concepiscono il lessico della politica in una maniera alquanto diversa da come l’hanno concepito quelli della mia generazione. Io e quelli che vengono biograficamente dal Novecento siamo facilmente portati ad affermare e scrivere “il comunismo crede che…”, “il comunismo vuole che…”.
Il punto è che io mi sono formato inesorabilmente dentro le coordinate concettuali del secolo scorso, ovvero dentro coordinate culturali largamente incentrate sull’idea che la storia agisca con una propria ferrea volontà. Il comunismo era, allora, ciò che doveva immancabilmente venire dopo il capitalismo. Analogamente ai rivoluzionari della prima metà del XX secolo, anche noi, cresciuti nel lungo Sessantotto italiano, abbiamo concepito la storia come un qualcosa che, in qualche modo, parlava a partire da sé, al di là delle persone umane concrete; le quali, a loro volta, venivano chiamati soprattutto all’ascolto, e poi a ripetere, con la propria umana voce, la trama già fissata del reale, ritrasmettendola, in sostanza, per come ci veniva dal nostro “di fuori”. E, anzi, quel reale che veniva dall’alto tendeva a strutturare il destino degli esseri umani indipendentemente dalla loro stessa coscienza, sulla base della dialettica obiettiva tra forze produttive e rapporti sociali di produzione.
Hegel, come è noto, aveva parlato addirittura di una “astuzia della ragione storica”, per cui le vicende umane sarebbero sottoposte a una inappellabile “eterogenesi dei fini”: si vuole una cosa, non la si conquista, e però la storia, forza impersonale che procede autonomamente dal volere specificamente umano, si incarica di utilizzare quel volere dentro la sua progressione cosmica, dentro l’ordine delle cose per come viene dalle cose stesse. È esattamente questa tesi hegeliana della storia come “eterogenesi dei fini”, ciò che il marxismo ha ripreso con la nota immagine della talpa che scava sotto i passi degli uomini.
Insomma, la visione novecentesca della lotta di classe statuiva che il principio primo, il soggetto fondamentale della storia fossero proprio le forze impersonali, simmetricamente contrapposte, del capitalismo e del comunismo. Di tal fatta è stata l’architettura concettuale del movimento operaio e delle soggettività rivoluzionarie lungo tutto il secolo. Il motore primo, il prius, era il comunismo; il quale chiedeva, ma in realtà comandava come imperativo storico, di essere attuato attraverso la mediazione politica del partito di avanguardia, e concretamente attraverso la mobilitazione delle grandi masse sulle “giuste parole d’ordine”, individuate dal partito d’avanguardia con riferimento all’andamento delle cose.
Mi pare ora di cogliere un ben diverso punto di partenza nella struttura concettuale delle parole e degli scritti dei compagni e compagne dell’ex-Opg (ma è evidente, a questo punto, che non sto parlando solo, e neppure principalmente, di loro, bensì di una generazione militante diversa dalla mia). La diversità del punto di partenza consiste nel fatto che si comincia dagli esseri umani concreti, specificamente in quanto tali, con il loro carico di speranze e di sogni. È, in un certo qual modo, l’intromissione dei corpi, fisicamente definiti, dentro la scrittura della storia. Non è più la dialettica della storia che modella gli uomini e le donne concreti nel loro agire e sperare, bensì sono le donne e gli uomini concreti che, partendo dai propri desideri e dai propri bisogni, costruiscono il movimento della storia. E la storia, a questo punto, non è più necessitata, ma viene restituita alla capacità degli esseri umani di compiere un cammino.
Che questa dinamica concettuale possa ora presentarsi come legittima per i marxisti rivoluzionari, e cioè libera dall’ipoteca dell’idealismo, non deve stupire. Siamo oltre il Novecento, e proprio a cavallo tra XX e XXI secolo ci sono state, e ci sono, un po’ dappertutto, in Italia e nel mondo, corpose lotte autorganizzate. C’è stato il movimento dei movimenti da Seattle a Porto Alegre, i moti campesini in America Latina, l’insorgenza india del Chiapas, gli indignados in Spagna, le Occupy Wall Street in Nord America. E ci sono le mobilitazioni di massa qui in Europa sui beni comuni, e c’è qui, vicino a noi, l’esperienza straordinaria della Libera comunità del Rojava, che sta provando a costruire dinamiche incentrate proprio sulla autoaffermazione umana. E siamo, d’altra parte, dentro l’onda lunga di una ristrutturazione capitalistica che rimescola in profondità, moltiplicandole a dismisura, le classi sfruttate e oppresse del mondo, aggredendole non solo sul terreno del lavoro ma anche, e ormai soprattutto, sul terreno delle relazioni di esistenza, nel tempo, alienato anch’esso, del non-lavoro. La qual cosa spinge obiettivamente all’interrogativo di fondo sulla concreta qualità del vivere…
Ecco perché io credo che abbia molto senso ragionare oggi in questo modo, partendo dagli specifici “se stessi”, e costruendo il cammino assieme a tutti e tutte (che è poi il medesimo cammino, nei suoi contenuti di trasformazione sociale, che ha percorso, o meglio, ha tentato di percorrere – con molte cadute, molte sconfitte e molte degenerazioni – il movimento operaio del Novecento); e però, bisogna saper cogliere che non si tratta soltanto di questo. Proprio perché si parte dai desideri e dai bisogni che riempiono, e tormentano allo stesso tempo, la vita delle persone – e cioè si assumono gli essere umani, nella loro precisa individualità, come l’autentico fattore attivo della storia (fattore immediatamente attivo, senza gerarchie di nessun tipo all’interno delle strutture di combattimento del nuovo proletariato) -, proprio perché si opera questo radicale “spostamento di sguardo”, la trasformazione sociale che si prospetta diventa tutt’uno con la trasformazione antropologica delle persone, con la trasformazione delle loro narrazioni e auto-narrazioni e delle stesse relazioni civili che le concernano.
Insomma, il comunismo cui noi vogliamo dar vita (lo sottolineo: “vogliamo”, e non più “dobbiamo”) è quello davvero a misura di essere umano, di tutti gli esseri umani, tutti gli uomini e tutte le donne che ci sono su questo pianeta. Ed è un comunismo senza mausolei, senza fanfare e senza maiuscole, quello che vogliamo propagandare: un comunismo che abbia sul serio, proprio come verità attiva della trasformazione della società, la frase Todo para todos. Nada para nosotros “tutto per tutti, niente per noi”, lo splendido motto che alfine ci è venuto – proprio come voce, ad un tempo, di tutti e di ciascuno – dalle selve del Chiapas, da foreste antichissime e però così sorprendentemente piene dei fremiti di un mondo nuovo.
Rino Malinconico
8/12/2017 www.rifondazione.it
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