Precari, ricattabili e uccisi sul lavoro.
“Dobbiamo rinunciare ad una quantità di regole inutili… Robe come la 626 (la legge sulla sicurezza sul lavoro) sono un lusso che non possiamo permetterci. Sono l’Unione europea e l’Italia che si devono adeguare al mondo”. L’affermazione, poi maldestramente ritrattata, è di Giulio Tremonti ai tempi in cui occupava il dicastero dell’Economia nel governo Berlusconi, che nel periodo in cui fu in carica mise pesantemente mano alla legislazione in materia di sicurezza sul lavoro, ovviamente (stando le premesse), peggiorandola rispetto alle tutele dei lavoratori.
Cosa c’entra quella citazione con la situazione odierna? C’entra molto, perché da quell’ultimo governo Berlusconi fino all’attuale governo Renzi, la sicurezza sul lavoro è sempre stata oggetto di modifiche, a volte fatte passare per semplificazioni burocratiche, il cui filo conduttore è stata la riduzione delle misure di sicurezza dei lavoratori. E qual è la situazione odierna lo ha detto anche l’Inail nel giorno della Festa dei Lavoratori: nel 2015 i lavoratori morti a seguito di un infortunio sono aumentati del 16% rispetto al 2014. Quasi 1.200 lavoratori non sono più tornati a casa dal lavoro, lo scorso anno e dal computo sono esclusi i lavoratori non iscritti all’Inail.
Ora si lancia l’allarme, per la verità subito smorzato dallo stesso ente assicurativo, che a conclusione della sua nota “ricorda che l’interpretazione nei confronti dei dati di periodo richiede cautele”.
L’Inail mette comunque in evidenza due dati: oltre all’aumento delle morti sul lavoro, anche la flessione del 3,9% delle denunce di infortunio. Quale interpretazione si può dare mettendo insieme questi due dati? A colpo d’occhio (ma l’Inail non fornisce dati sull’indice di gravità degli infortuni), che se gli infortuni sono complessivamente diminuiti ma sono aumentati quelli mortali, il lavoro è diventato più rischioso. Dal governo Berlusconi ad oggi, si diceva, tutti i governi, nessuno escluso, ha tentato di allentare quelli che vengono spesso definiti lacci e lacciuoli per le imprese, ma che per i lavoratori significa eseguire una mansione in sicurezza. Berlusconi, Monti, Letta ed ora Renzi, tutti sono intervenuti per semplificare la materia che poi, a ben vedere, significava esonerare le aziende da “fastidiosi orpelli”, come spesso vengono definite attività come la formazione dei lavoratori, i documenti di valutazione dei rischi, la tenuta dei registri infortuni.
Ma c’è un altro aspetto da considerare, che più propriamente potremmo chiamare “fil noir” che unisce i governi da Berlusconi a Renzi: l’aumentato grado, sia quantitativo che qualitativo, del lavoro precario, che interviene negativamente sull’adozione di misure di sicurezza e salute dei lavoratori. Da Berlusconi fino a Renzi, passando per Monti e Letta, gli interventi dei governi in materia contrattuale sono stati per una deregolamentazione delle regole e per lo sfaldamento dell’unità dei lavoratori. L’articolo 8 della famigerata manovra di Ferragosto del 2011 del governo Berlusconi, è ancora là che punta come una spada di Damocle sulla testa dei lavoratori, consentendo alle aziende di andare in deroga a contratti di lavoro e alle leggi. La riforma Fornero ha avviato il lavoro concluso con il governo Renzi, che l’introduzione del Jobs act ha esteso il lavoro precario ad una platea di lavoratori molto più ampia che in passato e che tendenzialmente coinvolgerà tutti i lavoratori indistintamente.
Cosa c’entra con gli infortuni sul lavoro la precarietà lavorativa? Già nel 2007 l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro metteva in guardia sui rischi emergenti per la salute e la sicurezza dei lavoratori che “spesso sono la conseguenza di trasformazioni tecniche o organizzative”. Al primo posto dei fattori di rischio, l’Agenzia metteva “l’uso di più contratti di lavoro precari, insieme alla tendenza verso una produzione snella (produzione di beni e servizi eliminando gli sprechi) e il ricorso all’outsourcing (l’uso di imprese esterne per svolgere il lavoro)”. Tutte forme di lavoro e organizzazione del processo produttivo oggi consolidate. In questo contesto, sottolineava l’Agenzia europea, “I lavoratori con contratti precari tendono a svolgere i lavori più pericolosi, a lavorare in condizioni peggiori e a ricevere meno formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro”.
Questo accade, ovviamente, perché i lavoratori precari, a causa dello stato di ricattabilità cui sono soggetti, sono meno propensi a pretendere il rispetto delle norme di sicurezza. Allo stesso modo, quegli stessi lavoratori più difficilmente denunceranno un infortunio. E questa constatazione porta ad un’ulteriore possibile considerazione rispetto al dato (abbastanza anomalo) che vede la diminuzione delle denunce di infortunio mentre aumentano i casi mortali: che gli infortuni non sempre vengono denunciati. Complice anche il lavoro nero e la foglia di fico offerta con i voucher che, come già è stato fatto notare nel precedente numero di questo giornale, spesso vengono pagati lo stesso giorno dell’infortunio, il che sottintende un utilizzo furbesco del lavoro accessorio liberalizzato dal Jobs act e con cui si nasconde il lavoro nero, nel quale il lavoratore è assolutamente ricattabile e perciò più a rischio anche nella sua incolumità.
Ecco, quindi, che l’indignazione non basta se davvero si intende fare qualcosa sul fronte della sicurezza nei luoghi di lavoro, per evitare che si muoia sul lavoro più che in guerra. Occorre restituire ai lavoratori condizioni di lavoro dignitose, fuori dalla logica del ricatto. Ma non sarà alcuna concessione di governo a ridare ai lavoratori una maggiore forza contrattuale. Come abbiamo visto, da Berlusconi fino a Renzi, tutti i governi si sono mossi per favorire gli interessi padronali, il cui approccio di classe alla questione è sintetizzabile in una risposta di Marchionne, che interrogato sulla salute compromessa di molti lavoratori Fiat (era il 2011 e non esisteva ancora Fca) a causa dei ritmi di lavoro, così rispondeva a chi lo intervistava: “Noi facciamo automobili e l’auto nel mondo si fa in questo modo. Chi viene in fabbrica lo sa”.
È necessario, quindi, aprire una stagione di lotta che non si limiti a miglioramenti contrattuali, ma che pretenda di intervenire sull’organizzazione del lavoro. Significa, cioè, fare una lotta che sia anche politica e di classe. Si potrà porre un vero argine alle morti sul lavoro, solo quando i lavoratori organizzati riusciranno a riequilibrare i rapporti di forza in modo da poter intervenire sulle condizioni reali di lavoro e sulla organizzazione del processo produttivo.
Carmine Tomeo
7/5/2015 www.lacittafutura.it
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