Prescrizione: Tutti i difetti di una riforma inutile e dannosa
Chi è imputato rischia di esserlo a vita e sarà difficile per le vittime essere risarcite. Il blocco della prescrizione è un rimedio che non risolve i problemi della giustizia italiana. Anzi, li aggrava. Mettendo a rischio la legalità repubblicana mentre all’orizzonte si intravedono tentazioni da Ancien Régime.
Conversando con colleghe, colleghi e soprattutto clienti, siano essi persone offese dal reato od imputati, prevale la sensazione che il dibattito politico sulla riforma della prescrizione sia per lo meno surreale. A fronte dei tanti autentici mali che affliggono la nostra giustizia penale, l’unica risposta che arriva dall’attuale esecutivo (o comunque da buona parte di esso) è infatti quella di protrarre tendenzialmente all’infinito la durata dei processi.
Con buona pace non solo di chi è condannato a restare imputato a vita (magari sebbene innocente), ma anche delle parti civili (e delle vittime in genere) che vedono allontanarsi sempre più il momento e la possibilità di un sia pur minimo ristoro del danno. In tutto ciò, la cosa che più lascia sgomenti è che lo stesso ministro Alfonso Bonafede pare dimenticare che la disciplina di questo istituto ha già subito, con la legge del suo predecessore Orlando n. 103 del 2017, una modifica sostanziale, per cui la prescrizione rimane sospesa per tre anni dopo la sentenza di primo grado.
Con tempi di estinzione del reato che si aggirano, giusto per fare qualche esempio, sui 29 anni per una rapina aggravata, sui 10 anni e mezzo per una resistenza a pubblico ufficiale, sui 18 anni per una corruzione: dunque, tutt’altro che brevi. Evidentemente, però, la tentazione di condurre in porto l’ennesima, deleteria norma manifesto da dare in pasto a un elettorato per il quale il carcere non è più extrema, bensì unica ratio, è talmente forte da obnubilare le coscienze. Eppure lo scopo della norma è chiaro: determinare l’estinzione dei reati (a esclusione di quelli puniti con la pena dell’ergastolo) e la cessazione dei processi allorquando questi non giungano a sentenza definitiva entro un congruo lasso temporale dai fatti.
Ciò, proprio per evitare l’irragionevolezza di un processo eterno che per sua natura finirebbe per diventare farsesco, se solo si pone mente alla sostanziale impossibilità di un accertamento attendibile a distanza di anni e magari lustri dai fatti, quando i ricordi dei testimoni sono divenuti labili – se ancora in vita – e le tracce del reato si sono deteriorate.
O anche al venir meno o comunque all’attenuarsi dell’interesse dello Stato a punire, pure in ragione di cambiamenti intervenuti nella personalità del colpevole, che rendono controproducente l’applicazione di una pena, che invece nell’immediatezza poteva essere efficace, come giustamente ha sostenuto Livio Pepino. In questo senso, la prescrizione è un principio di civiltà giuridica, come tale non accantonabile per via di malfunzionamenti dell’amministrazione della giustizia.
Con la legge n. 3 del gennaio di quest’anno, la precedente maggioranza di governo ha invece previsto che, dal primo gennaio 2020, la prescrizione smette di operare dopo la sentenza di primo grado, sia essa di condanna che di assoluzione. Ma il conflitto apertosi all’interno dell’attuale maggioranza, con la protesta di tutta l’avvocatura e l’insofferenza di alcuni settori della magistratura, è destinato con ogni probabilità a mutare questo quadro.
Certo, il fenomeno della cancellazione di processi per reati di rilevante allarme sociale per via della prescrizione è tutt’altro che edificante. Ma il rimedio proposto, alla faccia di tutti i proclami demagogici che lo accompagnano non risolve il problema. Anzi. Se solo si osservano i dati del ministero della Giustizia, si scopre che il 75% circa dei processi si prescrive ancor prima di giungere alla sentenza di primo grado (fonte Sole 24 Ore). Con il risultato che appena il 3% (!) dei processi trattati annualmente sarebbe interessato dalla riforma.
Di più. Con questa riforma, l’imputato di reati minori (magari già assolto in primo grado) vedrà aumentare a dismisura i tempi del proprio processo, che dovrà fare spazio a quelli per i reati più gravi. Peraltro, l’avanzata del populismo penale e dunque il fenomeno del panpenalismo, per cui ogni conflitto sociale, ogni comportamento ritenuto non conforme a quello della generalità dei consociati deve trovare risposta esclusivamente in una sanzione penale, ha fatto sì che, anziché procedere verso un’ampia depenalizzazione, si siano viceversa introdotte nuove fattispecie di reato ed elevate le pene per molti reati già presenti nel codice penale e nelle leggi speciali.
Con ciò, generando una proliferazione di processi e un consequenziale aumento dei tempi del dibattimento. Già oggi, per esempio, non è infrequente che in Corte d’appello si rinviino processi per omicidio stradale di anno in anno, approfittando dell’allungamento dei termini di prescrizione. Non è allora difficile immaginare i guasti che la riforma potrebbe provocare: su chi per ottenere un lavoro deve esibire il certificato dei carichi pendenti, o su chi, magari per via di una denuncia pretestuosa o di un Pm innamorato della propria tesi accusatoria, deve convivere per anni con il terrore di una condanna ingiusta, mentre la collettività lo stigmatizza come reietto. Si dice poi: senza la speranza nella prescrizione, si ridurrebbero le impugnazioni.
Ma anche questa è una considerazione che può fare solo chi è digiuno di esperienza processuale, se non proprio in malafede. Le impugnazioni rimarrebbero esattamente le stesse e più o meno per gli stessi motivi per cui vengono proposte oggi. Per ottenere l’assoluzione, il riconoscimento di un’attenuante, una riduzione della pena, la concessione di una misura alternativa o anche solo per rinviare l’evento nefasto: a muri’ e a pava’ ce sta semp’ tiempo, come usa dire a Napoli.
In realtà, non esiste un rimedio miracoloso per risolvere le lungaggini della giustizia penale (come d’altra parte in nessun altro campo, sebbene ai populisti faccia comodo sostenere il contrario). Inserimento dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari (che precede il rinvio a giudizio) tra gli atti che interrompono la prescrizione; depenalizzazione di tutti quei reati che intasano le aule dei tribunali senza alcuna ricaduta positiva sui drammi che vorrebbero contrastare (a cominciare da una profonda riforma della disciplina degli stupefacenti e di quella dell’immigrazione); abolizione dell’appello per motivi di merito in caso di assoluzione in prima istanza; semplificazione delle motivazioni delle sentenze, sono solo alcuni degli interventi – in buona parte già individuati dalle varie commissioni ministeriali – che possono aiutare a uscire dal guado se coordinati tra loro.
Tutto questo presuppone però un mutamento di paradigma culturale, mentre all’orizzonte si intravvedono tentazioni di Ancien Régime per cui il giudice dovrebbe essere unicamente bouche de la loi. Ecco, allora, che occorre denunciare con forza che il vero nemico del diritto e della legalità repubblicana è oggi chi, propugnando il processo infinito, esprime in realtà il disprezzo per il valore epistemologico del processo, della sua matrice accusatoria e degli apporti di sapere delle parti.
Scriveva il barone di Montesquieu, nel suo celeberrimo Spirito delle leggi quasi trecento anni or sono: “Se esaminate le formalità della giustizia in relazione alla fatica che fa un cittadino per farsi restituire quello che è suo o per ottenere soddisfazione di un’offesa, ne troverete senza dubbio troppe. Se le considerate nel rapporto che hanno con la libertà e la sicurezza dei cittadini, ne troverete spesso troppo poche; e vedrete che le fatiche, le spese, le lungaggini, perfino i rischi della giustizia, sono il prezzo che ogni cittadino paga per la propria libertà”.
Cesare Antetomaso
Giuristi democratici
16/12/2019 left.it
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