Prezzi da saldo e verifiche sulla carta: l’inchiesta sui controlli nel biologico

Persino in anni di crisi economica generalizzata, il biologico ha continuato a crescere come fatturato e superfici coltivate, anche grazie all’aiuto dei fondi comunitari previsti dai piani per il Green deal, tra cui il Farm2Fork. Secondo il rapporto Bio Bank 2020, il mercato dell’organico italiano negli ultimi dieci anni è cresciuto del +118%, raggiungendo nel 2020 un fatturato di 6,9 miliardi di euro. Com’era prevedibile, nel settore si sono lanciati anche pesi massimi della filiera agroalimentare, e se da una parte questo ha contribuito ad allargare il mercato, con i prodotti contrassegnati dalla fogliolina verde in etichetta ormai presenti in quasi tutti i supermercati e perfino nei discount, dall’altro un eccessivo snaturamento rischia di incrinare la fiducia dei consumatori storici.

Il caso Fileni

L’ultima notizia che ha fatto vacillare tanti nostri lettori è il polverone che si è alzato attorno a Fileni, dopo l’inchiesta trasmessa da Report a inizio gennaio. Che siano vere o meno le accuse di maltrattamenti e violazioni del regolamento per gli allevamenti di polli bio (nel momento in cui scriviamo non risultano persone indagate), sta di fatto che il dibattito avviato dal caso coglie sicuramente un punto: se il biologico è cambiato negli anni, non è forse l’ora di aggiornare anche le leggi e i regolamenti, in modo da confermare nel tempo il patto di fiducia con i consumatori, che oggi scricchiola?

L’inchiesta del Salvagente sul biologico

Riportiamo a seguire l’intervista a Lucio Cecchini, ispettore di Icea, uno degli organismi storici, tra i primi a certificare bio in Italia, che racconta  perché un sistema, che già prevede una sola visita in campo l’anno, con l’ingresso di capitali stranieri e la battaglia degli sconti, rischia di perdere credibilità. L’intervista fa parte dell’inchiesta di copertina del numero di marzo del Salvagente, in edicola dal 24 febbraio, che racconta anche di come i pesticidi illegali finiscano regolarmente nel cibo che mangiamo.

L’intervista all’ispettore

Dottor Cecchini, come viene stabilito quanti controlli dovete fare?
Ogni anno riceviamo un piano di controllo su cui sono inserite le visite che dovremo svolgere.

Quanti controlli spettano per azienda?
Ogni azienda deve ricevere almeno un controllo l’anno, numero che sale a 2-3 se la classe di rischio è maggiore.

Quante sono le classi di rischio?
Sono 3 e dipendono dal volume degli affari ma anche da altri fattori. Per esempio nella classe 3 ci finiscono le aziende miste bio-convenzionale e quelle di alcuni settori in particolari, come la produzione di olio, di cereali e di pomodoro. Anche le aziende con grossi allevamenti finiscono spesso in questa classe.

Poniamo il caso di un’azienda con più capannoni, quando parla di un controllo l’anno, intende per azienda o per unità produttiva?
Un controllo l’anno per unità produttiva.

Quindi nel caso delle classi di rischio 3 devo triplicare per ogni capannone o appezzamento?
No, i tre controlli in questo caso non riguardano ogni singola struttura dell’azienda. Non è una moltiplicazione matematica.

Dunque, solo in alcune unità andrete più di una volta l’anno. Le visite sono annunciate?
In genere sì, ma non tutte. Sono previste una parte di visite a sorpresa.

Quante?
Noi ne facciamo il 5% sulle visite totali annue.

Non molte. E quanto tempo prima le annunciate?
Normalmente l’azienda viene avvertita 10-15 giorni prima.

Non c’è il rischio che tra ispettore e azienda si crei complicità?
Il regolamento prevede che lo stesso ispettore non possa andare nella stessa azienda per più di 3 volte di seguito, per evitare che si crei un rapporto di eccessiva confidenza.

Come si svolgono i controlli?
In prima battuta si fa da remoto una verifica documentale: pagamenti, registrazioni, autorizzazioni, secondo quanto indicato da un software che abbiamo. Poi si va a fare il vero e proprio audit, l’ispezione in azienda.

Che succede lì?
Controlliamo la documentazione fiscale, i dati necessari per verificare rintracciabilità e tracciabilità, compariamo i volumi di acquisto delle materie prime con quello delle vendite, in modo da rilevare eventuali discrepanze.

Tante carte… E poi?
Poi c’è la visita per le linee di produzione, gli stabilimenti, per verificare per esempio che siano state prese tutte le precauzioni possibili per evitare contaminazioni, soprattutto per quelle aziende che producono sia convenzionale che bio. Visitiamo gli appezzamenti, controlliamo la resa dichiarata e quella effettiva, e anche se ci sono tracce di possibile utilizzo di sostanze non consentite.

Fate anche analisi per verificare le condizioni dei campi?
In genere, facciamo dei prelievi a campione sui terreni e sui prodotti, circa l’8-10% del totale, ma di fronte a casi sospetti eseguiamo dei campionamenti ad hoc.

Mettiamo caso che scopriate che un terreno bio è stato trattato con glifosato…
In quel caso, procediamo con una soppressione per non conformità: ammesso che possano essere messi in commercio, quei prodotti trattati potranno essere venduti solo come convenzionali e non come biologici.

Mi sembra un po’ poco per un fatto del genere…
In ogni caso inseriamo l’informazione in un database a cui ha accesso anche l’Icqrf, cui spetta di valutare una possibile sanzione.

Cosa deve fare un’azienda per meritare un’azione più decisa dal certificatore?
I casi di non conformità possono essere più lievi o più pesanti. Nei casi più lievi, tipo quando l’agricoltore si è dimenticato di compilare un documento amministrativo, lo diffidiamo e lo invitiamo a mettersi in regola. Se non lo fa procediamo con la soppressione. Poi c’è la sospensione.

Di che si tratta?
Se individuiamo una carenza di tipo strutturale, per esempio sulla rintracciabilità, si provvede a sospendere l’azienda dalla certificazione per 6 mesi. Solo se quest’azienda non si adegua alle nostre richieste in questo periodo, a quel punto si procede con l’esclusione vera e propria dal sistema di certificazione.

Può darci dei numeri rispetto ai vostri controlli e ai risultati?
In Umbria controlliamo circa mille aziende con circa 1.300-1.400 visite l’anno, e procediamo a 30-40 soppressioni in questo lasso di tempo. Di esclusioni ne facciamo una l’anno, in genere.

La burocrazia è davvero il nemico principale del vostro lavoro?
È vero che la burocrazia è tanta, ma è anche vero che dobbiamo adempiere a dei questionari molto dettagliati impostati dal ministero, che ci impongono dei controlli approfonditi sulle carte.

Quanti controlli al giorno fa al massimo un ispettore?
Non più di tre. Ogni controllo in media dura tre ore, di cui il 50% serve per guardare le carte e il resto per visitare il campo. Quando si lavora bene prima, preparando le carte e controllando in anticipo il più possibile, durante l’audit si ha più tempo per la visita. Noi cerchiamo di dedicare più tempo possibile a questa parte, visto che è anche quello che ci chiedono i consumatori.

I controlli non sono pochi?
Sarebbe meglio poter fare più controlli, ma purtroppo non ci sono i fondi. E questo anche perché negli ultimi anni la concorrenza è diventata molto forte, con competitors che agiscono in maniera molto aggressiva abbassando i prezzi.

Ci spieghi meglio questo punto…
Fino agli anni 90 i certificatori accreditati da Accredia erano 7-8, oggi sono circa venti. Sono entrate anche società multinazionali con capitali stranieri che fanno prezzi stracciati, perché avendo profitti da altri settori possono fare del dumping sulla certificazione bio in Italia.

Perché questi soggetti entrano nel mercato bio?
Entrano solo perché il bio è un settore che fa gola, che cresce costantemente, supportato con fondi pubblici come quelli della Pac o della strategia Ue Farm to Fork.

Quali sono gli effetti pratici?
Stanno inquinando la competizione con prezzi molto più bassi, fatti con una logica scorretta rispetto al documento tecnico 16 di Accredia, che stabilisce i parametri minimi per le classi di rischio e per le necessarie verifiche.

Si abbassa la qualità della certificazione?
È chiaro che se applico degli sconti anche del 50% all’azienda, e pago un ispettore 40-50 euro a visita, finisce che magari quello l’ispezione la fa tutta dall’ufficio e salta la visita in campo. E siccome le visite di controllo di Accredia non sono tantissime, è difficile che vengano beccati. Per esempio noi di Icea Umbria-Marche ne riceviamo una ogni 3 anni, in cui ci chiedono di controllare due sole pratiche.

Dunque i certificatori sono uguali solo sulla carta.
Non è che ci siano certificazioni di serie A e B, ci sono organismi di controllo che fanno controlli più blandi, senza la stessa severità di altri.

Come lo sa?
Alcuni nostri clienti ci hanno lasciati e sono passati a concorrenti che fanno fatture del 30-40% in meno. Loro stessi ci hanno detto che così hanno anche beneficiato di controlli meno rigorosi.

Cosa dovrebbe fare il ministero delle Politiche agricole per evitarlo?
Andrebbero fissati degli standard economici minimi e massimi per le prestazioni.

Basterebbe?
Aiuterebbe molto. Poi ci sono anche i casi di tecnici che cambiano organismo e si portano dietro i vecchi clienti.

Cosa c’è di male?
Un controllore deve essere terzo. Se crea un rapporto di fiducia tanto da portarsi dietro i clienti, non è un ispettore, è un consulente.

Queste anomalie sono facili da rilevare?
Penso che quando nelle stessa zona centinaia di aziende si spostano in poco tempo da un organismo all’altro, il ministero dovrebbe controllare, perché di certo è una situazione anomala.

Lorenzo Misuraca

24/2/2023 https://ilsalvagente.it/

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