Profitto, pubblicità, pornografia: il totalitarismo delle tre P

Uno degli aspetti positivi di questa campagna elettorale – altrimenti abbastanza desolante – è che può aiutarci a stimolare una riflessione sullo spazio pubblico. L’impressione che vorrei approfondire è che in questi ultimi decenni si stia erodendo quasi integralmente questo spazio, lasciando il posto a quello che potremmo definire “il totalitarismo delle tre P”: profitto, pubblicità e pornografia. Il senso di queste parole deve essere spiegato e chiarito con qualche esempio. Infine, si proporrà una strategia di speranza e contrattacco per il futuro.

Il profitto è divenuto il motivo fondamentale per occupare lo spazio pubblico, ciò che dà legittimità. Il profitto è la motivazione. L’unico fondamento ammesso in questa civiltà è la ciclicità tecnica di un aumento di potenza monetaria, di cui il capitalista possiede i mezzi, indica la direzione e si appropria dei frutti.  Esso è il motivo che sostituisce qualunque altro motivo, e che non necessita di nessuna altra giustificazione, in quanto si auto-istituisce da sé.

Oggi non parliamo più del capitalista tradizionale. La nuova figura è il capitalista-influencer. Esso è dispensato dall’apportare qualunque giustificazione per occupare lo spazio pubblico in quanto è la sua figura a giustificare. È giusto nella nostra civiltà ciò che il capitalista-influencer dice che sia giusto. Dall’essere considerato dalla cultura critica un elemento di opposizione, la fonte dell’ingiustizia nel senso dello sfruttamento, il capitalista oggi è divenuto la fonte della giustizia nel senso della legittimazione. Egli giustifica. Al massimo gli viene richiesto qualche impegno sociale, filantropico, ma ciò non deve in alcun modo contestare il quadro d’insieme, che invece deve essere ribadito e confermato. Nel passato si aveva quasi ritegno a ostentare la ricchezza, in quanto veniva ritenuta il frutto di una posizione di potere che andava semmai protetta e non esibita. Oggi, l’ideologia della meritocrazia fa sì che molti ritengano la ricchezza il prodotto di un esclusivo merito individuale, che quindi non solo può ma anche deve essere mostrata come modello di virtù e di buona condotta.

La pubblicità è l’immaginario di questa civiltà. La pubblicità è il discorso. Non può esistere logos realmente alternativo in quanto la comunicazione volta all’incremento del profitto è l’unico discorso ammesso. Poco importa se oramai è noto che la pubblicità attui vere e proprie strategie ingannatorie, volte a sostituire nell’uomo i suoi desideri più autentici con surrogati temporanei, merci di dubbia qualità che possano riempire per qualche ora il proprio abisso di senso. Oggi non si può più dire questo perché la pubblicità è divenuta la sola fonte finanziaria di quasi tutte le attività culturali di questo paese, dalla televisione ai giornali, passando per i festival culturali e i premi letterari.

Non si comprende, in tale contesto, che divenendo del tutto dipendenti da questo tipo di linguaggio, anche il linguaggio che dovrebbe essere non-pubblicitario, ossia ciò che la pubblicità dovrebbe finanziare, viene sussunto sotto il suo logos. Infatti, considerando anche la qualità artistica e gli investimenti tecnici, non si può più nascondere che molte volte sembra che il programma televisivo sia l’intermezzo del vero programma in corso, che è la pubblicità, e non il contrario. Siamo all’interno di un unico discorso pubblicitario che si nutre di programmi televisivi per attirare l’ingenuo spettatore. Tale meccanismo oramai riguarda anche la politica, sempre più simile a un marketing che vuole vendere un prodotto ad astanti immobili solleticando i meccanismi automatici della loro mente. La pubblicizzazione del discorso è infatti parallela all’immobilità del cittadino, ridotto ai micro-sussulti di vitalità che il lancio di un nuovo prodotto suscita nei suoi appetiti reattivi e fugaci.

Un esempio di questo dominio della pubblicità è la graduale leggerezza con cui uomini di sport, spettacolo o cultura si prestano come testimonial dei prodotti più disparati: dal detersivo alla fibra ottica passando per il superenalotto. Sembra che non ci sia più quel pudore che, a mia memoria, fino a pochi anni fa creava nel VIP un certo imbarazzo nel vendere il proprio volto e la propria storia pubblicizzando la qualunque. Si aveva forse maggiore consapevolezza del ruolo politico che una persona famosa necessariamente svolge, soprattutto sui più giovani. Ho l’impressione che questa forma di pudicizia stia sfumando, lasciando il posto a un tracimare della motivazione del profitto. “Se li guadagna onestamente, cos’hai da obiettare?”. Questa è la risposta che si riceve avanzando una tale forma di critica, come se il piano giuridico fosse sempre sovrapponibile a quello morale, o come se un sistema sociale ingiusto, iniquo e oramai suicidario come il nostro produca sempre un piano normativo che corrisponda a un atteggiamento etico di spessore (pensiamo ai legalissimi paradisi fiscali nel cuore dell’Europa). Questa obiezione conferma cioè proprio il punto che si voleva sottolineare, il fatto che la pubblicità faccia parte oramai tranquillamente e senza particolari obiezioni del senso profondo della nostra civiltà.

La pornografia diviene infine la modalità con cui questa società, volta al profitto e fondata sull’immaginario pubblicitario, si rapporta alle relazioni umane. La pornografia è l’atteggiamento. Per ‘pornografia’ non intendiamo innanzitutto la vera e propria industria pornografica, ma l’atteggiamento complessivo che questa cultura intrattiene con la sfera della sessualità. Va innanzitutto ricordato come questa società si ammanti di un moralismo sempre più rigido. Nonostante le ambizioni relativiste, la cultura “progressista” ha replicato su molti aspetti il peggiore atteggiamento astratto, ideologico e bigotto di un certo clericato cattolico del Seicento spagnolo. Accanto a questo, tuttavia, la cultura dominante propone una morale sessuale sempre più liquida. Da una parte, quindi, si cerca di regolare al millimetro i rapporti tra i sessi, ponendo rigidi e a volte discutibili sistemi di normazione; dall’altra, si propina quotidianamente un linguaggio pornografico, esplicitamente, o il dominio di una sessualità non circoscritta da alcun piano morale. Questo cortocircuito sta creando non pochi problemi nelle ultime generazioni, spinte da una parte a censurarsi con criteri rigidi; dall’altra, a esporsi in una sessualità sempre più performante e disinibita, magari sul proprio TikTok.

Infatti, nonostante il dominio pornografico, la sessualità in Occidente non è mai stata così in crisi. La nostra, sebbene sia una società ad altissima intensità pornografica, è anche una società a bassissima intensità erotica. Anche la trasgressione, ingrediente fondamentale di un sano erotismo, è bassa, ed è bassa proprio nell’apparente esaltazione della trasgressione. Così, si è creato un conformismo della trasgressione, e l’erotismo autentico ne ha risentito. Nonostante, quindi, questa cultura voglia apparire irriverente, frizzante, indomabile, appare a degli occhi minimamente lucidi come una società grigia, spenta, ripetitiva, anziana. La pornografia infatti non è solo il video pornografico ma il tentativo costante e necessario, in questo clima bloccato e moralistico, di sfogare l’autentica vitalità sessuale in forme indirette, mediate, mascherate. Essendo l’erotismo bloccato, lo spazio pubblico si è fatto pornografia.

L’erotismo è invece l’ingrediente fondamentale del desiderio, e quindi anche dell’autentica prassi politica, che si nutre sempre di quell’attrazione magnetica che anima gli stati più alti della nostra coscienza. Per avere erotismo bisogna però raggiungere un certo grado di libertà, che invece questo sistema neo-bigotto cerca in ogni modo di normare. Un moralismo peggiore di quello tradizionale, che almeno poteva vantare un fondamento religioso alto e, almeno alla radice, una visione sull’umano corroborata da secoli di osservazione. Questo sistema che si definisce politicamente corretto è invece pornograficamente sorretto: si fonda cioè su una cultura pornografica e sterile, funzionale alla fine alla conservazione di sé stesso, all’oligarchia del profitto e della pubblicità.

Questa cultura non ha quindi alcuna esperienza dell’eros. È così costretta nelle proprie gabbie mentali dall’esserne del tutto inibita. Per questo è depressa. Il sistema che abbiamo delineato è infatti da una parte iper-moralistico e dall’altra intrinsecamente pervertito. Perversione non sessuale ma spirituale, e quindi culturale, che implica subito un indebolimento della forza vitale e politica. La spinta erotica non si riesce a esprimere e si perverte, trova cioè un blocco e si manifesta in forme o deboli o distorte. La presunta vitalità che questa cultura vorrebbe rappresentare, sbandierata negli inserti dei quotidiani à la page, non si vede infatti molto nei volti di alcuni “sacerdoti” o di alcune “filosofe” di questa nuova dottrina, che si presentano invece spesso dietro un volto cupo e severo, simile più che altro a qualche burbera anziana di provincia. 

Lo spazio pubblico è, quindi, oramai occupato da queste tre dimensioni: il profitto è la motivazione, la pubblicità è il discorso, la pornografia è l’atteggiamento. In questo contesto evidentemente folle, si cerca allora di dare una qualche giustificazione morale al sistema, sverniciandolo con qualche valore a basso costo. Ed ecco le pubblicità-green, le imprese-green, forse arriveremo anche al porno-green. Il punto è che si contesta solo la forma superficiale di questo sistema senza mai porlo in questione fino in fondo, senza mai rifiutarne la radice di odio, stupidità e volgarità, ma accettando in pieno il suo immaginario, le sue regole, le sue visioni fondative. Si può essere perciò influencer impegnati nel sociale, con sensibilità green, molto attenti a essere politicamente corretti, ed essere allo stesso tempo complici diretti di un sistema iniquo come mai ce ne sono stati sulla Terra. Siamo nel tempo assolutamente inedito in cui i carnefici vogliono apparire buoni… e guai a criticarli!

Il punto che infine ci preme rimarcare è che questa tendenza non deve essere vista come una necessità. L’occupazione dello spazio pubblico dal totalitarismo delle tre P è frutto di determinate decisioni culturali e politiche. Certamente questa tendenza porta a rivelazione processi antichi dell’Occidente. Tuttavia, è fondamentale rifiutare qualunque determinismo che legga tale evoluzione come un processo incontrastabile. Allo stesso tempo, credo risulti insufficiente un generico appello al “ritorno della politica” o della “ragione”, o dell’“educazione”. Proposte condivisibili, ma che oramai non possono che mostrare anche il loro carattere un po’ volontaristico, soprattutto alla luce di ciò che è già stato fatto e detto nel Novecento.

Senza poter entrare nel merito, si ritiene che una strategia alternativa debba partire dal recupero di alcune qualità basilari dell’essere umano. Questo totalitarismo domina innanzitutto perché la mente umana si è fatta incredibilmente debole. Sotto mille input telematici, il bombardamento informativo, la nostra capacità di distaccarsi dal discorso del potere si è fatta lentamente meno acuta. È la nostra anima, prima che la nostra democrazia, ad aver perso una buona fetta di sovranità. Prima di imbarcarsi in nuove teorie bisogna perciò constatare il carattere terminale, e quindi iniziale, dell’epoca che viviamo. È necessario ripartire dall’essenzialità di proprietà antiche dell’essere umano, che sembrano però andate perdute nella velocità comunicativa della tecnica moderna.

Nel contesto di immediatezza in cui la comunicazione planetaria sembra far vorticare tutto, lavorare sulla propria mente diviene perciò il compito politico primario. Senza il contatto con questa dimensione di distacco saremo sempre reattivamente a disposizione dei ritmi e dei desiderata di questo mondo, che con qualche gioco di luci riuscirà agilmente ad aggirarci. Al contrario, avere un’esperienza reale di integrità, sperimentare un rapporto più dilatato con il tempo, acquietarsi in una dimensione più areata della coscienza, relativizza immediatamente i pensieri di questo mondo – mostrandoli per il nulla che sono – e dona un piccolo ma concreto spazio di libertà. Allora, questo potere dinanzi non avrà più automi, sottomessi al suo palinsesto, ma esseri liberi, o tendenzialmente più liberi, capaci di distaccarsi dal suo monologo ossessivo, acquietare il flusso automatico dei suoi discorsi e inaugurare un nuovo campo vitale, ossia erotico, di relazioni creative e divertenti. Solo così si potrà insomma incominciare a sabotare tutti i giorni le agende, gli stili, i volti e le parole di questo sistema mortuario.

Sembra un compito fin troppo banale per la mente di un uomo “moderno”, ma penso che in molti, e gradualmente sempre di più, comprenderanno, attraverso una semplice autoanalisi, l’importanza e la potenzialità rivoluzionaria di questa nuova essenzialità.

Gabriele Guzzi

14/9/2022 https://www.lafionda.org

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