Pubblico è bello

Prologo
Negli anni ‘50 e ‘60 il mondo occidentale era caratterizzato da un
forte sviluppo fondato su politiche keynesiane e permeato dall’idea di
un miglioramento progressivo delle condizioni di vita. L’american way of
life trovava il suo corrispettivo nel miracolo economico italiano e
nello sviluppo della società dei consumi.
Alla fine degli anni ‘60, a
livello mondiale, il movimento operaio ha preso sul serio questa
possibilità di cambiamento e ha cominciato a chiedere forti aumenti
salariali, lo sviluppo del welfare e una modifica profonda del modo di
lavorare. Nella stessa direzione si muovevano i paesi del Sud del mondo.
Di
fronte a questa conflittualità generalizzata, se una prima risposta fu
la disdetta degli accordi di Bretton Woods da parte del governo
statunitense, una strategia capitalistica compiuta arrivò alla fine
degli anni ‘70, con l’offensiva reaganiana e thatcheriana fondata
sull’attacco concentrato al movimento dei lavoratori, sul decentramento
produttivo su scala mondiale, sugli alti tassi di interesse e su un
processo di privatizzazione delle banche centrali .
Gli anni ‘80 sono
stati così caratterizzati da un pesantissimo piano di ristrutturazioni
industriali finalizzato a distruggere il movimento operaio nei paesi
occidentali. La narrazione dominante – al contrario di quella che aveva
caratterizzato gli anni ‘50 e ‘60 – descriveva un mondo di scarsità che
dava luogo a una concorrenza spietata in cui si poteva solo vincere o
perdere. Il pareggio era escluso. In questa guerra per la vita, centrale
era rendere più efficienti le imprese e ridurre al minimo gli sprechi,
tra cui erano ovviamente conteggiati i diritti dei popoli e i salari dei
lavoratori. Con la frusta della concorrenza scatenata su scala
planetaria, sono cominciati il “si salvi chi può” e la guerra tra i
poveri.
A partire dell’inizio degli anni ‘90, utilizzando come un
gigantesco spot il crollo dell’Unione Sovietica, la campagna
sull’inefficienza del pubblico e sulla necessità di gestire le risorse
economiche in forma privata, ha raggiunto un punto di svolta. Le
privatizzazioni sono state presentate come l’unico modo per perseguire
l’interesse pubblico delle nazioni contro le intollerabili sacche di
inefficienza e privilegi costituite dal settore pubblico. Su questa base
si è sviluppato a livello mondiale un processo di privatizzazioni che
in Italia ha raggiunto livelli parossistici, eguagliati solo dal
processo di rapina neocoloniale praticata nei paesi dell’Est dell’ex
blocco sovietico. Il paese – e segnatamente il mezzogiorno – ha così
subito un drammatico processo di depauperamento che ha trasferito enormi
risorse dal basso in alto e dal Sud al Nord.
In questo quadro, i
governi D’Alema e Amato hanno sicuramente conquistato l’Oscar delle
privatizzazioni, superando addirittura la Thatcher.
Nella
globalizzazione neoliberista, dove proletari e piccoli imprenditori sono
sottoposti a una concorrenza spietata, le privatizzazioni sono state
presentate come l’unica strada per per seguire l’interesse generale del
paese. Questa narrazione dominante – fatta propria dall’intero arco
politico dal centro sinistra al centro destra – ha avuto un primo colpo
d’arresto in occasione del referendum sull’acqua pubblica nel 2011.
Questo positivo risultato non è però riuscito a dar vita a un cambio di
indirizzo politico perché la crisi del debito pubblico e la gestione del
governo Monti hanno seppellito nella pubblica opinione questa vittoria.
Oggi
In questo contesto, la pandemia del Covid ha bruscamente evidenziato
le falsità su cui si basa la narrazione dominante: i sistemi sanitari
privatizzati sono implosi e hanno condannato a morte centinaia di
migliaia di persone di tutto il mondo. Parallelamente, con la divisione
internazionale del lavoro propria della tanto decantata globalizzazione,
l’Europa si è scoperta incapace a fabbricare mascherine e i prodotti di
base dell’industria farmaceutica. La stessa ricerca del vaccino ha dato
luogo a uno spettacolo indecoroso in cui le multinazionali hanno fatto a
gara a brevettare prodotti da vendere a caro prezzo al miglior
offerente. Che questa gara sia stata finanziata da denaro pubblico e che
le aziende farmaceutiche ricattino gli stati che le hanno finanziate
facendosi pagare cifre iperboliche i vaccini, non fa che aumentare
l’aspetto scandaloso di questa situazione. Come se non bastasse, anche i
piani di spesa degli stati per far fronte alla pandemia prevedono
enormi trasferimenti di risorse alle imprese private, con una
particolare attenzione a quelle più grandi.
Se la pandemia ha
evidenziato il fallimento del privato, la risposta data dalle classi
dominanti sposta però ulteriori risorse a favore delle grandi imprese
private, da quelle militari a quelle sanitarie. Senza nessun pudore sono
passati dal terrorismo monetario contro i popoli al più aperto
assistenzialismo verso le imprese, le banche e gli speculatori.
Il rilancio del pubblico
Questa situazione ha aperto una finestra di opportunità per avanzare
una critica di fondo alle privatizzazioni e all’ideologia del mercato ed
a favore del rilancio del pubblico.
A partire da questi elementi si apre uno spazio di lotta politica per:
Il
superamento della privatizzazione della moneta e del credito. Avere un
sistema di banche pubbliche e la Banca Centrale come finanziatrice
d’ultima istanza per gli stati, non sono follie estremiste ma la misura
più razionale per gestire l’enorme ricchezza che l’umanità ha
accumulato. Invece di finanziare le banche private – e la crescita dei
valori di borsa – la BCE deve quindi finanziare direttamente i sistemi
di welfare pubblici, la riduzione dell’orario di lavoro, la
riconversione ambientale e sociale delle produzioni e dell’economia. I
soldi ci sono e vanno usati per il bene comune.
Sviluppare il welfare
pubblico in modo da creare una rete di diritti sociali universale,
generale, garantita per tutte e tutti coloro che risiedono sul
territorio europeo. Dalla sanità all’istruzione, dall’assistenza alla
cultura ai trasporti. Nessuno deve restare solo nel momento della
debolezza e l’Europa ha la ricchezza sufficiente per garantire questo
diritto.
Superare l’intervento assistenziale dello stato a favore
delle imprese e disegnare l’intervento pubblico in funzione della
riconversione ambientale e sociale dell’economia. La costruzione di un
sistema pubblico del credito, di una nuova IRI finalizzata alla
riconversione ambientale dell’apparato produttivo, la formazione di
manager pubblici in grado di misurarsi con la progettazione del
soddisfacimento dei bisogni sociali. Il finanziamento della riduzione
generalizzata della riduzione dell’orario di lavoro a partire dalla
possibilità di andare in pensione con 40 anni di anzianità o 60 di età.
E che pubblico!
Non dobbiamo però illuderci che sia sufficiente evidenziare le
disfunzioni del privato per conquistare un consenso di massa al nostro
discorso. Molte persone ci direbbero che sarebbe bello, ma che
nell’esperienza storica l’intervento pubblico è stato un gigantesco
spreco di denaro pubblico, inefficace, clientelare, burocratico,
finalizzato solo a difendere i privilegi di chi vi operava, a partire
dai “boiardi di stato”. Inoltre, mentre l’intervento pubblico
assistenziale a favore delle imprese – in primo luogo quelle grandi –
viene assunto senza troppa pubblicità dall’intero arco delle forze
politiche, dal centro sinistra alla destra e coperto dai media
mainstream, l’intervento di rilancio del settore e della programmazione
pubblica verrebbe attaccato frontalmente da tutto l’arco neoliberista:
da 5 stelle e PD fino a Lega e Fratelli d’Italia.
Occorre quindi
qualificare la nostra proposta di pubblico rispondendo positivamente ai
dubbi e alle obiezioni che l’esperienza concreta ci ha posto e
decostruendo tutte le falsificazioni su cui si è basata la narrazione
sulla bontà delle privatizzazioni. Altrimenti, viene meno un pezzo della
narrazione neoliberista ma resta in piedi il suo impianto. Per
rovesciarla non basta constatare la falsità del discorso sulle
privatizzazioni: occorre proporre una narrazione alternativa ed
egemonica sulla bontà del pubblico, anche chiarendo bene cosa intendiamo
per pubblico.
Dobbiamo rendere evidente a livello di massa che la
narrazione trentennale secondo cui siamo in una situazione di scarsità,
che obbliga alla concorrenza sfrenata e determina una condizione in cui
“non ci sono i soldi”, è totalmente falsa. In risposta al Covid, in un
contesto in cui rischiavano di fallire banche ed imprese, l’Unione
Europea ha tirato fuori valanghe di miliardi a fondo perduto, ha sospeso
il patto di stabilità e le clausole sulla concorrenza che impediscono
gli aiuti di stato alle imprese. In questi trent’anni la scarsità è
stata prodotta artificialmente al fine di tagliare welfare e diritti:
hanno mentito dicendo che non esistevano “pasti gratis” e nello stesso
tempo hanno predisposto lauti banchetti per gli industriali. Se ci sono i
soldi per finanziare le imprese private non si capisce perché non ci
siano i soldi per finanziare la sanità o l’istruzione pubblica. Dobbiamo
far capire che quanto sta succedendo oggi evidenzia la malafede delle
classi dirigenti e l’arbitrarietà delle politiche liberiste fatte sin
ora e rende possibile evidente la praticabilità di politiche economiche
radicalmente diverse. I soldi ci sono e vanno utilizzati per garantire i
diritti sociali a tutti i cittadini.
Dobbiamo rendere evidente che
il privato non è un metodo più efficace per produrre le stesse cose del
pubblico ma un sistema che distorce il soddisfacimento dei bisogni della
popolazione. Prendiamo l’esempio della sanità.
La sanità pubblica è
basata sulla prevenzione, sulla rimozione dei fattori di rischio,
sull’educazione a corretti stili di vita: la cura è l’estrema ratio.
Al
contrario la sanità privata è finalizzata alla produzione di
prestazione sanitarie: più ne vengono fatte e più la struttura privata
guadagna. Con ogni evidenza per la sanità privata la prevenzione è una
iattura: se le malattie diminuiscono si riduce il mercato e quindi i
profitti.
La sanità pubblica e la sanità privata non hanno lo stesso
obiettivo. La sanità pubblica ricerca lo stato di benessere delle
persone intervenendo a monte dell’erogazione delle prestazioni
sanitarie. La sanità privata, invece, punta a fare il maggior numero di
prestazioni sanitarie allo scopo di poter guadagnare il massimo
possibile sulla malattia, trasformando la salute in una merce. Le merci
non soddisfano tutti i bisogni umani e il diritto alla salute, alla
cura, all’assistenza non possono essere soddisfatti in termini
mercantili.
Dobbiamo abolire i privilegi: Il settore pubblico deve
essere composto da dipendenti pubblici con rapporto di lavoro esclusivo e
gli stipendi debbono stare in una forbice massima di uno a dieci,
manager, dirigenti e medici compresi. La qualifica di dirigente deve
essere legata alla capacità e revocabile sulla base della capacità, non
alla nomina politica.
Dobbiamo realizzare un pubblico non
burocratico. A tal fine è necessario che la programmazione pubblica
fissi in modo chiaro i diritti esigibili universali. Serve una
programmazione pubblica e partecipata. In secondo luogo è necessario
istituzionalizzare forme di controllo degli utenti che rendano
verificabile la gestione della cosa pubblica e sia possibile per gli
utenti avere una struttura con cui interfacciarsi per chiedere conto di
manchevolezze, avanzare proposte, dire la propria sul servizio. Debbono
essere creati canali istituzionali attraverso cui gli utenti possano
esercitare un controllo sulle scelte pubbliche e avere gli strumenti per
mettere in discussione le stesse qualora inefficaci. Gli utenti debbono
sentire proprio il servizio a cui hanno diritto ed essere presi in
carico in quanto individui. In terzo luogo è necessario ripensare il
lavoro pubblico in direzione di una organizzazione del lavoro
egualitaria e tendenzialmente autogestionaria. Al fine di dar vita a
servizi che abbiano al centro il benessere dell’individuo è necessario
innanzitutto che i dipendenti pubblici siano posti in una condizione
salariale, normativa e di orari che permetta loro di lavorare bene.
Oltre a questo elemento fondamentale occorre ripensare il lavoro
pubblico viste le sue particolari caratteristiche relazionali.
Il
settore pubblico deve essere finalizzato alla soddisfazione dei bisogni
sociali ma questo deve avvenire nella forma più flessibile ed
individualizzata possibile. Il cittadino deve essere “preso in carico”
dal servizio pubblico e non semplicemente trattato come un cliente.
Prendiamo a esempio la mobilità: il pubblico si occupa del trasporto
collettivo, con sempre meno corse e sempre meno destinazioni. Questo
mentre la domanda di mobilità diventa sempre più flessibile negli orari e
nelle destinazioni. Il tutto determina una situazione in cui il
soddisfacimento della domanda di mobilità si riversa sul privato, con i
disagi e i paradossi che conosciamo. È evidente che la progettazione
della mobilità pubblica per essere efficace deve assumere una forma più
diffusa e flessibile: dal monopattino alla bicicletta al car sharing,
all’autobus al treno. Il pubblico non può limitarsi ad essere il
proprietario di un segmento del percorso. Il pubblico deve essere il
garante della possibilità di spostarsi a basso costo e a basso impatto
ambientale in ogni luogo. La stessa cosa deve valere in tutti i settori
di intervento: il pubblico deve prendere in carico gli utenti con
servizi tendenzialmente gratuiti a bassa soglia d’accesso, garantendo ai
cittadini il diritto a veder soddisfatto il bisogno. Il pubblico è un
modo diverso di vivere, non il diverso produttore di qualche merce.
Programmazione
trasparente e partecipata finalizzata al soddisfacimento dei bisogni
sociali, controllo degli utenti e autogestione dei lavoratori in un
contesto di abolizione dei privilegi di casta e di verifica
dell’efficacia sociale. Questo è il pubblico che vogliamo e che è
possibile proprio in virtù dell’enorme ricchezza che abbiamo
potenzialmente a disposizione.
Lo spazio pubblico
Quanto sopra espresso riguarda però solo una parte del pubblico.
Esiste un altro terreno che occorre scandagliare con attenzione: quello
dell’informazione, dell’intrattenimento e della gestione dei rapporti
sociali.
Nel corso degli anni abbiamo visto una enorme espansione di questo settore che è diventato un enorme business.
Prima
attraverso la produzione di una cultura di massa che ha
progressivamente sostituito la cultura popolare. La televisione è stato
lo strumento principe di questo processo.
Adesso la produzione di
intrattenimento si è dilatata enormemente e quella tradizionale si
intreccia con quella autoprodotta ed ha colonizzato il complesso della
vita delle persone.
L’allargamento delle possibilità dato dalle nuove
tecnologie fornite dalle aziende private, determina un paradosso. La
rete viene vissuta come uno spazio di libertà e rende invisibili sia le
dinamiche di subordinazione che si determinano che l’aggressione che
subisce lo spazio pubblico, lo spazio vitale.
L’intreccio tra social e
tecnologie informatiche ha prodotto il fenomeno della connessione
perenne che è gratuita in quanto in cambio cediamo i dati con cui
veniamo profilati e poi presi di mira dalla pubblicità personalizzata.
Un circuito perverso in cui diventiamo riproduttori e megafoni degli
stili di vita proposti dall’ideologia dominante al fine di sviluppare un
consumismo acritico. Anche perché se si esce dal seminato si viene
“puniti” dai gestori privati della rete.
Il grande fratello
Sarà capitato anche a voi di essere prima puniti, poi sospesi, poi
“silenziati” da FB perché avete difeso il povero Ocalan. Avendo postato a
fine 2020 foto e frasi a favore di Ocalan, mi hanno avvertito, poi
sospeso e poi mi hanno attribuito un algoritmo che sostanzialmente
silenzia la mia pagina. Visto che i social costituiscono oggi larga
parte della comunicazione politica, si tratta a tutti gli effetti di una
arbitraria limitazione della libertà di espressione a favore dello
statu quo. Se Ocalan è stato messo dagli USA nelle liste dei terroristi,
FB ti impedisce di fare una campagna a favore di Ocalan e per mettere
Ocalan e PKK fuori dalle liste dei terroristi. Scusate se è poco…
Si evidenzia qui un doppio problema.
Da
un lato la difesa della nostra individualità aggredita
dall’acquisizione dei dati da parte delle multinazionali del settore. Vi
è qui uno spazio di intervento legislativo nazionale e sovranazionale
che non può essere ulteriormente procrastinato: servono regole e stati
che le facciano osservare.
Dall’altra il tema della ricostruzione di
uno spazio pubblico di relazione tra le persone in carne ed ossa e non
di nevrotico gioco degli specchi tra identità virtuali. La perdita del
principio di realtà può essere simpatica se delimitata nel tempo e nello
spazio. Se diventa la condizione di normalità assume le caratteristiche
di una situazione di grave disagio psichico. Ci troviamo qui di fronte
ad un problema non risolvibile con le leggi ma piuttosto con un lavoro
di costruzione di un nuovo spazio pubblico in cui sviluppare relazioni
umane autentiche. È un terreno oggi assai rilevante, che riguarda la
costruzione di comunità dal basso, la costruzione di spazi sociali non
colonizzati dai big brother del big data in cui le soggettività possano
scoprirsi ed esprimersi.
Concludendo
Il liberismo ha voluto le privatizzazioni e vuole uno stato repressivo subalterno al mercato e finanziatore delle imprese. Noi vogliamo allargare la sfera del pubblico a scapito di quella del mercato, vogliamo demercificare la società e costruire una positiva dialettica tra stato e controllo sociale, tra stato ed autogestione sociale. Lo stato deve essere socializzato e intrecciato con forme di democrazia diretta e partecipata, non piegato alla volontà e ai disegni delle grandi imprese private. In questo quadro per noi non si tratta di contrapporre il “Comune” o i “beni comuni” allo stato e al mercato. Si tratta di socializzare lo stato in una dialettica con il “Comune”, intrecciando universalismo dei diritti e concretezza dei percorsi di partecipazione e controllo. La socializzazione dello stato significa l’intreccio tra l’impersonalità razionale del diritto statale e la concretezza dell’attività militante di controllo e autogestione e produzione di regole dal basso, propria del “Comune”.
Così come riteniamo necessario operare per la costruzione di uno spazio pubblico in cui sia possibile per ognuno sviluppare la propria individualità, decolonizzandolo dal mercato e dall’alienazione ad essa connessa. La messa in discussione della neutralità delle tecnologie informatiche che colonizzano la nostra vita e la denuncia dei rapporti di potere e dell’alienazione che da esse derivano, la costruzione di spazi liberati è un filone di ricerca che vogliamo seguire come rivista, perché il nostro è un comunismo verde ma anche un comunismo in cui gli uomini e le donne che lottano per il superamento della costrizione dal bisogno economico, possano svilupparsi liberamente come individui.
Paolo Ferrero
Maggio 2021 https://sulatesta.net
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