Quale sanità post-covid. Cosa occorrerebbe fare?
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Professore Ordinario di Igiene presso l’Università di Torino e direttore della S.C.a.D.U. Epidemiologia dell’ASL TO3, centro di riferimento per i Determinanti sociali di salute e salute in tutte le politiche. Già presidente dell’Associazione Italiana di Epidemiologia, attualmente è coordinatore della commissione solidarietà nazionale e internazionale equità dell’accesso alle cure dell’Ordine dei Medici di Torino. È autore di centinaia di pubblicazioni nazionali e internazionali sulle disuguaglianze di salute e sulla valutazione di impatto delle politiche sanitarie e non sanitarie sulla salute.
Il professor Costa si è messo a disposizione per rispondere alle domande che seguono, per questo lo ringraziamo.
Professor Costa nelle scorse settimane è circolata la notizia che il virus Covid 19 sarebbe circolato ben prima delle rilevazioni ufficiali. Questo ha immediatamente suscitato un rincorrersi di commenti di vario tipo. In fondo, per virus simili a quello in questione, sono serviti anni per ricostruire un quadro abbastanza stabile di informazioni. Non crede che occorrerebbe dare alla scienza il tempo che le serve, il tempo per accumulare informazioni, prove, valutazioni certe? E, più in generale, qual è l’dea che si è fatta intorno al rapporto tra scienza, mass media, e coscienza di massa in questo periodo?
E’ molto difficile fare speculazioni fondate su queste notizie che anticipano la comparsa del virus; per quel che conosciamo allo stato attuale delle caratteristiche di contagiosità del SarsCov2 un ingresso sulla scena ad agosto del 2019 avrebbe dovuto causare un’ondata epidemica già nell’autunno 2019, a meno che la contagiosità e virulenza siano cambiate nel tempo; insomma se ne sa ancora troppo poco. E’ vero, diamo alla scienza il tempo per accumulare conoscenze valide e solide, e chiediamo alla sorveglianza e alla sanità pubblica di essere preparati, ed esigiamo dalla comunicazione di essere rispettosa dei diversi ruoli, soprattutto alla luce delle conseguenze di ciò che si fa. A cosa serve strologare sull’incipit della circolazione del virus? Serve molto più essere certi che i sistemi di sorveglianza sono pronti ad allertarsi quando compaiono entità nuove con frequenza insolita in circostanze non attese e riconoscerne l’origine e le conseguenze, cosa che la sanità pubblica internazionale sta facendo bene e che può ancora migliorare.
Dopo una recrudescenza dei contagi molti riflettono sulle insufficienze e le mancanze, in particolare quelle dei decisori pubblici. Un suo collega dell’Università del Sannio, l’economista Emiliano Brancaccio, non esita a riproporre una moderna logica di pianificazione per ridurre le vittime del virus e per ridurre le conseguenze sociali ed economiche. Dal suo osservatorio piemontese lei che ne pensa? Quali sono secondo lei le principali linee di intervento da adottare nell’immediato per correggere gli errori più evidenti?
L’esperienza di questi mesi non fa che confermare quando sia importante la governance di un sistema, sia esso globale, europeo, nazionale, regionale o locale. Ad ogni livello di responsabilità corrisponde un insieme di ruoli, strutture, meccanismi che permettonon ai diversi attori di concorrere all’identificazione di un problema, delle sue cause, delle relative azioni di risposta, degli interventi di sostegno che i vari attori devono mobilitare per le azioni e del monitoraggio dei processi nonché della rendicontazione dei risultati. La maturità e qualità della governance è garanzia della logica di pianificazione di cui parla Brancaccio. Non a caso a livello nazionale uno dei punti di debolezza è stata la divisione dei compiti e responsabilità tra livello centrale e regionale. Non a caso a livello trasversale la tensione maggiore si è verificata tra la forza fattuale degli indicatori epidemiologici e la difesa dell’autonomia di scelta delle persone e delle comunità. Divisione dei compiti e conflitto tra valori in gioco (beneficio di salute verso libertà) sono solo due degli aspetti intrinsecamente dialettici che hanno bisogno di essere ricomposti attrevsro strutture e meccanismi condivisi di governance.
E’innegabile che una riflessione intorno a una riforma organica del SSN andrebbe avviata. Qualche accenno lo si è visto, anche se si fatica molto mettere in discussione l’impianto aziendalista partito dal 1992. Perché secondo lei non si riesce ad uscire da questa sorta di “stato di natura” di impostazione liberista che ha dato risultati così negativi?
L’impianto aziendalista è nato dalla crisi del debito pubblico del 1992, la resilienza del servizio sanitario nazionale (SSN) recente è stata indebolita dalla crisi del debito pubblico del 2011-12. In entrambi i casi si è scelto di ancorare i LEA e il SSN alle risorse disponibili. Nel caso dell’ultima crisi il SSN ha dato un contributo sostantivo alla sostenibilità del debito pubblico con una mancata crescita del finanziamento che ha costretto il SSN a tarare la propria offerta in modo proporzionale al fabbisogno ordinario. Sforzo lodevole per mettere i conti a posto in condizioni ordinarie, peccato che la pandemia abbia fatto irruzione su queste condizioni ordinarie con uno stress straordinario sul fabbisogno di assistenza, che un sistema ricalibrato su misura per il fabbisogno ordinario non ha saputo reggere.
Riformare è molto più difficile che controriformare. Qualora si decidesse di andare verso un percorso riformatore vero e non solo evocatore dei valori della 883, occorrerebbe confrontarsi con un mondo intorno alla sanità che è cambiato radicalmente. Per evitare che l’unica cosa che non fa i conti con la complessità sia la sanità (con eventuali cambiamenti di “contenitore” poco attenti al contenuto…) cosa occorrerebbe fare?
Alcune innovazioni sono scontate. Svecchiare i funzionamenti del sistema a tutti i livelli con digitalizzazione e investimenti formativi è una priorità di cui si è toccata con mano l’urgenza in corso di pandemia: un fascicolo elettronico ben consolidato sarebbe stata la piattaforma naturale di un sistema informativo essenziale per sostenere il carico del test, tracciamento e isolamento/quarantena dei casi e dei contatti con adeguata tempestività. Riordinare in pratica l’assistenza primaria insieme alle cure intermedie valorizzando le lezioni apprese dalle esperienze delle case per la salute, dando priorità agli obiettivi del piano cronicità. Disciplinare il technology assessment e promuovere più appropriatezza per ridurre la variabilità non giustificata di comportamenti professionali e organizzativi. Investire nell’edilizia e infrastruttura ospedaliera obsoleta. Governare in modo più mirato l’integrazione tra erogatori prvati e pubblici. Altre innovazioni sono più radicali e riguardano, nel campo della prevenzione, la definizione di target ambiziosi e raggiungibili di promozione della salute (ad esempio sul sovrappeso e il tabagismo), l’integrazione della sanità col sociale in una ottica di welfare di comunità, una corale attenzione all’audit dei processi e dei risultati consapevole che le disuguaglianze di salute sono probabilmente la metrica di valutazione più capace di identificare margini di miglioramento.
La competizione tra casa farmaceutiche per fornire un vaccino si sta sviluppando secondo una linea per molti versi tipica di quel mondo. L’opacità domina in combinato disposto con le attese delle persone comuni e l’ambiguo ruolo di Governi e decisori pubblici. Quali dovrebbero essere a suo parere le azioni da mettere in campo per fare un poco di chiarezza e per democratizzare questo delicato tornante per la salute pubblica?
Parlo abbastanza da profano in questo ambito e confesso che sono abbastanza soddisfatto dal modo con cui le agenzie regolatorie e il nostro paese stanno cercando di governare (per quanto di loro competenza) la ricerca, l’approvvigionamento e la pianificazione della vaccinazione. A livello globale sono meno informato.
Un’ultima domanda. A cosa sta lavorando in particolare in questo periodo con i suoi colleghi? Quale progetto le interesserebbe sviluppare, magari proprio ispirato dalle difficoltà e sofferenze di oggi?
Molte sono le linee di lavoro inaugurate con la pandemia. Le cito in disordine per mettere il lettore sul gusto di approfondire (basta cercare in rete le relative sigle). La pandemia ha facilitato la creazione o il rinforzamento di reti di attori e situazioni capaci di aumentare il grado di partecipazione indirizzo e controllo sulle politiche: ASVIS per la sostenibilità e il Forum Disuguaglianze e Diversità per i determinanti sociali tra quelli già consolidati; tra i nuovi: Riabitare l’Italia per il territorio, Prima la Comunità per il welfare locale generativo, CCW il centro del welfare culturale… Si tratta di risorse di competenze, esperienze e capacità di mobilitazione che riconoscono la salute e le disuguaglianze di salute come una metrica essenziale per orientare una economia e una finanza di impatto verso risultati più giusti e sostenibili di benessere. Inoltre l’’Italia per la prima volta guida una Joint Action europea e lo fa sul tema dell’equità nella salute: si chiama JAHEE e mira a accompagnare 24 paesi a fare progressi significativi nella risposta delle politiche alle disuguaglianze di salute, anche con attenzione all’impatto disuguale della pandemia. In questa scena manca la voce di chi vive le impronte sulla salute dello svantaggio sociale, a questa lacuna viene in soccorso una rete globale di street journalist/blogger a cui partecipa l’Italia che raccoglie storie dal campo e le proietta all’attenzione un po’ distratta di chi fa ricerca, di chi decide le politiche, ma anche del pubblico e dei mezzi di comunicazione; si chiama Other Front Line.
Alberto Deambrogio
Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
Intrevista pubblicata sul numero di dicembre del mensile
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