Quando il maschilismo si fa scienza medica
Siamo spesso portatə a credere, quando si parla di maschile universale, che la questione sia puramente convenzionale; per cui capita di sentire che, ad esempio, il fatto di utilizzare il maschile sovraesteso sia figlio di un’epoca che sopravvalutava l’uomo a discapito della donna ma che, oggi, possa essere considerato una sorta di elemento linguistico vestigiale che non sottende né alimenta concrete discriminazioni di fatto. In realtà, la lingua, rappresenta, perpetra e ricrea la realtà, in una sorta di circolo vizioso per cui non è facile evincere dove e quanto le parole condizionino la visione del mondo e dove e quanto una data prospettiva si rifletta in un preciso uso del linguaggio.
Quel che invece sappiamo con certezza è che, come scrive Caroline Criado-Perez in quel trionfo di analisi di dati raccolti e di dati mancanti che è Invisibili: «Vivere in un mondo costruito a misura di maschio può costare la vita». E perché sia chiaro quanto quest’affermazione non sia iperbolica ma da intendersi letteralmente, vorrei qui indagare uno specifico risvolto pratico della concezione della donna come altro per antonomasia, come uomo difettato o, al massimo, in miniatura, evidenziando in che modo ciò arrivi a produrre pericolose discriminazioni in campo medico e farmacologico, con effetti deleteri e in buona parte noti; effetti misurati, pur senza che i dati abbiano ancora determinato una modifica radicale del sistema, né innescato uno specifico approfondimento degli studi riguardo il corpo e la fisiologia femminili.
Negli ultimi anni si sono certamente fatti dei progressi in tal senso, ma la questione è sconosciuta alla stragrande maggioranza delle persone e talvolta sottovalutata anche in ambito accademico.
Intendo affrontare la questione presentandola sotto tre aspetti, differenti e insieme tangenti, dai quali si evidenzia come il femminile venga compreso e compresso nel maschile, spesso in modo del tutto inconsapevole, come fosse tanto ovvio quanto inoffensivo; come se concepire l’uomo quale neutro universale non avesse conseguenze nefaste. I tre aspetti sono: la sottovalutazione clinica del dolore femminile; la minor efficacia dei farmaci sulle donne in ragione della loro risicata presenza nelle fasi di sperimentazione; l’ignoranza della sintomatologia specificamente femminile riguardo alcune patologie. Mi rendo conto che l’operazione di estrema sintesi che sto tentando di mettere in piedi, addensando in un unico discorso argomenti che meriterebbero trattazioni specifiche e articolate, mi espone al rischio della vaghezza, ma l’obiettivo è solo quello di aprire un varco e, quindi, una ferita nella nostra percezione da cui far filtrare dubbi: domande più che risposte. Non c’è alcuna pretesa di esaustività. Ciò nonostante, al termine dell’analisi, proverò a tirare le somme del discorso per rilanciare la questione in termini sistemici.
Dolore oltre la soglia:
“È tutto nella tua testa!”, edulcorazione moderna per: “Signora, lei è un’isterica!”
Sono trascorsi circa sei anni da quanto sono incorsa nell’articolo che mi ha aiutata a riconoscere come tali, l’irrisione e la prepotenza , i quali io stessa, avevo riscontrato personalmente nelle poche occasioni in cui ho avuto bisogno di recarmi al pronto soccorso. Nel pezzo, si raccontava la traumatica esperienza di una donna statunitense che, in preda a dolori lancinanti, era stata portata in ospedale dal compagno. Lì, si era ritrovata a fronteggiare reazioni di scherno, condiscendenza e sottovalutazione del suo dolore da parte del personale ospedaliero. Tra mezzi sorrisi, vari tesoro, non piangere o su, è solo un po’ di dolore, la donna attese ore prima di ricevere il trattamento di emergenza di cui aveva bisogno. Con una torsione ovarica in corso non ci sarebbe stato tempo da perdere. Eppure, sebbene la donna continuasse a definire di livello “undici” il suo dolore su una scala da uno a dieci, nessuno l’aveva davvero presa sul serio.
Le donne sono così melodrammatiche, in fondo, tutte prese dal costante desiderio di essere viste come eterne vittime. No?
Dal giorno in cui sono inciampata nel racconto di quell’esperienza, l’evidenza di una svalutazione sistematica dei resoconti delle donne riguardo la percezione della sofferenza, che sia fisica o psichica, mi è apparsa in tutta la sua evidenza e ho scoperto quanto i dati e gli studi disponibili sull’argomento rendano ormai incontrovertibili i risultati: esiste un bias cognitivo che fa di ogni donna in pena una Cassandra, condannata a non essere creduta.
Avevo già avuto modo di leggere o ascoltare racconti di violenza ostetrica, ma il tema della minimizzazione del dolore delle donne trascende il momento del parto e si estende all’intera esperienza di vita. Io stessa ho potuto testimoniare come e quanto la sofferenza femminile sia spesso ritenuta montata da un’innata tendenza alla sceneggiata, che avrebbe lo scopo di muovere a compassione e attirare l’attenzione su di sé. Persino di fronte a una patologia spesso invalidante come l’endometriosi -che colpisce una donna su dieci- la tendenza a non prendere sul serio le donne che lamentano dolore, come se fosse una condizione connaturata al loro genere, condizione che le Vere Donne dovrebbero essere in grado di sopportare senza fiatare, fa sì che ci vogliano dai quattro agli undici anni per avere una diagnosi. Già nel 2001, un celebre studio dal titolo The Girl Who Cried Pain affermava che gli uomini hanno maggiori probabilità di ricevere farmaci quando lamentano dolore di fronte al personale medico, le donne hanno maggiori probabilità di ricevere sedativi, il che rende patente il pregiudizio per cui, secondo moltə, esista l’elevata probabilità che il dolore femminile sia inventato o, comunque, immaginario. Nel rapporto si sottolinea come, malgrado la ricerca medica concordi sul fatto che siano biologicamente più sensibili al dolore rispetto agli uomini, le donne non vengano credute, vale a dire che è assai probabile che i loro sintomi vengano ricondotti a disagi di natura psichica.
Riguardo alla sofferenza emotiva e psicologica vera e propria, poi, in un breve saggio del 2014, Grande Teoria Unificata del Dolore Femminile, Leslie Jameson scrive:
« Fare eccessivo riferimento all’immagine della donna ferita è riduttivo, ma lo è anche negarla, rifiutandosi di indagare l’ampia gamma di bisogni e di sofferenze che la generano. Non vogliamo essere identificate con le ferite […] Ma ci dovrebbe essere permesso di averle, di parlarne, di essere qualcosa di più dell’ennesima ragazza che ne ha una. Dovremmo poter fare queste cose senza tradire il femminismo delle nostre madri».
E qui si evidenzia un altro problema, più interno alla condizione femminile, per cui noi stesse facciamo fatica a parlare dei dolori che proviamo o tendiamo a considerare debole e bisognosa di attenzioni la donna che ne parla. Se a questo si aggiunge il timore di non essere credute o di ricevere trattamenti paternalistici quando non di aperto scherno nei momenti di pena, ci ritroviamo nella situazione di non poter agire senza sbagliare, senza essere oggetto di una qualche forma di giudizio sommario. Per sconfiggere la millenaria narrazione della nostra debolezza, la feticizzazione della nostra sofferenza, l’idea che siamo eterne bambine bisognose di protezione, molte donne si sono rifugiate in una narrazione super-donnista per cui: possiamo fare tutto, non abbiamo bisogno di niente e di nessuno, smettiamola di frignare e facciamoci forza, ché qui nessuno regala niente a chicchessia, non siamo vittime, siamo potenti.
Eppure, il fatto di essere oggettivamente e platealmente vittime di violenze e discriminazioni non toglie alcun potere; le lacrime non annacquano la rabbia; il riconoscimento della propria condizione non impedisce un’azione affermativa. Può invece diventare pericoloso parlare di vittimismo quando una donna manifesta un qualunque dolore, giacché si rischia di credere che se una donna non riesce ad aderire a un modello di resistenza fiera, indomita e forte, se si mostra schiacciata dalla violenza o dall’oppressione subita, allora debba essere ricacciata nel calderone delle cattive femministe, di quelle che porterebbero il movimento su posizioni di arretramento politico e socio-culturale. Eppure non è fingendo di non provare dolore quando lo proviamo che conquisteremo l’ascolto e lo spazio che meritiamo.
La costola di Adamo:
“L’uomo misura di tutte le cose; di quelle cose che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono”.
Tante volte abbiamo sentito dire, di fronte alle nostre rimostranze per l’uso di “uomini” per intendere l’intera nostra specie, che “con uomo si intende anche donna”. Ma quanto Platone, nel Teeteto, fa dire a Protagora che l’uomo è metro di ogni cosa, con “uomo” non intende affatto anche la donna, intende esclusivamente il maschio, così come lo intendeva Darwin scrivendo L’origine dell’uomo, allo stesso modo di come l’intendevano i rivoluzionari francesi scrivendo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Ora certamente le cose sono molto diverse, ma per molti aspetti e in molti campi lo sono soltanto in teoria. Uno di questi campi è la ricerca biomedicale e farmacologica, dove persino le cavie da laboratorio sono per lo più di sesso maschile, così come risulta di sesso maschile la larga maggioranza dei soggetti sottoposti a trial clinici -specie nella fase I, ma anche nelle fasi II e III-. I risultati, però, vengono presentati come validi anche per le donne. Ciò accade persino quando la patologia per cui si cerca una cura colpisce per lo più la popolazione femminile, come nel caso della depressione o dell’emicrania. E quando pure le donne vengono incluse negli studi, molto spesso, i farmaci vengono somministrati quando si trovano all’inizio della fase follicolare del ciclo mestruale, vale a dire quando estradiolo e progesterone sono al minimo e le donne, da un punto di vista fisiologico, somigliano di più agli uomini. Anche rispetto ai vaccini, in generale, compreso il vaccino anti-Covid, è provato che gli effetti collaterali sono assai più pesanti e frequenti nelle donne, sia in virtù di una risposta più potente da parte del sistema immunitario, sia per via dei livelli ormonali, delle variabili genetiche e dei dosaggi.
Gli studi che escludono l’ipotesi che vede la donna come un uomo in miniatura, presentando differenze specifiche sul piano cellulare, immunitario, ormonale, sono ormai conclusivi, ma il dato non ha determinato grande rivoluzioni né per gli insegnamenti accademici né per la ricerca sul campo, ma solo qualche accenno alla questione in corsi specifici e qualche aggiustamento legislativo cui risulta facile trovare scappatoie. Le giustificazioni addotte per la mancanza di una ricerca approfondita e sistematica riguardo il funzionamento del corpo femminile e le sue peculiari risposte ai trattamenti, ai dispositivi biomedicali o ai farmaci parlano della “difficoltà di studio legata ai cicli ormonali”, o della “difficoltà a reperire volontarie”, o dal fatto che sia “troppo costosa”. Motivazioni che suonano come scusanti inaccettabili se si considera che la principale conseguenza della scarsa inclusione delle donne nella ricerca farmacologica è che le medicine non funzionano per le donne e, in molti casi, possono anche avere effetti gravemente invalidanti, finanche mortali.
Anche in Italia la questione comincia a essere sollevata con maggiore decisione. Uno dei migliori documenti in tal senso è Introduzione alla farmacologia di genere, in cui le dottoresse Franconi e Campesi evidenziano che:
«Le donne dovrebbero essere maggiormente arruolate [nella sperimentazione, ndr] e la loro variabilità dovrebbe essere presa in considerazione: i cambiamenti ormonali, la gravidanza, le terapie ormonali influenzano la farmacocinetica e i parametri farmacodinamici». E ancora: «Nelle donne c’è una maggiore incidenza di effetti collaterali dei farmaci, e sono anche più gravi, mentre le interazioni farmacologiche potrebbero essere sesso-specifiche. In conclusione, c’è la necessità di implementare nuove strategie sperimentali che integrino i concetti di sesso e genere e consentono di migliorare l’efficacia e la tollerabilità delle cure farmacologiche».
Come scrive, Criado-Perez, in termini assai più duri eppure del tutto condivisibili: «Che tutto ciò accada ancora oggi, nel XXI secolo, è un vero e proprio scandalo che andrebbe denunciato a gran voce dai giornali di tutto il mondo. Ci sono donne che muoiono, e la scienza medica è complice della loro morte».
Atipiche:
La misconosciuta sintomatologia femminile
A differenza di quello raccontato da Betty Friedan ne La mistica delle femminilità, il problema della sconoscenza dei sintomi tipicamente femminili e il fenomeno per cui le donne che li manifestano rimangono vittime di errori diagnostici e terapie inefficaci un nome ce l’ha: si chiama Sindrome di Yentl e può avere conseguenze letali. L’espressione è utilizzata fin dal 1991, in seguito alla pubblicazione dell’omonimo saggio accademico di Bernardine Healy, in cui riecheggia il titolo del film di Barbra Streisand, dove la protagonista è una donna che si finge uomo per ottenere l’educazione che desidera. Nel caso della sindrome, però, le donne dovrebbero arrivare a fingere sintomi più specificamente maschili per non avere il cinquanta percento di possibilità in più di morire d’infarto. Ancora oggi, a trent’anni dall’uscita di quello studio, cui sono seguite sonanti e continue conferme, capita assai di frequente che i sintomi d’infarto tipicamente femminili siano considerati atipici, e perciò difficilmente associati a un infarto in corso. Eppure, le donne soffrono più degli uomini di patologie cardiache e sono esposte a maggior rischio di morte in seguito ad attacco di cuore, specie nel caso di donne giovani. Ciò è dovuto sia al fatto che le cure efficaci per gli uomini in termini di prevenzione si rivelano per lo più inefficaci per le donne, sia al fatto che il personale sanitario non riconosce come allarmanti i sintomi tipicamente femminili. Il dolore al petto e al braccio sinistro – per lo più presenti nei maschi – viene considerato il principale campanello d’allarme, mentre sintomi assai frequenti nelle femmine, in particolare in quelle giovani -come la dispnea, la nausea e il senso di affaticamento- vengono classificati come anomali e, perciò, sottovalutati.
Problemi simili riguardano la diagnosi di tubercolosi, che nelle donne determina lesioni polmonari meno evidenti, ma anche le diagnosi relative al deficit di attenzione e iperattività, alla sindrome di Asperger e all’autismo che, in ragione delle diverse forme di socializzazione riservate alla femmine, si presentano in maniera più subdola e con una sintomatologia che differisce decisamente da quella considerata canonica. Nel caso dell’ADHD, ad esempio, le bambine si presentano meno iperattive ma risultano distratte, disorganizzate e introverse. Riguardo l’autismo, solo di recente si comincia a ipotizzare che a una diagnosi di spettro autistico, nelle donne, potrebbero accompagnarsi dei disturbi alimentari, una correlazione fino a ieri inesplorata in quanto non presente negli uomini.
Sono molti gli esempi che si potrebbero fare. Specie se si considera che ho tenuto fuori dall’analisi le problematiche specificamente femminili come le complicazioni talvolta mortali che si manifestano durante la gravidanza o il parto (spesso dovute a contrazioni deboli), questioni per cui non viene fatta neppure la metà degli sforzi di ricerca e innovazione spesi per risolvere problemi come la disfunzione erettile. Nonostante le omissioni, però, confido nel fatto che il concetto sia chiaro. Naturalmente, le donne che vivono condizioni di svantaggio economico, ancor più se appartengono a minoranze, presentano fattori di rischio anche più elevanti: da una recente ricerca del Geroge Institute risulta che le donne povere abbiano il venticinque percento di possibilità in più d’incorrere in un attacco cardiaco rispetto agli uomini della stessa fascia di reddito.
Come che sia, ogni volta che mi è capitato di discutere l’intera questione con qualcunə, spesso mi mi è stata proposta, come obiezione, l’ennesimo mito che, da ultimo, intendo sfatare: se tutta questa discriminazione medica è reale, allora perché le donne vivono più a lungo? Tanto per cominciare, la distanza nell’aspettativa di vita va riducendosi di anno in anno (attualmente, in Europa, è di solo 3,5 anni), ma se la maggiore longevità femminile è nota a livello planetario, è quasi del tutto ignoto che gli ultimi anni di vita delle donne siano per lo più caratterizzati da cattiva salute e condizioni invalidanti. Un documento dell’Oms del 2013 sulla salute femminile nell’UE afferma che «persino nei paesi più longevi, le donne vivono per almeno dodici anni in cattiva salute». Negli USA, il cinquantasette percento delle persone con più di sessantacinque anni è donna, ma sul totale delle persone anziane che hanno bisogno di assistenza quotidiana, le donne arrivano al sessantotto percento.
Conclusioni
Un problema solo femminile?
Se, da un lato, appare chiaro come la scarsa considerazione del dolore delle donne, delle specificità del loro corpo e dei loro sintomi produca danni concreti e misurabili, esistono casi in cui il maschilismo inconsapevole presente in campo medico-farmaceutico fa male anche agli uomini. I danni del capitalismo patriarcale e coloniale, come sempre, si spalmano sul novantanove percento della popolazione, pur con diversi gradi di intensità e infinite variazioni. Nel caso della depressione, ad esempio, uno studio svedese del 2017 dimostra che, se è vero le donne vengono classificate come “depresse” e imbottite di psicofarmaci anche quando dichiarano di non esserlo, agli uomini viene negata sia la diagnosi che l’accesso ai farmaci, anche se si dichiarano più spesso depressi rispetto alle donne. Se a questo si aggiunge come gli uomini siano meno inclini a cercare aiuto psicologico o a parlare della loro salute mentale con amicə e parentə, vittime della pressione sociale che li vuole dominanti, in controllo, appare più chiaro il perché, ancora oggi, il tasso di suicidio sia più alto negli uomini.
Ora, nessunə qui ha quell’ingenuità necessaria per appellarsi alla magnanimità del capitalismo: finché non reputerà conveniente studiare e curare le donne, non è certo scrivendo appelli alle case farmaceutiche che troveremo una soluzione. Quello che mi pare possibile e fondamentale fare ora, qui, è informarsi e sensibilizzare quante più persone possibile riguardo certi temi, organizzare boicottaggi e proteste su larga scala e – soprattutto- invertire il paradigma sociale che, fino a oggi, ha inteso il concetto di lavoro salariato come superiore a quello di cura, il concetto di produzione superiore a quello di semina, o l’idea che sia malato tutto quel che non è normalizzato. Forse, come scrive Johanna Hedva ne La Teoria della Donna Malata dovremmo:
«Assumere la pratica, storicamente femminilizzata e quindi invisibile, del curare, del nutrire, del prendersi cura. Prendere sul serio la nostra reciproca vulnerabilità, fragilità e precarietà e sostenerla, rispettarla, attribuirle potere. Proteggersi a vicenda, mettere in atto e praticare la comunità. Una parentela radicale, una socialità interdipendente, una politica della cura».
Intanto, cominciamo a parlarne. Pretendiamo che chi di dovere renda conto di quanto fa e non fa per garantire a chiunque le migliori cure possibili. E non esiste cura che non cominci da gesti tanto ovvi quanto rari: l’ascolto e la fiducia. Crediamo al dolore delle donne, alla depressione degli uomini, alla sofferenza di tutte le persone che sono altrə e che sussurrano la loro debolezza. Abbiamo corpi fragili e menti labili. Ci vuole coraggio, sì, ma solo una rete di solidarietà può offrirci la concreta possibilità della liberazione da un costante e castrante stato di necessità.
Benedetta Penneli
29/5/2021 https://www.intersezionale.com
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