Quando le normative servono a contrarre solo diritti e salari
Bisogna essere europei, guardare oltre i confini, aprirci alle innovazioni, superare rigidità e ampliare le nostre vedute. Queste e tante altre le esortazioni atte a giustificare le politiche intraprese da 30 anni ad oggi
Sarà poi vero il presunto provincialismo italiano, una sorta di chiusura culturale dettata dalla nostalgia dei tempi che furono e tale da impedire alla classe politica e imprenditoriale del paese di aprirsi ai processi innovativi?
Il problema è rappresentato dalla vulgata affermatasi con in solito sapiente utilizzo delle fake news, una menzogna ripetuta 100 volte diventa verità assoluta e per rendere meno amara la notizia esistono trasmissioni capaci di bruciare i residui neuroni degli italiani.
Forse la facciamo troppo semplice ma se siamo il popolo che acquista meno giornali e libri possiamo anche supporre che il potere dei mass media in Italia sia particolarmente forte e tale da manipolare coscienze.
L’Ue non rappresenta il bene o il male assoluto, sarebbe già sufficiente ripercorrere la storia di alcune controriforme in materia previdenziale e lavorativa per capire che l’innalzamento dell’età pensionabile, la riduzione dei salari e del potere di contrattazione hanno risposto a precisi dettami comunitari, cosi’ come dalla Ue sono arrivate le disposizioni per liberalizzare il trasporto aereo (tra spezzatini di appalti e privatizzazioni si sono già persi tanti posti di lavoro) e rimuovere ogni limite al subappalto.
Per superare la crisi da sovrapproduzione e la concorrenza di altri poli capitalistici il vecchio Continente ha dovuto ridurre le spese per sanità ed educazioni, ripensare al vecchio welfare, ridurre gli ammortizzatori sociali ai minimi termini.
Germania e Francia svolgono un ruolo decisivo per proteggere i loro interessi nazionali, al contrario l’Italia ha ceduto, in nome dell’Europa, alle privatizzazioni accompagnate dalle delocalizzazioni produttive e dagli ammortizzatori sociali per impedire ad alcune multinazionali di lasciare il territorio italiano.
Governi di differente colore hanno seguito percorsi analoghi di subalternità , se non proprio di sudditanza, rispetto ai poteri forti, si sono salvate le banche con i soldi pubblici senza mai pensare alla loro statalizzazione, anzi parlare di pubblico o di stato sembra quasi un tabu’, cedere al passato e non guardare al futuro.
In realtà, a forza di ripetere il solito concetto, anche chi dovrebbe sospettare per principio delle liberalizzazioni ha finito con l’accettarle pensando di gestirne i processi. Il caso Ilva è la sconfitta dell’idea che cordate straniere possano venire in Italia e farsi carico della bonifica dei territori e del rilancio della produzione, è già avvenuto a Piombino e in tante altre regioni con lo Stato e le istituzioni locali che cercano solo acquirenti stranieri senza alcuna effettiva verifica, e controllo, dei piani industriali.
Piombino e Taranto sono la dimostrazione di uno Stato assente per principio che rinuncia, in nome delle liberalizzazioni, di farsi carico della bonifica dei territori e della riconversione produttiva ma alla fine, per non spendere, finisce a regalare ai nuovi arrivati fiumi di soldi attraverso gli ammortizzatori sociali.
Imporre al nostro paese di rimuovere ogni limite al subappalto determina la riscrittura del codice degli appalti ma fa ipotizzare processi incontrollabili che si ripercuoteranno negativamente solo sulla forza lavoro.
E’ ormai storia, dove il subappalto domina diminuiscono i salari, si affievoliscono le normative in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, si indebolisce il potere di acquisto e di contrattazione. Queste, ed altre situazioni, nei prossimi anni saranno sempre piu’ diffuse proprio per rispettare il dogma comunitario
Come è divenuto impossibile arginare il subappalto , è altrettanto impossibile per i contratti collettivi vietare l’utilizzo di rapporti lavorativi flessibili previsto dalla legge ma questa volta non lo dice l’Europa ma una sentenza recente della Corte di Cassazione (29423/2019) che si riferisce per ora al solo lavoro intermittente ma è destinata ad aprire una voragine nella stessa contrattazione collettiva. Se esistono contratti sfavorevoli e precari (pardon flessibili) questi contratti vanno applicati nei contratti nazionali, ergo la sentenza farà giurisprudenza e cosi’ potranno, i datori di lavoro, ridurre ulteriormente il peso del contratto a tempo indeterminato full time divenuto sempre piu’ raro nel panorama lavorativo odierno.
La parte sindacale non ha quindi alcun potere contrattuale o di veto, deve solo subire quei contratti precari che non ha saputo, anzi voluto, contrastare negli anni scorsi, quei contratti che ci raccontavano essere diffusi nel vecchio Continente e cosi’ innovativi da avere rilanciato le economie del Nord Europa.
Saranno quindi rivisti tutti i contratti nazionali e locali che prevedono limiti nell’utilizzo dei contratti flessibili, magari escludendo l’apprendistato in taluni casi o non prevedendo il lavoro intermittente in altri. E potranno farlo in virtu’ di una sentenza di Cassazione che farà giurisprudenza.
Ma se è cosa risaputa che la Giustizia borghese non sia amica degli operai, cosa dovremmo dire ai sindacati firmatari dell’accordo Milano città turistica che prevede contratti anche per la semplice durata di una fiera e giustifica il precariato in nome di una stagionalità sempre piu’ diffusa?
Dovremmo ricordare quanto avvenuto anni fa con i contratti ad hoc per l’Expo e prendere atto che i sindacati firmatari dei contratti non possono contrastare la flessibilità ma solo cogestirla con le associazioni datoriali. E per la stessa ragione, mentre i contratti si precarizzano e i sindacati si fanno sempre piu’ arrendevoli, la loro subalternità ai dettami di Bruxelles e dei padroni determina la debacle della classe lavoratrice
Federico Giusti
24/11/2019 www.controlacrisi.org
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!