Quante donne servono per aggiustare la scienza
Più donne nella scienza e nelle tecnologie, è un obiettivo partito dalle grandi organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite o la Commissione Europea e si è allargato ai governi e anche alle imprese.
Le motivazioni per cui le agende politiche propongono una maggiore partecipazione delle donne nelle cosiddette STEM (science, technology, engeneering, mathematics) sono moltissime e riguardano: la partecipazione delle donne alla definizione del nostro futuro, la possibilità di dispiegare appieno il talento e il potenziale delle ragazze, la possibilità per le donne di partecipare a un mercato del lavoro più ricco e dinamico.
In un mondo in cui le tecnologie sono sempre più importanti e definiscono una parte rilevante del nostro benessere, avere più donne scienziate significa integrare il loro punto di vista e la loro esperienza nello sviluppo di nuove soluzioni. Sono obiettivi ambiziosi e per tradurli in realtà i passi da fare sono tanti: lavorare sugli stereotipi di genere che influenzano le convinzioni profonde su “cosa siamo bravi a fare” – il rapporto Pisa (Programme for International Student Assessment realizzato dall’OSCE) sottolinea come l’autostima delle ragazze nelle loro competenze matematico-scientifiche crolli nell’età delle medie e influenzi fortemente la scelta degli studi – ed eliminare tutte le forme di discriminazione ad ogni livello della carriera: dal recruitment ai Ceo.
Come si fa a raggiungere un obiettivo così ambizioso? La professoressa di Standford Londa Schiebinger coordinatrice del progetto US/EU “Gendered innovations” propone un approccio specifico per il contrasto delle discriminazioni nelle STEM, basato su tre ‘aggiustamenti’ strategici:
- Fixing the numbers of women: rivedere e riaggiustare il numero di donne, aumentandone la partecipazione e la rappresentanza.
- Fixing the institutions: organizzare le istituzioni, incoraggiando e promuovendo la parità di genere attraverso cambiamenti strutturali in enti e organizzazioni di ricerca (reclutamento del personale, progressione di carriera, ecc.).
- Fixing the knowledge: aumentare la consapevolezza di quanto sia importante un approccio di genere nel campo dell’innovazione, per raggiungere livelli di eccellenza in ambito scientifico e tecnologico, con ricadute positive sul business e sull’economia.
Facciamo una riflessione a partire da questi tre punti. Iniziamo da fixing the numbers, e prendiamo in esame un settore particolare, quello chimico farmaceutico. I dati di Almalaurea ci dicono che in questo settore le ragazze sono una netta maggioranza tra gli iscritti (il 63%), che provengono nel 90% dei casi da un liceo e che la loro motivazione è sì professionale ma soprattutto culturale, cioè credono che sia un settore in cui realizzare delle aspirazioni valoriali oltre che professionali. Molte di queste ragazze riusciranno a diventare ricercatrici, il settore farmaceutico è l’unico settore di ricerca industriale in cui le donne sono la maggioranza (il 53,84%, dati del rapporto She Figures, Commissione Europea). Andando avanti nelle carriere, secondo il rapporto di Farmindustria, nella farmaceutica le donne sono il 40% dei dirigenti e quadri, di più che in tutti gli altri settori dell’economia italiana (17%). Sono numeri molto positivi e incoraggianti.
Ci sono alcuni “ma”: il primo è che a cinque anni dalla laurea tre donne su dieci tornando indiatro non rifarebbero gli stessi studi mentre i coetanei uomini hanno un tasso di soddisfazione più alto. E questo è un campanello che andrebbe ascoltato. Il secondo “ma” riguarda gli incarichi di altissimo livello. Secondo il rapporto inglese Women Count che analizza le imprese nell’indice FTSE350 le donne sia nei comitati esecutivi che nei board sono veramente poche. Certo, è un dato aggregato e non c’è una corrispondenza immediata con il settore farmaceutico, quindi abbiamo cercato un riscontro esaminando gli organi associativi di Farmindustria per avere un’idea della presenza delle donne ai vertici del settore farmaceutico italiano.
Nello Statuto dell’Associazione si dice infatti che “Per rappresentanti delle imprese aderenti all’Associazione si intendono il titolare, il legale rappresentante quale risulta dal Registro dele imprese della Confindustria, un suo delegato formalmente designato e scelto tra i procuratori generali o ad negotia che siano componenti del Consigli di amministrazione o Direttori Generali. Sono altresì considerati rappresentanti dell’impresa, su delega formalmente espressa, gli amministratori, gli insistori e i dirigenti dell’impresa”. Ne risulta che purtroppo ai vertici i numeri sono meno incoraggianti: la presidenza (presidente e comitato) è tutta maschile, nella giunta dove siedono settanta membri le donne sono 9 su 70: il 12% se si aggiungono i sette membri invitati (di cui una donna) la percentuale non cambia. Quando arriviamo in cima il settore farmaceutico è in linea con gli altri settori produttivi: c’è una tendenza a restringere la partecipazione delle donne nelle posizioni apicali, il cosiddetto soffitto di cristallo.
I numeri delle donne nel settore farmaceutico non sono un’eccezione: ci sono diversi ambiti in cui le donne hanno superato gli uomini per numero di laureati, sono tendenzialmente pari alla base e nei livelli medi, ma non arrivano ai vertici; è il caso della magistratura, della medicina ma anche dell’editoria. E questo ci dimostra che per una vera realizzazione delle pari opportunità non basta che ci siano tante donne. Le organizzazioni pubbliche e private sono immerse nel contesto sociale e culturale in cui agiscono e, in un paese come l’Italia, con un indice di parità molto basso (14esima in Europa secondo Eige, l’Istituto europeo per la parità di genere), per agire delle trasformazioni serve un impegno politico importante.
Arriviamo così al secondo punto proposto da Schiebinger: fixing the institutions. Dopo anni di politiche per promuovere la partecipazione e le carriere delle donne nelle STEM, la Commissione europea ha operato un passaggio concettuale importante, ossia considerare le barriere discriminatorie, di tipo strutturale e culturale, tali da richiedere un intervento non soltanto sulle persone – sostegni e incentivi individuali alle carriere delle donne – ma anche sulle dinamiche organizzative, ai vari livelli delle organizzazioni scientifiche, pubbliche o private.
Le disparità che consolidano un regime di disuguaglianza nei luoghi di lavoro in ambito scientifico si producono in molti e diversi aspetti delle organizzazioni e sono spesso invisibili, e il loro superamento richiede uno sforzo sistemico di identificazione e di pianificazione di interventi strategici a più livelli che si può concretizzare nei gender equality plans.
I gender equality plans (piani di uguaglianza di genere) sono strumenti strategici, operativi e pensati su misura costituiti da una serie di azioni per: identificare le dimensioni della discriminazione di genere nell’organizzazione, identificare e mettere in atto strategie innovative per correggere qualsiasi tipo di disparità, fissare obiettivi e monitorare i progressi attraverso indicatori. I gender equality plans sono oggi uno dei principali strumenti per influenzare il cambiamento istituzionale sistematico attraverso l’individuazione di strategie di sviluppo delle risorse umane, della governance, dell’allocazione di finanziamento per la ricerca, della leadership e dei programmi di decision-making e di ricerca. Nei casi di maggior successo, la definizione e attuazione dei piani prevede un processo di monitoraggio, autovalutazione e valutazione che passa per l’individuazione di indicatori quantitativi, utili per misurare il livello di miglioramento della condizione delle donne e degli uomini nell’organizzazione rispetto alla fotografia iniziale.
Tali indicatori possono ad esempio essere: il numero di donne e uomini nelle posizioni apicali, il numero di donne e uomini leader in posizioni di middle management, il numero di donne e uomini che hanno accesso alle risorse strategiche dell’organizzazione, il numero di donne e uomini che partecipano alle attività previste dal piano, dati che consentano di monitorare la riduzione differenziale salariale di genere, il cosiddetto gender pay gap.
Abbiamo visto come i numeri siano importanti, ma anche che da soli non bastano, serve una trasformazione organizzativa che punti a risolvere le disuguaglianze generate dalla discriminazione. Quindi più donne e donne che decidono di più, ma questo non è sufficiente: per una vera parità bisogna che le donne siano oggetto e soggetto di ricerca.
Schiebinger propone un approccio fixing the knowledge che pone la questione della definizione e produzione di contenuti e conoscenze in cui il genere sia trasversalmente presente. Il punto diventa non solo avere più donne scienziate ma anche far entrare il genere nella ricerca, con la dignità di una categoria di analisi. Includere genere e diversità nella ricerca significa porsi il problema di trovare soluzioni tecniche e tecnologiche capaci di rispondere ai bisogni di tutti e, quindi, di migliorare le condizioni di vita di una larga fetta della popolazione. Di recente si sente molto parlare di medicina di genere, questo perché nel dialogo sociale tra pubblico, privato e società civile si è fatto largo il concetto che “è necessario garantire a ogni individuo, maschio o femmina, l’appropriatezza nella prevenzione, nella diagnosi, nella cura e nella riabilitazione considerando che le malattie comuni a uomini e donne presentano rilevanti differenze tra i due sessi non solo nell’incidenza, ma anche nella sintomatologia, nella prognosi e nella risposta ai trattamenti” (Marina Viola). La medicina di genere ha numerose implicazioni in termini di benessere delle donne e l’ulteriore conseguenza, non irrilevante, di produrre innovazione anche in termini di applicazioni innovative, guadagnando anche in apertura di nuovi mercati e creazione di nuovi posti di lavoro.
Fixing the numbers, the institutions, the knowledge è un approccio non solo di contrasto delle discriminazioni o teso ad aumentare il benessere delle donne (due motivazioni che da sole basterebbero a rendere necessarie delle misure) ma anche a dimostrare come la dispersione di talenti e la mancanza di uno sguardo di donna siano negative anche in termini economici, è quello che viene chiamato economic case for gender equality e su cui ormai sono d’accordo, fortunatamente, sempre più imprese nel mondo.
Questo articolo è uscito sulla rivista della Siarv (Società italiana attività regolatorie, accesso e farmaco vigilanza), n.75 a febbraio 2020.
Barbara Leda Kenny
18/02/2020 www.ingenere.it
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