Quanto costa essere donne in Italia
Dalla pubertà all’età adulta, essere donne in Italia significa dover sostenere costi senza essere supportate dalle politiche fiscali, con conseguenze sui diritti sociali, civili e riproduttivi nella vita di tutti i giorni
Secondo il governo Meloni, la missione delle donne deve essere quella di “fare figli”. Relegate così fortemente al ruolo di cura, non stupisce che le donne in Italia non vengano supportate economicamente, in nessuna delle fasi della loro vita. Dall’Iva sui prodotti igienico-sanitari e per la prima infanzia tornata al 22%, al promesso sgravio fiscale sull’Irpef, rivelatosi una beffa, fino al numero – ancora preoccupante – di lavoratrici con contratti a tempo determinato e part-time, a oggi l’unico sostegno sembra essere arrivato a parole.
Il primo ostacolo è “diventare donne”
Se pensiamo che dal menarca alla menopausa le mestruazioni accompagnano le donne per circa quarant’anni della loro vita, e a come, in questo lasso di tempo, l’acquisto di prodotti igienico-sanitari mestruali sia una spesa obbligata, iniziamo a capire gli ostacoli finanziari a cui una donna nel nostro paese si trova sottoposta proprio dal momento esatto in cui donne “si diventa”.
La spesa media annua per l’acquisto di assorbenti è di circa settanta euro, ma può variare notevolmente a seconda dell’intensità del flusso mestruale e della scelta del prodotto. Per i primi anni, verosimilmente la spesa sarà sostenuta dalla famiglia, con un impatto considerevole su quelle più numerose e a maggioranza di componenti di genere femminile.
L’Iva sugli assorbenti – che risultano ancora la scelta preferenziale fra i prodotti disponibili per il ciclo mestruale in Italia – è rimasta al 22%, ovvero equiparata ai beni di lusso. Fino a quando, nel 2022, il governo Draghi l’ha ridotta al 10%.
Nella legge di bilancio varata nel 2023, lo stesso governo Meloni ha ulteriormente abbassato l’imposta al 5%, salvo poi fare marcia indietro con la legge di bilancio 2024.
Il motivo della decisione, secondo il governo, è legato al fatto che l’iniziativa non abbia portato a un calo significativo dei prezzi. Questo a causa dei rincari applicati dalle aziende produttrici, a cui però non è seguito alcun intervento istituzionale per limitare gli effetti di un comportamento scorretto.
Per la stessa ragione, il rischio è che alzando nuovamente l’imposta si assista a un aumento del prezzo finale dei prodotti.
Traducendo: il ciclo mestruale comporta uno svantaggio economico che accompagna le donne per circa metà del loro arco di vita, ma, in concreto, le politiche per mitigare questa enorme ingiustizia sono ritenute un costo eccessivo, che lo stato non intende sostenere.
Servizi e costi della salute riproduttiva
Dal raggiungimento della maturità sessuale fino alla scelta di diventare o meno madri, le donne si trovano poi ad affrontare un percorso a ostacoli che complica notevolmente la loro libertà individuale, limita l’accesso a informazioni essenziali per la loro salute e rappresenta un concreto impedimento per i percorsi di interruzione di gravidanza, mettendo a rischio la salute psico-fisica di chi li richiede.
È recente la notizia dello stanziamento di fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) a sostegno della presenza di associazioni dichiaratamente “pro-vita” nei consultori pubblici.
La misura si inserisce in una protratta assenza di politiche per garantire il funzionamento delle strutture sanitarie preposte alla salute riproduttiva. Dalla loro istituzione a oggi, i consultori non sono mai stati in numero adeguato a coprire il bacino di utenza sui territori e, anzi, sono diminuiti nel tempo rispetto alla popolazione.
Questa situazione, unita alla mancanza di percorsi obbligatori di educazione sessuale all’interno delle scuole pubbliche, si traduce per le persone in un mancato accesso agli strumenti per vivere e praticare con consapevolezza la propria sessualità.
Lo scenario non è roseo neppure per chi, per vie private e privilegiate, può accedere alle informazioni sui percorsi di pianificazione familiare e l’uso di contraccettivi.
Un esempio su tutti è quello della pillola anticoncezionale, che in alcune regioni d’Italia si può richiedere gratuitamente attraverso il consultorio locale, ma solo fino a una certa età (in Emilia-Romagna, ad esempio, il limite è 26 anni).
Per la maggior parte della popolazione, invece, il costo di una confezione oscilla tra i 15 e i 20 euro, per una spesa annua di più di 200 euro.
All’inizio del 2023, solo due mesi prima della riforma dell’ente voluta dal governo, l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) aveva avanzato la proposta di rendere la pillola anticoncezionale gratuita per tutta l’utenza, per un investimento totale di circa 140 milioni di euro.
Un sostegno importante che avrebbe reso la contraccezione sicura un diritto, e non un privilegio applicabile in base al reddito. L’intervento avrebbe anche allineato la situazione italiana con quella degli altri paesi europei, nella maggior parte dei quali sono già previsti prezzi fortemente calmierati ed esenzioni totali per le persone più giovani.
La manovra è stata bocciata in via definitiva dopo l’insediamento del nuovo Consiglio di amministrazione dell’Aifa.
Occupazione femminile, non basta un numero
Lo scorso 8 marzo, la Presidente del Consigilo dei ministri Giorgia Meloni ha ricordato come, “grazie al supporto di politiche concrete messe in atto dal nostro governo, abbiamo promosso l’occupazione femminile”.
La premier si riferiva ai dati Istat sul tasso di occupazione femminile relativi al 2023, che nell’ultimo trimestre dell’anno era arrivato al 53,4%, con un aumento di 1,4 punti percentuali rispetto allo stesso periodo nel 2022, toccando punte mai raggiunte prima.
Tuttavia, trarre delle conclusioni su questo dato non è così semplice.
Innanzitutto, se lo confrontiamo con la media europea, dove il tasso di occupazione femminile è pari al 69,3%, l’Italia resta indietro di circa 16 punti percentuali.
Inoltre, il dato è complessivo, e non tiene pertanto conto degli ampi divari tra il Nord e il Sud del paese: nel 2022, tutte le regioni dell’area meridionale italiana si attestavano su valori inferiori alla media nazionale.
Oltre alla disparità geografica, il report Donne e lavoro 2023 dell’Istat sottolinea anche come il lavoro femminile corrisponda per la maggior parte a lavoro “non-standard”, cioè part-time o con contratto a tempo determinato.
A tutto questo si aggiunge “una retribuzione oraria dell’11% inferiore a quella degli uomini, con differenze territoriali che variano tra il -13,8% nel Nord-ovest e il -8,1% nel Sud”.
Quando si parla di occupazione femminile, quindi, la situazione è ben più variegata e complessa di quella prospettata dal governo, e non riducibile a una sola cifra.
Infine, sorge qualche dubbio riguardo alle “politiche concrete” rivendicate da Giorgia Meloni.
Forse, con quella frase la premier si riferiva al bonus di 100 euro lordi una tantum in busta paga – per i nuclei familiari monogenitoriali o con stipendi cumulati fino a 28.000 euro, se con almeno un figlio o una figlia a carico – annunciato ad aprile 2024. Una misura poco più che di facciata, dal momento che si scontra con un’inflazione che, secondo le stime, è destinata ad aumentare dello 0,8% entro la fine dell’anno.
O, forse, il riferimento era alla misura per la detassazione nell’assunzione di lavoratrici donne: riservata a donne disoccupate da almeno 24 mesi e/o residenti nelle regioni del Mezzogiorno – una misura che non include alcun riferimento ai contributi pensionistici.
Accanto a queste il bonus mamma, una misura temporanea che privilegia le famiglie con più di due figli o figlie. Come se arrivare ad averne di più fosse un’impresa possibile senza sostegno iniziale.
Sarebbero utili, da parte di chi governa, dei chiarimenti riguardo sia alla la concretezza che all’efficacia di queste misure.
Madri che lavorano
Poniamo che si sia arrivate indenni fino al momento in cui, con consapevolezza, in piena libertà e con un posto di lavoro sufficientemente stabile, una famiglia la si voglia creare “sul serio”. A parole, si è sostenute dalla retorica identitaria della destra populista, che vede la “famiglia tradizionale” come caposaldo della società attuale.
Nei fatti, tuttavia, dal punto di vista del mercato del lavoro la notizia di una gravidanza viene accolta ancora troppo spesso con freddezza, poco supporto, fino a tramutarsi, nei casi peggiori, in un demansionamento, una riduzione dell’orario lavorativo o addirittura un licenziamento.
Ma cosa succede dopo aver avuto un figlio o una figlia?
Innanzitutto, come per gli assorbenti, l’Iva è tornata a essere tra il 10 e il 22% su molti prodotti per la prima infanzia, come pannolini o seggiolini per l’auto.
Per chi non dispone di una rete sociale di prossimità, poi, l’accesso all’istruzione e al supporto dai primi mesi di vita del bambino o della bambina è messo a rischio. Il numero di posti a disposizione negli asili nido, sia pubblici che privati, può accogliere solo il 28% di bambine e bambini, mentre la Commissione europea ha stabilito già da anni il 45% come soglia minima.
In questo contesto, le differenze tra il Nord e Sud del nostro paese sono lampanti e mai sanate – neppure dagli ingenti investimenti europei del Pnrr, rischiando, per di più, di essere acuite dal divario territoriale che riguarda la presenza di personale della pubblica amministrazione competente e in grado di recepire gli investimenti.
I genitori si trovano quindi di fronte a rette private che in alcuni casi raggiungono un quinto dell’intero reddito familiare.
Il governo attuale ha risposto al problema con una manovra fiscale che permetterebbe alle famiglie di percepire un aumento in busta paga grazie all’esonero dalla contribuzione previdenziale (pari al 9,19% della retribuzione, fino a un massimo di 3.000 euro l’anno) – il cosiddetto “bonus mamma” citato sopra, per donne lavoratrici che hanno almeno tre figli (in via sperimentale nel 2024 anche in presenza di due figli o figlie).
Ancora una volta non viene menzionata l’inclusione dei padri, che dovrebbero contribuire in maniera equa alla cura della famiglia.
In più, la misura interessa persone con un contratto di lavoro a tempo indeterminato – cosa assolutamente non scontata – e con almeno tre fra figli o figlie, situazione che riguarda meno del 5% del totale dei nuclei familiari.
Oltre alla platea molto ristretta a cui si rivolge, la misura di fatto è strutturata in modo tale che, all’aumentare del reddito imponibile, aumenti anche la maggiorazione percepita in busta paga, andando quindi ad avvantaggiare maggiormente chi già ha più possibilità di permettersi questi servizi.
Solo parole
In questi primi anni di attuazione, o, ancor prima, nella fase di annuncio, i “cambiamenti strutturali” proclamati dal governo e dalla destra che rappresenta si sono rivelati insufficienti in ogni fase della vita delle donne, se non semplici bandiere politiche da sventolare secondo necessità.
Mai come durante questo governo è poi risultato chiaro quanto il corpo femminile, e in generale i corpi non conformi, siano un elemento pericoloso, da normare a tutti i costi, fino a minacciare deliberatamente il diritto all’autodeterminazione delle persone.
Inoltre, è sempre più chiaro quanto il prezzo – letterale – per la ripresa demografica ricada ancora e sempre sulle spalle delle donne.
Se il reale – e non solo proclamato – interesse del governo è quello di sostenere le famiglie, allora si dovrebbe innanzitutto garantire l’autodeterminazione di ogni suo componente. Altrimenti sarà solo vuota e pericolosa retorica.
Silvia Colnaghi, Silvia Panini
3/5/2024 http://www.ingenere.it
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